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 2015  ottobre 30 Venerdì calendario

COME TI SMONTO L’EXPO

L’ 1 novembre finirà tutto. Resteranno soltanto tante cose da decidere e fare, e le cifre ufficiali di Expo: 23 milioni di visitatori, più o meno, che divisi per 164 giorni attestano una presenza media quotidiana di 140 mila esseri umani. È stata una città a tempo determinato, grande come Salerno, che poi si è ingrandita fino a ospitare 250 mila abitanti, come Verona. Piazzarsi all’incrocio tra Cardo e Decumano e girare su se stessi è un’esperienza ubriacante: intorno scorre ovunque una fiumana di scolari eccitati, mariti e mogli per mano, fidanzati che litigano, l’intero corpo di ballo dell’Angola. Decine di migliaia di persone che cambiano ogni giorno, disposte ad affrontare ore di coda pur di vedere padiglioni di Paesi di cui, prima di allora, a stento avevano sentito parlare. L’unico che non si vede è Beppe Grillo, che il 15 marzo 2014 gridava: «C’è un campo, quattro pezzi di cemento. Ma chi è che viene a Rho?». La sua profezia si avvererà l’1 novembre, quando il gigantesco lunapark – «il chilometro di orrori» che ha schifato l’architetto Jacques Herzog, e che invece ha riposizionato l’immagine di Expo nel mondo come evento popolare, e perfino volgare, ma vivo – tornerà a essere una città vuota, abitata soltanto da sparsi operai impegnati a smontare. Il termine è il 30 giugno 2016, ma forse si finirà prima. Poi, scompariranno anche loro. Saranno 3-4 mila in tutto, anche se per ora Expo dello smantellamento – il cosiddetto dismantling – si rifiuta di parlare.
Le questioni aperte sono molte, molto serie e molto complicate: sono state fatte le bonifiche? che cosa rimarrà? che cosa ne sarà dell’area? Insomma: che cosa lascerà Expo? Prima, però, c’è la sindrome della città che scompare. Dove finiranno i 200 lavoratori in costume del padiglione del Kazhkstan? Per sei mesi hanno abitato all’Expo Village di Cascina Merlata, costretti ad andare a letto prima di mezzanotte e a non allontanarsi per più di trenta chilometri, pur avendo qualche macchina a disposizione. «Quando finisce si rischia di cadere in depressione» dice Jacopo Stecchini della Third Floor Communication, che a Milano ha curato la comunicazione di vari Paesi. «A me è successo nel 2010, dopo Shanghai, ma poi sono arrivato a Milano per fortuna, e adesso me ne vado ad Astana a fare l’Expo del 2017». Come la maggior parte degli altri padiglioni, anche quello kazako sarà smantellato: smontare e rimontare ha costi troppo alti, che da contratto sono a carico dei vari Paesi, mentre quelli dei cluster spettano a Expo.
Smantellano anche Azerbajan, Oman, Thailandia, Vietnam e Vaticano, ma dopo avere rispedito l’arazzo di Rubens al Museo Diocesano di Ancona; smantella la Caritas, riciclando «l’Edicola» non si sa dove, e smantella Israele, che però lascerà in Italia il campo verticale di grano e mais, uno dei luoghi record per i selfie. Il Brasile vuole mettere all’asta gli arredi interni, confidando sul fatto che a Shanghai dopo un paio d’anni si creò un mercato di collezionisti. La Malesia rivenderà l’80 per cento del durissimo, rarissimo, pregiatissimo legno gulam di cui è fatto il suo padiglione. Un po’ di bosco dell’Austria finirà in Trentino Alto Adige. L’Angola si spedirà i pezzi in patria, e deciderà poi. Francia e Principato di Monaco faranno lo stesso. La Repubblica Ceca farà uffici a Praga. Il padiglione del Bahrein finirà nella villa del sultano come museo aperto al pubblico. La piazza del cluster del Bio Mediterraneo l’ha chiesta un Parco culturale di Favara, provincia di Agrigento.
La verità è che si naviga a vista perché prima, pochi hanno pensato al dopo. Erano tutti troppo impegnati a rincorrere, per programmare. È successo a ogni livello, a partire dai vertici. Il commissario unico ha annunciato che rimarranno Albero della vita, Palazzo Italia e Padiglione zero. Anzi, che verranno riaperti in primavera per concerti. Sembra sicura anche che la permanenza di Open Theatre e Children Park. Il vero problema è stabilire chi smantella cosa tra Expo ed Arexpo, la società che ha acquisito il terreno per conto di Expo e che non ha programmato smontaggi, perché il suo mandato era rivendere tutto nel bando andato deserto del novembre 2014. Esiste un accordo quadro, ma nel frattempo molte cose sono cambiate. «La questione più grande sono le bonifiche» dice Luciano Pilotti, il presidente di Arexpo, «bisogna capire quali sono state fatte da Expo e quali dovremo fare noi. Le carte ci sarebbero dovute arrivare anni fa, ma le stiamo ricevendo solo ora, e senza una valutazione seria dell’inquinamento è difficile prendere decisioni per il futuro».
Sfortunatamente, se non si vogliono perdere i finanziamenti delle banche, un progetto deve essere presentato entro dicembre. Domani.
Nonostante questo, Pilotti è ottimista. Il 10 novembre Renzi annuncerà il futuro, ma secondo Pilotti in campo, oggi, c’è solo un progetto: «Si sta consolidando l’idea di un Parco della Scienza e Tecnologia, che metta insieme università e aziende. È intervenuto il governo per non buttare 1,4 miliardi di investimenti già fatti. Potrebbe decidere un aumento di capitale che metta sullo stesso piano, al 25 per cento, i tre partner pubblici, cioè governo, Comune e Regione». L’area è di 500 mila metri quadri, più altrettanti di verde: le facoltà scientifiche ne occuperebbero 250 mila, centomila Nexpo, imprese tecnologiche o scientifiche di Assolombarda, altri cento l’Agenzia del Demanio, che trasferirebbe a Rho molte sue attività, e il resto il Centro ricerche agroalimentari, Alta Gamma e Fabbrica del Duomo. In più c’è il No Profit della Cascina Triulza. Nell’aprile scorso la Cassa depositi e prestiti ha previsto un investimento di 500 milioni di euro, in gran parte portati dall’università attraverso la vendita degli immobili e l’indebitamento. «I lavori potrebbero partire a fine 2017», dice Pilotti, «ma poi ci vorranno almeno 7 anni». È prevista anche una terza fase, almeno sulla carta, chiamata «The Tube». È un acceleratore lineare di elettroni lungo 1,5 km da costruire sotto il Decumano che servirebbe anche per studiare i Big Data prodotti, eventualmente, dall’università. Costerebbe altri 600 milioni, ma sarebbero interamente da attribuire alla comunità europea.
Gianluca Vago, il rettore dell’Università Statale, conferma tutto, ma è più prudente: «Nel febbraio scorso, riallacciandoci a un proposta di Assolombarda, abbiamo lanciato l’idea di legare mondo della ricerca e dell’innovazione, quindi università e imprese, nell’area di Expo. Ma al momento tutto si basa su uno studio molto generico di Cassa depositi e prestiti. Altrove il modello funziona, per esempio ad Amsterdam. Negli altri 500 mila metri quadri che dovranno rimanere verdi» continua Vago, «si potrebbero riprendere il progetto del Parco della Biodiversità o trasferire l’Orto botanico di Città Studi».
Per l’Università non sarebbe più conveniente ristrutturare? «No, ricostruire sarebbe più razionale ed efficace, anche da un punto di vista energetico» dice il rettore. «Abbiamo edifici che cadono a pezzi, o stratificati in modo anarchico, e poi le strutture scientifiche e laboratori hanno un secolo di vita. Concentrare tutto in un sola area raggiungibile dagli 8 aeroporti e a venti minuti dal centro sarebbe un grande vantaggio per Milano. Certo, in Città Studi si libererebbe un’area molto grande. L’impatto urbanistico sarebbe forte». E il progetto dell’acceleratore sotto il Decumano? «Potrebbe trovare qualche forma di finanziamento europeo, per esempio all’interno del Piano Juncker. Tra l’altro l’idea è stata lanciata da Giorgio Rossi, che insegna Fisica della materia da noi e che nel frattempo è diventato vicepresidente di un gruppo dell’Unione Europea che valuta anche i nuovi progetti di infrastrutture per la fisica».
Milano è sempre stata una città tolemaica, fatta di cerchi orbitanti intorno a un unico centro. Nell’ultimo anno, i suoi centri si sono moltiplicati: la Darsena, i quartieri Isola-Garibaldi e Portello, la Fondazione Prada e l’Expo, soprattutto, hanno ridato una vita pubblica a zone dove si esisteva solo dentro le case. Per un po’ a Rho ci andranno gli smantellatori; poi se riaprirà davvero per gli studenti, ci sarà davvero un centro in più. Peccato che quelli in costume del Kazakhstan debbano andare via.
Giacomo Papi