Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 06 Venerdì calendario

FRAGOMENI, IL ROCKY ITALIANO

L’ultimo pugno l’ha tirato con mestiere e senza rabbia a un certo Marko Martinjak, croato di 24 anni, su un ring nella piazza di Sorbolo, vicino a Parma, nella prima domenica di ottobre. Otto riprese, vittoria ai punti, duemila persone in piedi ad applaudirlo, un buon rientro per un pugile dato per finito, forse anche da se stesso.
Il primo pugno è stato per un certo Nicola, operaio saltuario. Stava picchiando la moglie Rita in camera da letto. Lui avrà avuto 12 o 13 anni, conosceva la scena: papà beveva, perdeva al gioco il poco che guadagnava, poi si sfogava in casa con chi c’era, mamma per prima. Solo che quella volta Giacobbe, il più piccolo dei tre figli di Nicola e Rita, decide che no, gli scende “il buio dentro il cervello”, scavalca d’impeto il letto matrimoniale, butta per terra il padre, gli monta sopra e lo gonfia, pam pam pam, una scarica elettrica di purissimo odio. Una ripresa sola, vittoria per abbandono dell’avversario.
Tra l’ultimo pugno e il primo, c’è tutta la storia di Giacobbe Fragomeni, la cosa più vicina alla favola di Rocky Balboa che l’Italia della boxe abbia partorito negli ultimi tempi. Solo che Rocky a un certo punto si ritira. Lui no, non ancora, come se nella sua testa il verbo “combattere” fosse declinabile solo al presente e al futuro. Nonostante i 46 anni, due figli (Letizia, 10 anni, Giacobbe Junior, 7 mesi) coccolati e protetti come un leone i suoi cuccioli, un titolo mondiale Wbc dei massimi leggeri e un passato acido e dolente riscattato con gli interessi, invece di riposarsi Fragomeni rilancia, oltretutto nell’unico sport dove l’avversario ha come scopo quello di farti male, e tu a lui. Ha un senso? E quale? I soldi? Per un incontro senza titolo in palio si va dai 3 ai 5 mila euro. Per un europeo, dai 20 ai 40. Per un mondiale, e non è più il caso, anche 200 mila. Ma a sensazione il denaro non c’entra, o poco.
Lupo di periferia, più per condizione familiare che per indole, Giacobbe da piccolo cresce allo Stadera, ruvida appendice di Milano sud. Ha due sorelle più grandi: Letizia detta Mary, che morirà ventenne piagata dall’Aids e da una dose tagliata male, e la più fortunata Edda, che si sposerà e avrà un figlio, Totò (Moscatiello), attuale campione italiano dei pesi welter. Con la madre sofferente di cuore e il padre insofferente a qualsiasi responsabilità, tocca a Giacobbe prendersi sulle spalle la baracca. Lavoro da asfaltista, con turno delle 4 del mattino, licenzia media conquistata alle serali, sbronze e sballi che lo portano a un centimetro dal vuoto e a 120 chili di peso. Fatto e sfatto. Va in una palestra per dimagrire, la gloriosa Doria di via Mascagni, ed è la porta girevole che gli cambia il destino. «Eh sì, altrimenti erano uccelli per diabetici». Ovvero? «Cazzi amari. Uccelli sta per cazzi, insomma ha capito. È una battuta di Lino Banfi».
Giacobbe Fragomeni ha il sorriso mite di Liam Neeson in Schindler’s List e la stessa feroce determinazione. Neanche un metro e ottanta per 90 chili di peso quando è in forma, massiccio ma non enorme, cranio rasato e occhi azzurro scuro come il nonno Giacobbe (un pugliese da cui ha preso il nome e un’incapacità genetica di parlare il milanese, nonostante a Milano ci sia nato), Fragomeni ha un viso uscito abbastanza indenne da 25 anni sui ring, migliaia di round e 182 combattimenti ufficiali, tutti vinti tranne 5 più 2 pareggi. L’italoamericano Antuofermo, re dei pesi medi per una breve ma entusiasmante stagione, uno che ha dovuto farsi la plastica per i tanti colpi che l’hanno sfigurato, si presentava così: «Vito sanguina dal viso, mai dal cuore». E Giacobbe dove sanguina? «Non sanguino. Ho la pelle da motociclista, è difficile che si spacchi, anche se la mia è una boxe frontale. Gli avversari ti pizzicano, ovvio». Ti pizzicano? «Sì, è un modo per dire quando il pugno lo senti». A furia di pizzicate, quanti punti di sutura ha rimediato? «Tra testa, braccia e il resto, saranno un 200, 250».
Nino Benvenuti raccomanda: «Quando stringi le mani a un pugile devi farlo con grazia, come con le donne, perché la boxe te le rende fragili e doloranti». Sulle mani di Giacobbe, all’apparenza non ancora fragili e anzi ben curate, ci sono due rondini colorate. «Sono quelle dei marinai, se le potevano fare solo quelli che picchiavano veloce. Poi ho anche questi, di tatuaggi». Solleva la maglietta e svela il tronco: «Il più grosso, quello coi quadretti neri, è una scena di pescatori e squali delle isole Marchesi, un portafortuna. E quello per il lungo è la vergine di Guadalupe». Crede in Dio, o nella Madonna? «No, zero. Mi piaceva il soggetto». A completare il quadro vivente, due scritte nere e grosse ai lati del collo: “Rita”, la madre, e “Letizia”, la prima figlia, chiamata così in ricordo della sorella innocente e perduta. «Le porto sempre con me su ogni ring». Ecco, non sarebbe il caso, vista l’inevitabile usura fisica, la pericolosità del mestiere, i suoi due piccoli da crescere, di darci un taglio definitivo con il ring? «Mia moglie Sara la pensa così: smetti, smetti. Letizia invece fa il tifo: continua, papà, sei un campione, devi vincere. Mi fa sorridere, è tosta. Comunque non voglio che veda i miei match. Sono uno che non si risparmia. Mi riparo, cerco di evitare guai grossi, ci tengo alla vita, alla mia testa. Però, e lo sanno tutti quelli che ho sfidato, non mollo mai. Magari mi batti, ma devi lavorare sodo per tutte le 12 riprese. E in 12 riprese, come in 8 o in 6, può succedere una scena brutta, crudele, il sangue mio o dell’altro. Meglio di no, per Letizia».
Il primo match, Fragomeni lo combatte da dilettante a 21 anni. «Me lo ricordo sì, a Savona, contro Ruocco, un ruffone, quelli che legano e danno testate. Vinsi per squalifica». Poi ci sono le battaglie con il polacco Krysltof Wlodarczyk , detto “El Diablo”. «Un pari e due perse, una per ko tecnico, l’altra per ferita. Begli incontri, comunque. Quando El Diablo ti colpisce è come mettere le dita nella presa di corrente. La sua fortuna è che ha più fibre bianche, quelle che ti permettono il colpo che stordisce. Io ho più fibre rosse, resistenza invece di potenza, infatti ho vinto poco per ko». Arriviamo allo scontro finale, o almeno a quello che sembrava esserlo. Mosca, 24 ottobre 2014, in palio il titolo europeo dei massimi leggeri Wbc. Il match finisce presto e male. Il siberiano trentenne, Rakhim Chakhkiev, fa sembrare Fragomeni ancora più vecchio dei suoi 45 anni di allora. Due atterramenti spaventosi, luci spente già alla quarta ripresa. «Letteralmente dominato», scrivono i giornali, con un filo di pena e un sigillo corale: grazie di tutto ma con questa hai chiuso.
Il diversamente giovane Fragomeni ascolta quieto la ricostruzione, in qualche modo la rivive e alla fine la riscrive: «Avevo litigato con mia moglie, diceva che il mio maestro stava sbagliando tutto. Forse aveva ragione. Per paura di fare poco, ero passato al troppo, avevo portato il fisico all’estremo massacrandomi di allenamenti. Risultato: il venerdì prima di partire per Mosca ho 40 di febbre. Un altro avrebbe chiesto il rinvio. Io mi imbarco. La febbre dura altissima fino al mercoledì. La domenica salgo sul ring che sono una merda. Chakhkiev lo capisce al volo, mi pressa, mi stende, l’ultima volta con un colpo alla nuca, e infatti dopo il verdetto continua a chiedermi scusa, scusami Giacobbe. E vabbé, ormai era andata. Ma il peggio è venuto dopo. Scomparsi tutti: compagni, manager, gente del mestiere. Puf, ero diventato un fantasma. Solo a sentire parlare di pugilato mi si bloccava lo stomaco. D’estate vado in America con un amico che ha una palestra a Parma. Arriviamo a Miami e decidiamo di vedere il posto dove si allenava Alì. Oh, mica una reggia: giusto un ring, qualche sacco, neanche la doccia. Mi prende di fare un po’ di guanti con qualcuno dei professionisti che c’erano lì: tre o quattro riprese senza forzare, col caschetto para-zigomi e i guantoni da 16 once invece delle 10 da gara. Pesavo sui 110 chili, non mi allenavo da 9 mesi. Prendo il mio amico e gli dico: sii sincero, se vedi che non ci sono più dimmelo che smetto per sempre». Scusi, ma non bastava la punizione di Mosca? «Non volevo rimanere col dubbio. La preparazione del cazzo, la febbre per giorni, mettici anche le litigate con Sara. E se invece fossi stato bene? Se contro il siberiano ci fosse stato il Fragomeni giusto? Per due settimane salgo su quel ring di Miami, poco alla volta mi prendo il rispetto di tutti, e meno, cazzo se meno. Alla fine il mio amico mi salta al collo: hai sculacciato il campione dell’Unione europea, hai fatto un mazzo così a quella roccia di Palacios, forse c’è un match il 4 di ottobre, e provaci, dai».
E così, un anno esatto dopo quello che sembrava l’ultimo gong, Giacobbe torna a combattere, sia pure a Sorbolo e non al Madison di New York. È ridisceso a 92 chili, c’è il sole calmo delle 6 di sera, un ragazzo scorbutico di fronte. «Uno che pizzicava, anche scorretto, mi ha riempito di craniate. Ma io stavo bene, vedevo i suoi colpi arrivare, e li schivavo tutti. Mi sembrava di essere Matrix, con la pallottola che sta per centrarti, tu che ti pieghi e lei che si perde». Matrix Fragomeni si è rimesso in marcia verso chissà dove, un altro match, magari un’altra sfida per il titolo europeo. «Adesso sono settimo o ottavo nel ranking. Ho ancora voglia, non bevo, non fumo, corro per chilometri, alla fine degli allenamenti ho le braccia così stanche che non riesco neanche a grattarmi. Perché dovrei fermarmi?». Alla sua età, gli atleti sono in pensione da un pezzo, i pugili di più. Vivono di malinconie, non di progetti. «Sa cosa diceva il nonno?». Suo nonno? «Ma no, il nonno è come chiamavamo noi Ottavio Tazzi, il maestro dei maestri, quello che alla vecchia palestra Doria mi ha salvato la vita e trasformato in pugile». Cosa diceva il nonno? «Diceva: sul ring si va belli alegher. Ecco, io oggi sono bello allegro».