Enrica Brocardo, Vanity Fair 28/10/2015, 28 ottobre 2015
ECCO CHI È CARY FUKUNAGA, IL PRIMO REGISTA CHE POTREBBE VINCERE UN OSCAR CON UN FILM PER IL WEB
Cary Fukunaga è l’uomo d’oro del momento.
Il suo Beasts of No Nation rischia di essere il primo film nato per la visione online a concorrere per un Oscar. E il solo fatto che se ne parli e che, all’ultima Mostra di Venezia, il giovane protagonista della storia, Abraham Attah, abbia vinto il premio Marcello Mastroianni, è già abbastanza clamoroso.
Tanto più che questo (dal 22 ottobre, disponibile anche in Italia) è anche il primo film prodotto da Netflix, la società americana che fino a dieci anni fa faceva profitti noleggiando dvd e che ha saputo riconvertirsi velocemente allo streaming online.
Io ti proteggerò
«Dove c’è Cary, ci sono le ragazze», ha detto un suo amico. Il perché lo capisco quando mi siedo davanti a lui in una stanza d’albergo a Londra, dove il film è stato presentato al London Film Festival a inizio ottobre.
Fukunaga, 38 anni, californiano, padre giapponese, madre di origini svedesi (alla cui passione per i vecchi film di Cary Grant deve il nome), ha una faccia più da divo del cinema che da regista, incorniciata da un paio di occhiali da intellettuale che rimandano ai suoi solidi studi in Storia e Scienze politiche, e un fisico sportivo, eredità di un trascorso da snowboarder professionista.
Accanto a lui c’è Abraham Attah, 15 anni, ghanese, che nel film interpreta Agu, il ragazzino rimasto senza famiglia che il «comandante» Idris Elba trasforma in un soldato.
Abraham non è un attore professionista. Fukunaga lo ha scovato fra centinaia di altri ragazzini che giocavano.
«Nella scena iniziale, Agu cerca di vendere un apparecchio Tv vuoto. Mi ricorda un po’ com’ero io da bambino, mi piaceva fare piccole “truffe”. Ero piuttosto bravo a ottenere quello che volevo con il poco che avevo a disposizione. Quando scegli qualcuno come lui che non ha la minima idea di come la sua vita cambierà all’improvviso, ti prendi una grossa responsabilità. Sto cercando di aiutarlo a ottenere il meglio da questa esperienza, e al tempo stesso di evitargli delusioni. Dev’essere pronto a tornare alla vita di prima. E non è facile. In Ghana, la gente pensa che sia diventato ricco, cosa che non è affatto vera. Lo tratteranno in modo diverso, non necessariamente meglio».
Ti mandiamo nei campi
L’idea di una storia sui bambini soldato gli venne una decina di anni fa. Prima di girare Jane Eyre del 2011, con Mia Wasikowska e Michael Fassbender, e la serie Tv True Detective di Hbo che lo ha consacrato regista di culto.
Ma è l’immigrazione il tema che gli sta particolarmente a cuore e a cui ha dedicato il suo primo film Sin nombre (premiato al Sundance nel 2009) e un corto del 2004, Victoria para chino.
Fukunaga è cresciuto tra la California e il Messico. Da piccolo, per farlo stare buono, gli indicavano i clandestini nei campi e gli dicevano: «Se non ti comporti bene, ti mandiamo a lavorare con loro». Mentre i genitori di suo padre, come molti altri giapponesi, finirono in un campo di internamento durante la Seconda guerra mondiale.
«Ci sono più rifiugiati al mondo oggi di quanto ce ne siano mai stati nella storia dell’umanità. E ciò che stiamo vivendo è solo l’inizio. Mi ha colpito molto la vicenda di quelle persone trovate morte in un camion lungo l’autostrada in Austria (lo scorso agosto, ndr). Esattamente la stessa cosa che era successa in Messico nel 2003 e che ho raccontato nel mio cortometraggio. Vedere che in Europa succedeva di nuovo mi ha fatto infuriare. Sembra quasi che stiate imitando gli Stati Uniti. Penso alla costruzione di un muro per fermare gli immigrati. Non servirà a niente».
I have a dream
La sua biografia ufficiale comincia con questa frase: «Ha girato film ovunque nel mondo». «Non posso definirlo un piano prestabilito, ma ho sempre accettato volentieri lavori che mi avrebbero portato all’estero. Negli anni Ottanta, come cameraman, ho viaggiato molto, dal Polo Nord all’Africa occidentale. Ma ci sono ancora tanti visti che mi mancano sul passaporto».
Fukunaga conosce molto bene anche l’Italia. A un certo punto si mette a parlare di «questione meridionale» e dei romanzi di Elena Ferrante.
«Ci sono stato molte volte, la prima per turismo a 18 anni. E quando studiavo Scienze politiche in Francia, a Grenoble, andavo spesso a trovare un amico a Bologna».
A Napoli ha trascorso alcune settimane per fare ricerche su un’idea di film che ha nel cassetto dal 2009.
«Un love story e un mistery su alcune persone morte durante l’eruzione di Pompei che ritornano in vita. Sin da piccolo mi ha sempre affascinato il fatto che la storia potesse nascondersi sotto i nostri piedi, e che scavando potessimo riportarla alla luce».