Lorenzo Trombetta, Limes: Le guerre islamiche 9/2015, 6 novembre 2015
LE SIRIE IN VENDITA
1. Nel Bazar «Siria» i siriani sono oggi la merce di minor valore. Un cristiano ha forse ancora un po’ di mercato in Europa, ma un musulmano – soprattutto sunnita – non si vende nemmeno sul banco delle offerte. A caro prezzo, invece, pezzi di Siria sono esposti in vetrina. Ci sono quelli più pregiati, quasi intoccabili: quale pianeta della Via Lattea bisognerebbe offrire a Mosca perché venda la regione costiera? Quale proposta gli Stati Uniti potrebbero accettare perché cessino di impegnare uomini e mezzi per proteggere i confini dei loro due protetti, Israele e Giordania? E alla Turchia cosa bisognerebbe proporre perché ceda un tratto d’influenza nel Nord? Per il corridoio di Hims, l’Iran sarebbe mai disposto a intavolare una trattativa?
Ci sono anche pezzi di paese per i quali si può provare a contrattare: a che prezzo lo Stato Islamico (Is) accetterebbe di non infilarsi in tasca un altro angolo di Siria centrale? Quanto bisogna sborsare per convincere Qatar e Arabia Saudita a dar via le loro quote nel Nord-Ovest? Sul terreno le trattative proseguono, quotidiane e frenetiche, tra acquirenti e venditori siriani, locali e nazionali. Ciascuno di loro è legato a uno o più referenti regionali e internazionali. E ciascuno di loro è impegnato nella compravendita di potere, territori e risorse, per sé o per conto dei suoi soci stranieri. Come avviene da secoli e come sarà in futuro, la Siria tutta ha oggi un valore geopolitico molto alto: non soltanto per i giacimenti di gas e di petrolio e per l’inestimabile patrimonio archeologico, ma soprattutto per la sua posizione geografica. Smontandola e vendendola a pezzi, i guadagni sono decuplicati.
La posta è talmente alta che quando il rapporto costi-benefici di una contrattazione è giudicato conveniente possono essere violati persino i limiti imposti dalla geografia, dalle divisioni socioeconomiche e dal mosaico comunitario. Hims, Aleppo e il Qalamun orientale sono, per esempio, le eccezioni alla regola secondo cui le forze lealiste si mantengono forti nelle principali città del paese, gli insorti hanno la meglio nelle zone rurali dell’asse Nord-Sud, lo Stato Islamico limita il suo dominio alle pianure delle zone sunnite del Centro e dell’Est.
Nonostante il suo carattere storicamente sunnita, dal 2011 a oggi Hims è stata trasformata in un feudo iraniano. L’Iran e i suoi alleati devono imporre un controllo a lungo termine su Hims, crocevia tra la Biqa‘ libanese, la regione costiera siriana e l’asse Damasco-Aleppo. Dall’altra parte della trincea, i miliziani antiregime, originari delle campagne settentrionali di Aleppo, dall’estate del 2012 hanno attaccato e occupato interi quartieri dell’urbe. Ma la città per oltre un anno aveva scelto di non prender direttamente parte al nuovo capitolo della decennale lotta per il potere in Siria. E l’Is si è di recente spinto oltre i confini del sunnismo siriano racchiuso nel triangolo Dayr al-Zawr-Raqqa-Palmira, conquistando e imponendo la sua autorità su Qaryatayn, cittadina del Qalamun con una forte componente cristiana.
Il Qalamun, Aleppo e Hims sono banchi molto importanti di contrattazione. Ma non sono certamente gli unici. La Siria stessa è solo una bottega di un bazar più articolato. Non a caso, la questione siriana viene spesso evocata in relazione all’intesa tra Stati Uniti e Iran a fianco delle questioni yemenita, irachena, ucraina, caucasica, libica, afghana. In questo complesso sistema di equilibri, per la maggior parte degli acquirenti e dei venditori che affollano il mercato il conflitto siriano è un mezzo e non certo il fine. Il termine della guerra per molti non sarebbe l’agognata pace, ma la chiusura dei negozi. I negoziati, locali o internazionali, per questi attori non devono portare alla fine delle ostilità, semmai a una loro interruzione temporanea.
In alcuni casi le parti coinvolte non hanno alcuna intenzione di trovare un accordo sui prezzi della compravendita. In altri casi, i tentativi sono genuini almeno da parte di uno dei negozianti. Spesso le trattative sono precedute da un innalzamento della violenza – a volte tradotta in avanzamento territoriale – utile a far salire il prezzo di partenza del negoziato. Altre volte dal livello di un evento sanguinoso come un attentato, un omicidio mirato o un eccidio di civili sono compiuti nel cuore del territorio oggetto del negoziato per far saltare il banco della trattativa. I responsabili del crimine possono essere le parti stesse coinvolte nei colloqui o parti terze che sentono di aver tutto da perdere, economicamente prima di tutto, dal raggiungimento di un accordo. La cronologia delle violenze in Siria dal 2011 a oggi è costellata di episodi di sangue causati da queste dinamiche.
2. In tale quadro, le ideologie politico-religiose sono usate in maniera retorica dai vari attori, siriani e stranieri, per legittimare le decisioni e le azioni. Ma queste sono determinate prima di tutto dagli interessi di mercato. La propaganda nazionalista del governo siriano è evocata, per esempio, nelle varie campagne mediatiche di reclutamento di miliziani. Ma nella Siria controllata oggi dai lealisti vi è assai poco che richiami i princìpi baatisti di libertà, unità e socialismo (hurriyya, wahda, istirakiyya). Allo stesso modo, la propaganda jihadista – basata sul principio dell’imposizione del vero islam – è presente in ogni atto firmato dallo Stato Islamico. Ma l’islam non è certo il vero l’obiettivo dei quadri medio-alti dell’organizzazione guidata da Abu Bakr al-Bagdadi. Analogamente, la propaganda della lotta al terrorismo è condivisa in maniera trasversale dagli Usa, dalla Russia, dai paesi europei, da Iran, Turchia e paesi arabi del Golfo; ma molti di questi attori si servono del tema universale del «bene contro il male» esclusivamente per motivare la loro presenza attorno al negozio siriano.
Dentro e fuori la Siria, anche la retorica dell’alleanza inviolabile tra due o più attori è messa in discussione di fronte al realismo degli affari. Si è alleati per convergenza d’interessi, non certo per l’appartenenza a una stessa comunità religiosa o per l’adozione di ideologie politiche compatibili. La Russia intensifica il suo impegno militare sulla costa siriana e attorno a Damasco non solo per lanciare un messaggio alle controparti americana, saudita e turca, impegnate a diversi livelli a sostenere miliziani nel Nord, nel Nord-Ovest e vicino alla capitale, ma anche per far capire all’alleato iraniano (galvanizzato dall’intesa con gli Stati Uniti) che il crescente strapotere delle milizie sciite nelle regioni di Damasco, Hims, Latakia e Idlib non deve tracimare. Per Mosca la Siria russo-iraniana non deve trasformarsi in una Siria troppo iraniana.
Parallelamente, le vecchie ruggini tra Qatar e Arabia Saudita sembravano dimenticate di fronte ai successi nella regione di Idlib della coalizione di insorti radicali (tra cui qaidisti) sostenuti dai due regimi del Golfo e dalla Turchia. Ma tensioni tra signori della guerra rispettivamente vicini a Doha e Riyad sono riemerse nella regione di Damasco, mentre a nord di Aleppo l’Arabia Saudita non sembra sempre apprezzare l’atteggiamento muscolare turco a favore di milizie sostenute anche dagli Usa e in odore di Fratellanza musulmana. Nessuna di queste incrinature sembra comunque mettere a rischio la tenuta delle rispettive cordate di acquirenti e venditori, ma il fatto che ciascuno di loro sia impegnato su diversi altri tavoli del bazar finisce per influire anche sull’andamento dei negozi.
3. Da Suwayda’ a Latakia, passando per Damasco, Hims, Tartus e Gabla, il regime di al-Asad controlla circa il 35% del territorio siriano dove è presente poco meno del 60% degli abitanti rimasti nel paese. Con realismo Bassar al-Asad ha ammesso, in un’intervista rilasciata all’inizio dell’estate, di non disporre di forze militari sufficienti per tentare di conquistare i territori persi a favore di milizie delle opposizioni e dei jihadisti dello Stato Islamico. Per questo bisogna fare delle scelte: Raqqa e Idlib, per esempio, non sono delle priorità. Lo sono invece la parte di Aleppo in mano ai governativi, l’asse Damasco-Hama, quel che rimane dei pozzi di gas e petrolio tra Hims e Palmira, le posizioni lealiste a Hasaka nel Nord-Est e l’aeroporto militare di Dayr al-Zawr, da tempo assediato dall’Is.
In questo quadro si inserisce l’avanzata vittoriosa del filo-iraniano Hizbullah su Zabadani, cittadina chiave posta tra il palazzo presidenziale e il confine libanese e vicina all’autostrada Damasco-Beirut. La battaglia di Zabadani, difesa da miliziani locali guidati da jihadisti in parte sostenuti dal Qatar, ha riacceso i riflettori sulle sorti di due località minori nella regione di Idlib. Fu‛a e Kafraya sono due enclave sciite difese da miliziani locali e da Hizbullah, da due anni sotto assedio da parte di insorti capeggiati da qaidisti della Gabhat al-Nusra e sostenuti da Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Prossimi alla rotta, i difensori di Zabadani e i loro soci stranieri hanno giocato la carta di Fu‛a e Kafraya, sottoponendo le due località a continui bombardamenti di artiglieria. Secondo fonti di stampa locali, l’accordo proposto a luglio dall’Iran prevedeva la resa dei miliziani e il trasferimento dei civili (sunniti) rimasti a Zabadani verso Idlib, regione a maggioranza sunnita. In cambio, le forze di Idlib avrebbero dovuto metter fine all’assedio di Fu‛a e Kafraya. L’intesa è saltata e i combattenti di Zabadani hanno accusato l’Iran e Hizbullah di voler completare la pulizia confessionale a danno delle comunità sunnite in corso in tutta la cintura siriana del Qalamun contiguo al Libano.
La crescente influenza economico-commerciale iraniana in Siria viene da lontano e ha radici nelle scelte adottate dalla dirigenza siriana nel decennio che ha preceduto lo scoppio della rivolta nel 2011. Ma nel corso di questi ultimi quattro anni si è registrata un’espansione della presenza iraniana nelle questioni militari e di sicurezza, in quelle prettamente politiche e religiose, e in quelle legate alla gestione degli investimenti e della compravendita di terreni per l’edilizia industriale e civile.
In questo contesto, alla fine di agosto in maniera inedita decine di siriani sciiti, sfollati dalla zona di Fu‛a e Kafraya, hanno manifestato con atti di disobbedienza civile lungo l’autostrada che collega Damasco all’aeroporto internazionale. Gli slogan non erano diretti contro le opposizioni armate o contro lo Stato Islamico, ma contro il governo siriano accusato di non fare abbastanza per proteggere le due località assediate. Una protesta alla libanese, in riferimento ai sit-in inscenati periodicamente in Libano da esponenti di comunità (non necessariamente sciite) che si sentono dimenticate dal potere centrale. Nel contesto siriano non è affatto scontato che un gruppo di civili possa scendere in strada e manifestare senza il consenso preventivo degli organi di controllo e di repressione.
Senza aver ricevuto alcuna approvazione formale dalle autorità, i manifestanti sciiti sono comunque scesi in strada a sud di Damasco. Questo è stato possibile anche perché le zone dove hanno inscenato le proteste sono in mano alle milizie di Hizbullah e ad altri gruppi paramilitari sciiti iracheni. Le manifestazioni di Damasco sono state riprodotte in quei giorni anche da altre comunità sciite nelle regioni di Hims, Aleppo e Latakia. E con le proteste degli sciiti sono coincise manifestazioni popolari «contro la corruzione e la mancanza dei servizi essenziali da parte di alauiti di Latakia e di drusi di Suwayda’. È presto per tentare di tracciare un filo rosso tra le varie forme di protesta antigovernativa inscenate da comunità tradizionalmente alleate del regime siriano. Ciascun episodio va inoltre inserito nel suo particolare contesto locale, come gli incidenti tra clan rivali nella zona di Latakia o come le tensioni tra popolazione e autorità locali a Suwayda’, culminate nell’uccisione in un oscuro attentato di un signore della guerra druso sempre più in rotta col governo. Eppure, questi e molti altri episodi indicano una graduale riduzione della capacità governativa di mantenere il controllo del territorio e delle ormai numerosissime milizie.
Anche per questo la Russia ha deciso dall’estate di puntellare meglio il potere di al-Asad e della Siria mediterranea, quella più utile ai tradizionali interessi di Mosca. La zona costiera in mano ai russi è minacciata a nord-ovest dall’emirato islamico-qaidista di Idlib; mentre a sud-ovest, nella regione a maggioranza cristiano-ortodossa tra Tartus e Hims, l’influenza russa è limitata dalla crescita di Hizbullah. Ormai da due anni, in Siria e in Libano i miliziani sciiti si propongono come protettori delle comunità cristiane d’Oriente, più affidabili dei russi.
4. «Lo Stato Islamico è qui e si espande». Dalla piana irachena di Ninive alla Siria centrale, questo è lo slogan più popolare che si legge sui mille muri del territorio in mano all’organizzazione. Per gli abitanti delle cittadine a est dell’autostrada Damasco-Aleppo non si tratta però solo di uno slogan: la minaccia jihadista è concreta e incute paura. Come accade da oltre un anno nei tratti centro-settentrionali della via di comunicazione, lo Stato Islamico non sembra intenzionato a violare il limes d’asfalto a quattro corsie difeso dai lealisti. Eppure, dopo la presa di Qaryatayn in agosto, a sud-est di Hims i jihadisti sono lontani poche decine di chilometri dall’arteria viaria.
Dall’altra parte della strada si apre la piana di Qusayr, quasi del tutto in mano a Hizbullah. Ma da maggio ad agosto si sono registrate alcune inedite sortite di cellule jihadiste nei pressi di postazioni di Hizbullah, a pochi chilometri dal confine libanese. Fonti locali assicurano che non si tratta d’infiltrati venuti da fuori, ma di miliziani locali che nel 2012 avevano invano tentato di respingere l’avanzata dei combattenti sciiti e che, ormai, vedono nello Stato Islamico l’unica forza in grado di opporsi a quella che loro percepiscono come l’iranizzazione della propria regione.
A Damasco intanto si registra l’avanzata dell’Is nella parte sud-orientale della capitale: dalla roccaforte jihadista di al-Hagar al-Aswad le insegne bianconere si sono spinte in alcuni settori del quartiere periferico di Qadam. Qui hanno trovato la resistenza non di forze governative, bensì di miliziani locali antiregime che per difendere il loro piccolo feudo proteggono, almeno per ora, anche le mura meridionali della Damasco lealista.
Libero da minacce concrete dal fianco orientale iracheno e non più preoccupato dell’avanzata dei miliziani curdi da Tall Abyad, lo Stato Islamico si è dato nelle ultime settimane a rafforzare le sue posizioni. Ha esercitato pressioni su postazioni curdo-governative a Hasaka (Nord-Est) e su una base aerea lealista nella regione di Suwayda’ (Sud); ha potenziato il collegamento stradale tra Raqqa e Palmira e ha contrastato i governativi attorno ai campi di gas (Sa‘ir) e di petrolio (Gazal) tra Hims e l’oasi nota per le sue antiche rovine romane. A Dayr al-Zawr, i jihadisti hanno intensificato la pressione contro le sacche di resistenza del regime nell’aeroporto militare e in alcuni quartieri periferici della città. Al contempo, si sono registrati negoziati diretti tra emissari di Damasco e altri di Abu Bakr al Bagdadi per l’accesso dei jihadisti a un impianto di gas naturale in cambio della fine dell’assedio di due quartieri lealisti della città.
5. Le Sirie che a vari livelli si pongono come alternativa allo Stato Islamico e al regime di al-Asad soffrono di un’asfissia e di una frammentazione territoriali apparentemente insolubili. Nel Nord, due dei tre cantoni a maggioranza curda si sono congiunti grazie a una recente offensiva curdo-araba contro lo Stato Islamico a Gire Sipi (Tali Abyad) e Kobani (‘Ayn al-‘Arab). La campagna è stata sostenuta in primo luogo dalla Turchia, che in Siria ha scelto i curdi come propri alleati per assicurarsi l’influenza lungo quasi tutto il tratto di confine. Dopo l’unità ritrovata tra le zone di Qamisli e Kobani, la zona di ‘Afrin nel Nord-Ovest è destinata a essere tagliata fuori, separata dal resto del territorio curdo da un’ampia striscia abitata prevalentemente da arabi. Questa è a sua volta divisa in un’area più ampia controllata dall’Is (da Garablus, a est, a Dabiq, a ovest), e un’altra più sottile in mano a milizie di insorti.
Finora Ankara è riuscita nell’intento di evitare una saldatura tra i curdo-iracheni e i curdo-siriani: dall’una e dall’altra parte del Tigri, a livello politico-militare prevale di fatto la diversa appartenenza locale su quella mitica pancurda. La dirigenza curdo-siriana non ha inoltre dubbi nell’allearsi con il regime di Damasco quando incombe la minaccia dello Stato Islamico (attacchi a Hasaka a giugno), mentre più a ovest è scesa a patti, sempre in funzione antijihadista, con le milizie arabe ostili agli Asad.
Queste milizie sembrano sempre più influenzate dalle scelte della Turchia e, più indirettamente, degli Stati Uniti. Tra luglio e agosto, Washington e Ankara hanno cominciato ad applicare l’intesa per la creazione di una zona di sicurezza nel Nord della Siria a ridosso della frontiera turca, profonda circa sessanta chilometri. Si tratta di far sì che lo Stato Islamico sia gradualmente allontanato dal tratto di confine che va da Dabiq a Garablus. Per far questo la Turchia ha fatto pressioni sugli Usa affinché le sparute unità di combattenti «moderati» che Washington intende usare contro i jihadisti in Siria servano anche gli interessi di Ankara. Non a caso, il leader della trentesima divisione (la forza formata da elementi addestrati da americani in Turchia) è il colonnello Nadim Hasan, membro della comunità turcomanna siriana.
Tra giugno e luglio, i qaidisti presenti a nord di Aleppo hanno catturato e ucciso un buon numero di membri della trentesima divisione. Già nei mesi scorsi avevano fatto piazza pulita nella regione di Idlib del movimento Hazm, un’altra sfortunata formazione composta da «ribelli moderati» addestrati dagli Stati Uniti. Tra il confine turco e Aleppo è da mesi in corso un braccio di ferro per assicurarsi la guida della campagna terrestre contro lo Stato Islamico.
In assenza delle organizzate milizie curde, le faide inter-arabe proseguono e i jihadisti continuano a fare pressione su località a ovest di Dabiq. Sembra che a fine agosto la Turchia e i qaidisti siriani abbiano trovato un’intesa basata sul ritiro di questi ultimi da alcune postazioni lasciate a combattenti filo-turchi. L’Arabia Saudita ha espresso il suo disagio nel vedere all’opera alcuni gruppi armati vicini alla Fratellanza musulmana e non è chiaro quale forza alternativa ai qaidisti sia in grado di fronteggiare i jihadisti. Questo ha addirittura spinto il generale americano in pensione David Petraeus, già direttore della Cia, a suggerire all’amministrazione Usa di affidarsi nella lotta contro lo Stato Islamico a elementi «moderati» dell’ala qaidista siriana, gli stessi presi di mira dai raid della coalizione internazionale guidata da Washington.
6. I paradossi non dominano solo il confine turco-siriano, ma anche quello tra il Golan controllato da Israele e quello conteso tra insorti e governativi. Quasi tutta la linea dell’armistizio del 1974, che costituisce il confine tra Israele e Siria, è controllata da milizie ostili a Damasco. Ma il tratto meridionale che arriva fino alla valle del fiume Yarmuk e al valico frontaliero di Tall Sihab con la Giordania è saldamente in mano allo Stato Islamico. Il gruppo che controlla quest’area si chiama Brigata dei martiri dello Yarmuk (Liwa’ suhada’ al-Yarmuk), ma i loro quadri negano di essere collegati all’organizzazione di al-Bagdadi. Secondo fonti locali concordanti non ci sono dubbi: i jihadisti sono a pochi metri dallo Stato ebraico.
In questo quadro sembra che tra Israele e la Brigata dei martiri dello Yarmuk esista un accordo informale di non belligeranza. Secondo le fonti, uno dei motivi per cui la Brigata non annuncia l’adesione allo Stato Islamico è proprio per non mettere in difficoltà Israele, che ha sempre respinto ogni ipotesi d’invio di truppe straniere nell’area del Golan. Lo Stato ebraico non sostiene direttamente i jihadisti dello Yarmuk, ma non li ostacola né li combatte. Analogamente, non appoggia né osteggia il regime di Damasco. L’unico vero nemico sono gli Hizbullah libanesi e le forze iraniane presenti in Siria. Finora, le operazioni militari condotte da Israele in Siria si sono sempre concentrate su questi obiettivi.
I membri della Brigata dei martiri di Yarmuk sono per lo più combattenti locali affiancati da jihadisti palestinesi e giordani. La biografia del loro leader assomiglia a quella di tanti altri estremisti armati liberati dal governo di Damasco all’indomani dello scoppio delle rivolte nel 2011. Muhammad Sa‘d al-Din al-Baridi è anche noto come lo Zio. Nato nelle campagne tra la piana di Dar‘a e il Golan, nel 2004 figura come esponente dell’ala siriana del partito radicale Hizb al-Tahrir. Arrestato nel 2009 dalle autorità siriane, in carcere conosce altri fondamentalisti, tra cui Zahran ‘Allus, oggi signore della guerra della regione a est di Damasco. Lo Zio esce di prigione nel 2011 in seguito a una delle prime amnistie decise dal presidente al-Asad. Pochi mesi dopo lo Zio si unisce alla lotta armata nella regione di Dar‘a e come moltissimi altri miliziani fondamentalisti siriani fiuta la possibilità di conquistarsi un posto al sole e una fettina di potere locale. Da mettere in vendita nel sempre più affollato bazar «Siria».