Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  ottobre 30 Venerdì calendario

IL GENIO BURRI SCOPERTO SEMPRE IN RITARDO

I critici italiani sono sempre stati in ritardo nel riconoscere la grandezza e l’importanza di Alberto Burri, all’interno di un mondo artistico attraversato da correnti burrascose. In qualsiasi parte fossero dirette, finivano nella gola di un maelstrom, una sorta di imbuto da cui non uscivano più.
Ma anche quando hanno cominciato a scrivere su questo artista umbro, anomalo e unico per molti versi, l’hanno fatto in maniera casuale, con scritti lacunosi o incomprensibili, seguendo la grande via maestra della critica italiana che ha sempre confuso la profondità con l’oscurità. Non abbiamo mai avuto dei recensori d’arte come Robert Hughes, considerato uno che riusciva ad accostarsi più di ogni altro alla vera essenza dell’opera di cui stava parlando, adoperando una prosa cristallina che nelle sue mani funzionava come una lente d’ingrandimento (anche se ammetteva che la totale comprensione era impossibile tra due arti differenti, bisognerebbe dipingere un quadro per capire un quadro). O David Sylvester, autore di meravigliose interviste a Bacon. Dal Dopoguerra a oggi quelli che in Italia hanno colto meglio lo spirito d’avanguardia sono stati poeti come Villa, lo storico dell’arte Giuliano Briganti e Cesarino Garboli, che aveva un tocco inimitabile nel descrivere la pittura, abituato com’era a tradurre Molière e a pubblicare il grande Sandro Penna.
Sentite invece come inizia la prefazione di Maurizio Calvesi, noto accademico e cultore di arte moderna, a un catalogo che risale al settembre ’76: «Se è vero che nella società occidentale, come in ultimo dimostra J.J. Goux, ogni sistema di valori tende alla centralizzazione e alla sintesi, di questo processo dialettico e sintetico l’arte potrebb’essere, o essere stata, la forma simbolica per eccellenza, centrale rispetto al flusso o diaspora dell’immaginazione che organizza, o organizzava, in un’equivalenza (equi-valore) “trascendente”. Riflettendo su se stessa, l’arte oggettivizza la propria crisi; abdicando alla funzione sintetica dell’immagine restituisce, sia pure svogliatamente, l’immaginario alle proprie oscillazioni».
Questa non è una critica, ma la parodia di una critica. Più in generale, la cultura nella quale erano immersi gli storici dell’arte che venivano dalle Sovrintendenze, aveva impedito loro di capire cosa stesse facendo Burri. Gli studiosi che lavoravano nelle accademie e nei musei, hanno sempre visto la pittura come una serie piatta di tele, qualcosa che si sviluppava in orizzontale coperta di segni, forme o campiture. Andare più sotto era lavoro da falegname o da restauratore. I critici dovevano rimanere in superficie. Loro non erano palombari adatti a sondare abissi sconosciuti.
La rivoluzione di Burri si colloca all’opposto della visione che molti storici troppo intellettualizzati e affetti dalla paranoia delle ideologie, hanno sempre avuto dell’arte di avanguardia: una visione che faceva delle opere una sorta di sublimato matematico-filosofico molto cerebrale, intuito non attraverso la sensibilità di artista, ma capito da pochi attraverso una logica fatta di equazioni e asserzioni molto aride.
Altre volte nel passato si è cercato di accorpare dei materiali alle opere, come i fondi d’oro senesi o i mosaici bizantini, che rispondevano perfettamente al gusto dei grandi committenti dell’epoca, principi della cattolica romana chiesa o esteti delle signorie, e anche alla loro possibilità economica.
In tempi moderni Piero Manzoni, ad esempio, aveva creato una serie di oggetti come la merda d’artista, in chiave ironica e dada. Un divertissement letterario, prima che un’opera d’arte. Ma le opere di Burri non sono mai un divertissement, hanno tutte un significato drammatico. L’unico artista che si può avvicinare a Burri è Lucio Fontana coi suoi tagli che portavano lo spettatore da uno spazio a un altro, con un’eleganza che era parte del suo fascino.
Burri non è mai stato così elegante: partendo dal basso, servendosi di materiali poveri e popolari, sacchi slabbrati, fondi rossi, cretti di fango, plastiche recuperate dalle pattumiere e portate nell’altana del sublime. Una rivoluzione al contrario. Dopo secoli in cui erano stati ignorati, i materiali hanno preso la propria rivincita trasformandosi in protagonisti nell’arte contemporanea e moltiplicando le possibilità, come mai era successo, di avere una funzione estetica. I pennelli potevano rimanere ancora strumenti per costruire l’arte ma ormai la svolta era avvenuta.
La sua capacità di trasformare questi scarti trash del mondo moderno in qualcosa di eminentemente artistico ed emozionante, a volte più significativo dei grandi quadri figurativi, è stato il suo grande merito e dove è risieduto il suo genio. I cretti di Gibellina rappresentano il più grande cimitero artistico del mondo e hanno la forza di convinzione del capolavoro assoluto.
Nei giorni scorsi si è aperta una grande mostra al Guggenheim di New York (fino al 6 gennaio).
Gli americani sono sempre stati attenti alle opere dell’artista italiano e nello stesso tempo l’hanno tenuto a bada, temendo che fosse pericolosa la sua presenza eccessiva, capace di oscurare i miti mezzi fasulli di Jasper Johns o di Andy Warhol.
Uno di quelli che avvertì in tempo la grandezza di Burri fu Rauschenberg che visitò il suo studio nel ’53. La leggenda racconta che dopo una chiacchierata informale nel giardino della casa di Città di Castello, gli artisti si scambiarono le loro opere con grandi complimenti. Poi Rauschenberg ripartì in tutta fretta: voleva andare a Firenze a gettare nell’Arno le proprie opere e iniziare una nuova visione dell’arte, simile a quella di Burri. L’artista umbro invece, che era un cacciatore indefesso e si allenava ogni giorno a sparare, per nulla impressionato dalle opere dell’americano, se ne servì come piattelli per la sua doppietta. Quando le raccolse disse agli amici che aveva inteso solo aumentare il tasso artistico delle opere di Rauschenberg.