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 2015  novembre 08 Domenica calendario

LIBRO IN GOCCE NUMERO 63

(L’ultima notte del Rais)

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LA VOCE CHE CHIAMÒ IL RAÌS –
Dittatore. «Io non sono un dittatore. Sono il custode implacabile, la lupa che protegge i suoi cuccioli mostrando i denti, la tigre indomita e gelosa che piscia sulle convenzioni internazionali per marcare il proprio territorio. Non so curvare la schiena o abbassare lo sguardo davanti all’arroganza. Cammino a testa alta, con la mia luna piena a mo’ di aureola, e calpesto i padroni del mondo e i loro vassalli».
Donne. «Le donne... Ne ho avute a centinaia. Di tutti i tipi. Artiste, intellettuali, vergini, domestiche, mogli di galoppini consenzienti o di cospiratori, me le facevo in serie. Il codice era semplice: posavo la mano sulla spalla della preda, la sera i miei uomini me la portavano su un vassoio d’argento, e le lenzuola di seta del mio letto si schiudevano perché il piacere trionfasse. […] Potevo disporre di tutti i tesori della terra, ma bastava che una donna mi rifiutasse perché tornassi a essere il più povero degli uomini».
Van Gogh. «La mia storia con Vincent Van Gogh risale agli anni del liceo. Sfogliando un libro illustrato prestatomi da un compagno di classe mi ero imbattuto in un autoritratto del pittore. [...] Ricordo che rimasi letteralmente ipnotizzato dal personaggio. Quest’immagine non mi ha più abbandonato. Si è incistata in una piega del mio inconscio e, come un agente in sonno, torna a popolare i miei sogni ogni volta che all’orizzonte si profila un evento straordinario. [...] Mi chiedo se il Libro Verde e il colore della bandiera nazionale che avevo scelto per la Libia non si ispirassero al cappotto di Van Gogh».
Leggenda. «Sino a undici anni sono stato considerato un bambino un po’ matto. Si parlò anche di ricoverarmi in una clinica psichiatrica, ma la mia famiglia era troppo povera. Alla fine, per riportare la calma nel villaggio, il clan decise di fare una colletta e mandarmi a scuola. Fu nei gabinetti della scuola, davanti allo specchio, che la Voce si manifestò per la prima volta. Mi assicurava che non avevo motivo di arrossire per la mia condizione di orfano, che il profeta Maometto non aveva mai conosciuto suo padre, e Gesù Cristo neanche. [...] A volte per sentirla meglio andavo a rifugiarmi nel deserto, dove potevo anche parlarle senza paura che gli impiccioni mi prendessero in giro. Fu allora che capii di essere predestinato alla leggenda».
Yunis. La morte del generale Abd al-Fatah Yunis, intercettato dagli islamisti e costretto a salire a bordo di un fuoristrada: «Ha tentato di saltare giù dal fuoristrada, allora l’hanno stordito e condotto in un hangar per interrogarlo. Lì l’hanno torturato con le tenaglie e la fiamma ossidrica, e poi gli hanno squartato il ventre con una sega».
Saddam. «Sii maledetto, Saddam Hussein! Perché ti sei lasciato prendere vivo e giustiziare nel giorno dell’Aïd? Avresti potuto spararti un colpo alla tempia privando i crociati del piacere di una danza macabra. Per colpa tua il profeta Maometto e la sua nazione non osano più guardare Dio in faccia... Io terrò la schiena dritta davanti al Signore. Lo fisserò negli occhi finché non sarà Lui a chinare il capo per non aver saputo lanciare uno stormo di ababil sui miscredenti che sbavano e defecano senza ritegno su una terra musulmana».
Fine. «Credevo di essere predestinato a una fine magnifica. Quando mi capitava di pensare alla morte, mi vedevo disteso nel mio letto di patriarca, circondato dai familiari e dai sudditi più fedeli. Immaginavo il mio corpo esposto nel palazzo presidenziale ornato di ghirlande e bandiere, con sovrani e autorità arrivati dai quattro angoli del pianeta per osservare lunghi minuti di silenzio davanti alla mia spoglia cosparsa di fiori, poi il feretro su un carro drappeggiato di orifiamma che filava lungo i viali di Tripoli seguito da un folla inconsolabile. Mi sbagliavo».
Giorgio Dell’Arti, Domenicale – Il Sole 24 Ore 8/11/2015