Pierluigi Battista, la Lettura Corriere della Sera 8/11/2015, 8 novembre 2015
LA SOCIETA’ DELLE PAURE
Siamo diventati paurosi, sempre all’erta, inquieti. Vediamo pericoli da tutte le parti. Ci nevrotizziamo per un nonnulla. Nel suo film Heart of a Dog Laurie Anderson, la vedova di Lou Reed, racconta che il suo amatissimo cane, aggredito all’improvviso da un falco in picchiata, divenne irrequieto e terrorizzato da tutto perché gli crebbe dentro la sensazione che il pericolo venisse da ogni parte, da dietro, da destra, da sinistra, ma anche dal cielo: un pericolo onnipresente, perennemente in agguato. Noi tutti siamo oramai così, come il cane della Anderson: pensiamo che ovunque si annidino pericoli. Troviamo minaccioso il cibo che ingurgitiamo («la tracciabilità, la tracciabilità!»). L’aria che respiriamo. Le parole che adoperiamo. I libri che leggiamo. Le medicine che assumiamo. I film che vediamo. Tutto ci fa paura: sulla Terra, nelle città, dentro di noi. Dal cielo.
E infatti l’allerta meteo è diventato il nostro orizzonte quotidiano, la fonte inesauribile di incubi e infinite chiacchiere al bar («Hai sentito? Dicono che domani ci saranno temporali e scrosci violenti»). Aspettiamo con ansia l’acquazzone che chiamiamo bomba d’acqua per enfatizzarne l’aspetto apocalittico, temiamo l’estate con la sua «emergenza caldo» e l’inverno per l’«emergenza freddo». Non è che siamo diventati codardi e meschini, come il protagonista del film Forza maggiore , che per paura di una valanga lascia i suoi figli esposti alla furia degli elementi e fugge via, non prima di essersi assicurato di avere con sé il telefonino. Ma siamo diventati iper-ansiosi, che è diverso. Culturalmente ansiosi. Immersi in una società ansiosa. Dominati dalla società della paura.
Il benessere ci ha abituati a un’atmosfera di conforto continuo che fa apparire il minimo pericolo come una minaccia potenzialmente devastante. Superata la soglia della civiltà della sopravvivenza, archiviata l’età della miseria — quando la gente pativa la fame, i bambini morivano a sciami, e una tempesta, la nonna della bomba d’acqua, poteva sì rovinare per sempre chi viveva della sua terra — abbiamo anche perduto ogni familiarità con l’imprevisto, che adesso percepiamo come un incubo. Chesterton diceva che non credendo più in Dio, gli esseri umani secolarizzati si sono messi a credere a tutto. E infatti, entrati in una manciata d’anni nell’era dell’abbondanza di massa, dimenticati i fantasmi della penuria, della scarsità, delle ristrettezze, rimpinzati di pietanze che un tempo potevano permettersi soltanto i signori, voltiamo le spalle inorriditi a salsicce e «carni rosse», deturpate per sempre dall’etichetta «cancerogene».
Crediamo ciecamente a tutti i luoghi comuni e abbiamo paura della vituperatissima globalizzazione, raffigurata come un mostro. Invochiamo ancora barriere protettive e politiche dirigiste, aggrappandoci al fantasma dei grandi pericoli della globalizzazione per non voler ammettere che nel corso di pochi decenni centinaia di milioni di esseri umani in tutto il mondo sono finalmente usciti dall’orrore dell’indigenza assoluta e si affacciano per la prima volta a un livello di vita almeno passabilmente decente. Ci aggrappiamo alle virtù taumaturgiche del «bio», sperando che la natura non toccata dalla chimica possa evitare l’ecatombe, la cancellazione del nostro pianeta, o almeno il discreto funzionamento della nostra digestione, protetta da tisane e pozioni come ai tempi delle fattucchiere. Crediamo davvero che gli aerei rilascino sostanze che altererebbero per sempre l’equilibrio dell’universo e qualcuno prende sul serio persino le fantasie sulle «scie chimiche» rilasciate dalla Cia come fanno i cattivi di 007.
Come in un film dell’orrore ci tuffiamo nel brivido di epidemie invincibili, l’aviaria, la mucca pazza, la Sars, che puntualmente, e per fortuna, hanno finito per procurare effetti infinitamente meno catastrofici delle stragi di milioni e milioni di esseri umani, previsti dai pur patentati organismi internazionali, simili a quelli che ci terrorizzano sulla prossima catastrofe del global warming provocato dall’abuso dei frigoriferi.
La credulità è l’altra faccia della paura. Spesso è innocua. Talvolta diventa deleteria. Il terrore sconsiderato dei vaccini, che causerebbero l’autismo, spinge molti genitori a esporre i loro bambini a malattie che un tempo mietevano innumerevoli vittime e che oggi, grazie alla vaccinazione di massa, sono state quasi debellate. Se si legge quel meraviglioso romanzo che è Nemesi di Philip Roth, possiamo capire cosa sia stato il flagello della polio, e quanta sofferenza atroce è stata risparmiata a tanti bambini grazie all’uso dei vaccini. Oggi quel ricordo terribile, consegnato ai racconti dei nostri bisnonni, è scomparso, e la paura, l’allarme possono dilagare senza argini, travolgendo ogni difesa razionale. La paura alimenta anche l’idea che i bambini debbano essere difesi da tutti quei momenti della vita sociale che potrebbero alterarli, contrariarli, turbarli. Joshua Mitchell, lo ha notato sul «Foglio» Paola Peduzzi in un articolo che porta significativamente il titolo L’età dello sfinimento , ha preso in esame l’abitudine oramai senza freni di premiare tutti i bambini impegnati in una gara o in una competizione sportiva, anche quelli che arrivano ultimi o non avrebbero alcun titolo per salire sul podio, o ritirare una coccarda, una medaglia, un diploma: «Tutti prendono un premio perché così nessuno si senta ferito, o inferiore, o fallito».
Una cappa iperprotettiva alimentata dalla paura della sofferenza, dalla paura della frustrazione si stende su comportamenti, modi di dire, abitudini verbali che prima sembravano innocui e oggi vanno sradicati. La paura di offendere e turbare chicchessia impone la sterilizzazione del linguaggio, la censura e l’autocensura, il trionfo dell’eufemismo, l’apoteosi del lessico ipocrita e castigato. In alcuni atenei americani si è introdotto l’uso di un ideale bollino rosso con cui marchiare i classici della letteratura e segnalare il pericolo che qualcuno possa uscire offeso dalla lettura di una tragedia greca o di una commedia di Shakespeare. Nell’Università di Santa Barbara in California gli studenti hanno imposto al collegio dei docenti l’obbligo di mettere in guardia gli allievi e le allieve dai libri che, a cominciare dall’ Iliade , contengano scene di sangue, «abusi sessuali» o «violenza misogina» per non urtare la sensibilità di chi ha manifestato sintomi da «stress post traumatico» in seguito a prepotenze, soprattutto di segno sessista ma non solo, subite in passato. In pratica viene potenzialmente messa sul banco degli imputati l’intera letteratura, carica di stupri, violenza, assassini, parricidi, matricidi, conflitti cruenti per il potere e il denaro: altro che bollino rosso per il Raskolnikov che uccide un’usuraia in Delitto e castigo di Dostoevskij.
È diventata anche una pratica corrente depurare i testi dei libri per l’infanzia, censurandone le scene che potrebbero ferire la sensibilità dei bambini e il sindaco di Venezia mette al rogo i racconti per ragazzi in cui potrebbe far capolino qualche indizio sulfureo di «ideologia gender»: difendiamo i nostri scolari dai sette nani di Biancaneve. Negli Stati Uniti non fa nemmeno scandalo che persino in un classico della letteratura americana come Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain siano stati cancellati tutti i passi che potrebbero essere letti come un incitamento sia pur subliminale all’odio razziale. Twain razzista inconsapevole? L’ideologia della paura ha decretato di sì.
La paura suggerisce agli scrittori e agli intellettuali del mondo occidentale un atteggiamento prudente e remissivo, un rifiuto quasi risentito verso tutte le manifestazioni della libertà d’espressione che contengano il pericolo dell’«offesa», categoria onnicomprensiva che, se applicata alla lettera, dovrebbe annientare chissà quante opere dell’arte e della letteratura. Molti scrittori americani, tra i quali Joyce Carol Oates, hanno protestato perché era stato assegnato il Premio del Pen Club ai vignettisti ammazzati di «Charlie Hebdo», i quali avrebbero abusato della loro libertà d’espressione. Sulla rivista «Nuovi Argomenti» un questionario tra gli scrittori italiani ci ha fatto scoprire che nel mondo di chi scrive, e che dunque dovrebbe per mestiere e vocazione tenere almeno un poco alla libertà d’espressione, quest’ultima gode oramai di una bassissima reputazione, tanto da invocarne coralmente la castrazione rituale in un reticolo così soffocante di regole, norme, precauzioni, limitazioni da renderla totalmente inoffensiva. Letteralmente: così nessuno può offendersi.
Così come nella società del benessere e dell’abbondanza l’oblio della fame genera paure incontrollabili sul cibo, alimentando nevrosi alimentari e terrori indiscriminati, anche nel campo delle libertà il progressivo sbiadirsi del ricordo delle dittature rende più tenue il legame emotivo con conquiste che si sono imposte dopo secoli di coraggiose battaglie. Libertà d’espressione adieu , se il suo esercizio mette in forse la tranquillità, la sicurezza, lo spirito gregario e conformistico. La paura dell’originalità induce atteggiamenti più concilianti, atteggiamenti rinunciatari, lo smussamento degli angoli troppo acuminati.
L’allarmismo indiscriminato fa deperire lo spirito d’avventura, il brivido del rischio. Alla ricerca di emozioni forti, ci accontentiamo di giochi demenziali tipo «Survivor» che diano il senso di una vita senza le reti protettive della civilizzazione, a contatto con le forze primigenie e ferine della natura. Sempre Joshua Mitchell sostiene che, nella spossatezza dell’Occidente, «la libertà costituisce un peso troppo grande da sopportare», e «la sofferenza stessa appare contro la vita e bisogna sradicarla». Il treno, un tempo simbolo di potenza, velocità, movimento, avventura, oggi viene demonizzato come il devastatore della natura e le gallerie, un tempo gioiello dell’ingegneria e dello spirito di intraprendenza prometeica di un’umanità che supera ogni ostacolo per andare sempre più lontano, si trasformano nel bersaglio dei movimenti No Tav, che cavalcano i pericoli fantasticati nelle verdi vallate di una volta. Quando non c’era la demoniaca luce elettrica, ma si aveva paura persino dei lampi che solcavano i cieli di notte.