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 2015  novembre 01 Domenica calendario

VITTORINO ANDREOLI E STEFANO LORENZETTO STORIA DI UN LITIGIO. LA VERSIONE DI STEFANO

Se m’incontrasse per strada, temo che eviterebbe di salutarmi. Peggio: farebbe finta di non vedermi. Di nessun’altra persona, fra le molte che conosco, potrei dire la stessa cosa e questo mi provoca un vivo dispiacere. Eh sì, qualcosa s’è rotto per sempre nel rapporto fra l’illustre professor Vittorino Andreoli e il cronista. Colpa mia. Un po’ anche di Dino Boffo (ma per fortuna niente a che vedere con la vicenda Feltri che ne provocò le dimissioni).
Accadde nel 2006. L’allora direttore di Avvenire, che era stato così gentile da congratularsi con una telefonata al mio esordio in una testata milanese, mi notificò stizzito che il quotidiano della Conferenza episcopale italiana non avrebbe mai più recensito i miei libri. Motivo: in un’intervista sull’attentato alle Torri gemelle, rilasciatami dal suo ex redattore Maurizio Blondet, mi ero permesso di riportare le aspre critiche che costui aveva rivolto al direttore del giornale dei vescovi, reo d’averlo licenziato in tronco. Appena cinque righe su 500, ma bastevoli a provocare la ritorsione del permalosissimo Boffo.
Sapete come vanno queste cose fra giornalisti, sangue chiama sangue, inchiostro chiama inchiostro. Non tirando di scherma come il conte Ferruccio Macola e non avendo neppure Boffo la stoffa dell’intrepido Felice Cavallotti, che nel suo 33° duello morì con la gola squarciata dalla sciabola del direttore della Gazzetta di Venezia, ci affidammo alla polemica a mezzo stampa. Nella quale – lo ammetto – eccedetti: due intere colonne di giornale a 15 giorni di distanza l’una dall’altra. Troppo. Anche se posso invocare un’attenuante: il direttore di Avvenire, anziché affrontarmi a viso aperto, si era nascosto dietro lo pseudonimo di un lettore, tal Massimo Fusta, senza nemmeno curarsi d’indicarne la città di residenza.
Vabbè, cose che capitano tra noi dattilografi, tant’è che qualche tempo dopo facemmo pace. Il guaio è che, per colpire Boffo, menai due o tre fendenti anche ad Andreoli, firma di punta del giornale della Cei, incaricato di stendere ogni domenica un’omelia laica che occupava ben due pagine. Sciabolate di per sé freddamente oggettive: si trattava di citazioni a sfondo sessuale tratte dai romanzi dello psichiatra veronese. Ma, vibrate in quel contesto ecclesiastico, oggettivamente assassine. Presumo che Andreoli ci sia rimasto malissimo, però devo affidarmi all’immaginazione, perché dall’interessato non giunse neppure un fiato.
Passa qualche tempo. Si riunisce la giuria del premio Masi Civiltà veneta, della quale faccio parte. E lì mi batto perché sia presa in considerazione la candidatura di Andreoli, che della nostra terra è un acuto indagatore. Forse mi muove un inconscio proposito risarcitorio (non occorre uno psichiatra per intuirlo). Il fatto è che io sono davvero convinto che nessun altro più di lui sia degno di quel riconoscimento. E poi ricordo ancora il modo in cui mi rimbrottava con sorridente sarcasmo: «Ma Lorenzetto! Com’è che lei vince un sacco di premi e io nemmeno uno?».
Aveva ragione. Com’è che spesso non si danno i premi a chi li merita, cioè ai migliori? Il professore non lo sa, ma posi la domanda anche ad Anna Drugman, amica fidata di Enzo Biagi, addetta stampa della casa editrice che pubblica i libri di Andreoli: possibile che alla Rizzoli non venga mai in mente di proporre il nome del mio concittadino in un concorso nazionale? La risposta, rassegnata, fu che gli argomenti trattati dallo psichiatra erano troppo crudi e avrebbero rischiato di scandalizzare qualche benpensante, che nelle giurie non manca mai.
Arriva finalmente l’anno buono: la pignolissima commissione del premio Masi si convince che la civiltà veneta abbia in Andreoli un formidabile cantore e m’incarica, considerato il calore apologetico della mia sponsorizzazione, di sondare la sua disponibilità a esserne insignito. Qualche giorno dopo formo il numero di cellulare dello scrittore. Mi risponde, gelido, da Parigi. Con un certo disagio, gli spiego il motivo della telefonata, ma capisco subito che fra noi c’è un solco profondo. Commetto anche l’errore di chiedergli se è ancora arrabbiato per via di quei miei articoli sulla vicenda Boffo. Risata nervosa: «Ho cose ben più importanti di cui occuparmi nella vita». Replico: ho capito, è ancora arrabbiato, mi scusi se l’ho incomodata. Clic.
Adesso so che con Andreoli ho chiuso, e non solo quell’imbarazzante telefonata. Peccato. Le nostre case distano, in linea d’aria, 2 chilometri. Lui in collina, io a fondovalle. E la valle è la stessa di suo nonno e di mio nonno. Ci accomuna anche il medesimo rito: una visita alle tombe dei nostri padri all’alba del giorno di Capodanno, quando nei campisanti è difficile incrociare qualche cristiano reduce dai bagordi della notte di San Silvestro.
Sono passati quasi 40 anni da quando vidi Andreoli per la prima volta e quell’incontro avvenuto nel manicomio di Marzana, che richiederebbe una pagina di giornale per poter essere narrato, cambiò in qualche modo il corso della mia vita. Durante gli anni dell’esilio lombardo, lo psichiatra fu vicino alla mia famiglia con rara sensibilità, forse perché ritrovava nelle nostre angustie quella stessa struggente, inguaribile nostalgia che lo aveva a sua volta obbligato a lasciare Milano «con il desiderio di occuparmi dei matti che meglio potevo capire, quelli che parlano la mia lingua originale, il veronese».
Tornato in riva all’Adige, lo intervistai un paio di volte a Novaglie, nello straordinario eremo che sembra disegnato da Frank Lloyd Wright, con le vetrate affacciate sul panorama di Verona anziché sulla cascata; una moderna arca di cemento armato in bilico sull’altura di San Fidenzio, un parallelepipedo appoggiato su uno dei quattro angoli retti. Una casa da mato, è così che i veronesi hanno sempre sbrigativamente etichettato Andreoli, senza neppure rendersi conto di quanto questa catalogazione lo gratifichi.
Nella prima intervista mi confessò che il demonio fu il compagno di giochi della sua infanzia. «Lo cercavo nell’armadio, sotto il letto, nell’oscurità, dappertutto. Era il demonio che avevo conosciuto a dottrina: astuto, con la coda, munito di forcone, sempre pronto a mettertelo nel didietro», rievocò. Finché un giorno, verso i 10 anni, al ritorno da scuola i genitori gli fecero trovare in camera un canarino al posto del crocifisso: «Volevano salvarmi dall’ossessione in cui mi ero rifugiato. Ma io odiavo il suo cinguettio, perché m’impediva di pregare. Pochi giorni dopo me lo tolsero dai piedi. E ricominciai con le orazioni per scacciare il diavolo. Se mi distraevo, mi autopunivo raddoppiandole, in una ripetizione rituale». Vent’anni dopo, diventato psichiatra e scrittore di fama, gli sarebbe capitato d’essere chiamato da Paolo VI proprio per discutere di Satana: «Il mio demonio conosciuto da bambino aveva la stessa drammaticità di quello che tormentava questo grande papa. Oggi conosco un solo demonio: l’uomo. Insuperabile nella sua cattiveria».
Un giorno mi convocò a Novaglie perché gli sarebbe piaciuto collaborare con il quotidiano per il quale lavoravo. Aveva appena lasciato, non ho mai capito bene il perché, il Corriere della Sera. Gli feci preparare un contratto che oggidì, con l’editoria ridotta alla canna del gas, sarebbe improponibile non solo per il Corriere ma financo per il New York Times. Dopo lunga riflessione, preferì accasarsi ad Avvenire, che certo non poteva remunerarlo con eguale prodigalità. Una cosa da pazzi, a volerla misurare con il metro del giudizio comune, ma che lo rese ai miei occhi ancora più magnificamente diverso dagli ominicchi in cui spesso sono incappato in 40 anni di giornalismo.
Un’altra volta mi telefonò perché voleva sentire il mio parere su una proposta che aveva ricevuto dai Democratici di sinistra: la candidatura a sindaco di Verona. Raffreddai all’istante il suo entusiasmo, eccependo che doveva aspettarsi come minimo di finire seppellito sotto una coltre di manifesti murali riportanti quella sua frase tratta dalla perizia psichiatrica su Pietro Maso e riferita a Montecchia di Crosara e dintorni, dove a suo dire «un maiale o un paio di buoi valgono più della moglie». Conclusione tagliente, più letteraria che scientifica, alla quale l’ex direttore del dipartimento di psichiatria dell’ospedale di Soave è stato impiccato per sempre, c’è poco da fare. La matassa di capelli fu percorsa da una scarica elettrica, le sopracciglia neandertaliane si corrugarono, un moto di delusione attraversò gli occhi irrequieti. Credo che la prospettiva di fare il primario in quella gabbia di matti che è il Consiglio comunale lo attraesse parecchio. Vi rinunciò. O rinunciarono i Ds, va’ a saperlo.
Nel 2017 sarà passata una ventina d’anni da quella mancata candidatura. Il professore ne avrà compiuti 77. Forse è troppo tardi per lanciare un appello al Pd, lacerato da dissidi interni e incapace di esprimere un candidato unitario, ma ci provo lo stesso: ripensateci, per lo scranno più alto di Palazzo Barbieri difficilmente troverete un veronese sapiente e carismatico quanto Vittorino Andreoli.
In subordine, mi rivolgo ai colleghi giurati del premio Masi. Stavolta magari fatelo chiamare da qualcun altro, però, vi prego, costringiamolo a ritirare questo riconoscimento alla carriera. Non per la cinquantina di libri, uno più bello dell’altro, che ha scritto finora. No, solo per l’ultimo, che ho ricevuto in anteprima dall’editore Gabrielli e che sarà presentato il 21 novembre alla Gran Guardia: la nuova edizione di Omeni, done e buteleti. Un’elegia scabra, sapida e toccante delle nostre ascendenze agricole. In dialetto, dalla prima all’ultima riga. «Mi sono accorto», scrive Andreoli alla fine dell’introduzione, le uniche quattro pagine in italiano su 216, «che le mie meditazioni sono costruite nella lingua di mio padre, dei miei nonni, dei nonni dei miei nonni. È la lingua in cui si sta consumando la mia piccola storia».
Non mi pare d’aver mai sentito un sindaco di Verona parlare così. Se non è civiltà veneta questa...
Stefano Lorenzetto

LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).

LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.