Giuliano Aluffi, il venerdì 31/10/2015, 31 ottobre 2015
IL MASSIMO DELL’HI-TECH? COPIARE LE PIANTE
Hanno colonizzato gli angoli più inospitali nel Pianeta mettendo a punto sistemi di sopravvivenza raffinatissimi, e senza nemmeno un’emissione inquinante. Hanno cominciato a sfruttare alla perfezione la fonte energetica più pulita, il Sole, milioni di anni prima che l’Homo sapiens inventasse i pannelli solari. Recuperano, conservano e purificano l’acqua in ogni condizione climatica, e sanno catturare animali velocissimi senza spostarsi di un millimetro. Sono le piante, e oggi c’è una nuova scienza, la biomimetica, che studia in modo sistematico e mirato le brillanti soluzioni che l’evoluzione vegetale ha trovato per le principali sfide della vita naturale. Renato Bruni, docente di Botanica del Dipartimento di Scienze degli alimenti dell’Università di Parma ne parla nel saggio Erba volant: imparare l’innovazione dalle piante (Codice, pp. 235, euro 15), che presenterà domani, 31 ottobre, al Festival della Scienza di Genova.
Bruni nel suo laboratorio studia come imitare chimicamente le molecole vegetali per usi farmaceutici. E in questa ricerca ha antenati illustri. Già Leonardo da Vinci, per la sua «vite aerea», ossia l’idea embrionale dell’elicottero, si ispirò al modo in cui i frutti dell’acero si fanno trasportare dal vento. «Però la biomimetica di oggi non è lasciata all’iniziativa dell’inventore di turno, più o meno geniale. È una ricerca importante, che attira finanziamenti e produce applicazioni pratiche. Anche perché se prima ci si ispirava solo a ciò che era visibile a occhio nudo, oggi possiamo comprendere i geniali adattamenti dalle piante anche a livello nanometrico e molecolare, e trarne ispirazione per materiali e strumenti nuovissimi».
Proprio indagando nell’infinitamente piccolo si è scoperto che cosa permetta a un cactus messicano simile al fico d’india, l’Opuntia microdasys, di approvvigionarsi d’acqua anche nelle zone più aride. «Ognuno dei ciuffetti di peli bianchi sulla superficie dell’Opuntia ospita un centinaio di spine coniche; all’apice di ogni spina c’è una parte rigida che, oltre a tenere lontani gli animali, favorisce la condensazione delle goccioline di nebbia» spiega Bruni. «Nella zona centrale delle spine, delle scanalature larghe pochi nanometri trasportano l’acqua condensata dalla punta fino alla base della spina, dove dei fasci soffici e permeabili simili all’ovatta l’assorbono e la mettono a disposizione della pianta. La particolarità è che questi nano-canali muovono l’acqua dalla punta (che cattura) alla base (che assorbe) qualunque sia l’orientamento e la posizione della spina: anche contro la forza di gravità, se è necessario». Un sistema ingegnoso che non è sfuggito ai cinesi. «Da poco hanno realizzato un prototipo che grazie a “spine” di rame cattura goccioline, ad esempio di olio, e le trasferisce al di là di una membrana esagonale grazie a nanoscanalature: così è possibile separare l’olio e il petrolio dall’acqua, una tecnica che potrà rimediare a disastri ambientali come quello della Deepwater Horizon».
Le soluzioni vegetali possono non solo rimediare ma anche prevenire l’inquinamento. Si può per esempio ridurre l’uso di detergenti chimici grazie a nuovi materiali autopulenti ispirati alle piante carnivore. «La Nepenthes rafflesiana ha un bordo poroso che, quando è colpito dall’acqua, forma una pellicola umida molto sdrucciolevole. E questa fa cadere le formiche nella trappola digestiva della pianta» spiega Bruni. «Ispirandosi a questa pianta nel 2014 una startup americana, la SlipsTechnologies, ha realizzato un materiale composto da una superficie porosa e una pellicola lubrificante che è ottimo sia per materiali antipolvere e antismog da impiegare negli edifici e nei veicoli sia per impedire il ristagno del sangue, e quindi il rischio di contaminazione batterica, in strumenti medici come i cateteri».
Per fortuna degli insetti, non tutti i marchingegni che l’evoluzione ha donato alle piante sono letali come quelli della Nepenthes: «La mangrovia Ceriops tagal, ad esempio, nei petali dei suoi fiori ha un meccanismo che, con il tempo, accumula energia potenziale, un po’ come un arco che si tende, e scatta quando un insetto si posa sui petali, cospargendolo di polline. Se poi nessun insetto si fa vivo, la pianta è programmata per rilasciare i semi nel vento, terminata la maturazione». È un’idea che potrà essere utile in un lontano futuro, quando vorremo cospargere un pianeta abitabile di vegetazione capace di autopropagarsi. Magari in eterno, come la Sempervivum tectorum. «Le piante hanno una proprietà che gli animali non hanno: possono far tornare allo stato giovanile alcune loro cellule. Per esempio, se taglio un rametto di rosmarino e lo interro, questo genererà radici. Piante come il Sempervivum tectorum portano all’estremo queste capacità: continuano ad autoclonarsi grazie alle cellule “ringiovanite” e il loro patrimonio genetico si propaga immutato nel tempo».
Un’altra forma di immortalità è quella suggerita dalla Anastatica hierochuntica o Rosa di Gerico: «Quando il clima si fa arido, la pianta rinsecchisce ma non muore: basta una pioggia a farla tornare come prima. Il segreto? Uno zucchero, il trealosio, che – un po’ come fa l’ambra con gli insetti – circonda e protegge le sostanze biologiche necessarie alla vita della pianta» spiega Bruni. «Oggi due nuove aziende farmaceutiche, Nova Bio-Pharma e Biomatrica, commercializzano vaccini stabilizzati con miscele di trealosio: resistono per un anno a temperature fino a 37 gradi e quindi sono ideali dove i sistemi di refrigerazione sono assenti o troppo costosi».
Per le piante conservarsi significa anche autoripararsi: è questo il segreto della longevità dell’Aristolochia macrophylla. «È una rampicante dal fusto che cresce molto velocemente, e può arrivare a rompersi proprio come la camicia di Hulk. Quando ciò accade, però, le cellule vicine alle zone più vulnerabili si comportano in maniera simile a una schiuma. Crescono e tappano la crepa» dice Bruni. «Oggi questo sistema si usa per produrre materiali autoriparanti per l’edilizia».
Del resto ingegneri e architetti guardavano alle piante già nell’Ottocento. Joseph Paxton si ispirò alle enormi foglie circolari galleggianti di una ninfea, la Victoria amazonica, che possono reggere un peso di 50 chili, per progettare il palazzo dell’Expo di Londra. «Queste foglie sono l’unica parte della pianta che si affaccia in superficie, quindi è vitale che rimangano a galla per garantire la fotosintesi, anche quando un temporale le carica d’acqua piovana» spiega ancora Bruni. «Le robuste nervature raggiate sulle foglie costituiscono una specie di sistema di architravi che distribuisce il peso in maniera ottimale». E se questo funziona per la Victoria amazonica, ha funzionato anche per il Crystal Palace.
Giuliano Aluffi