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 2015  ottobre 26 Lunedì calendario

SE LO STATO DEVE TORNARE IMPRENDITORE

Il cuore di un’economia quale l’italiana è tuttora la manifattura. Lo è perché la manifattura è il motore dell’innovazione, del progresso tecnico, della produttività del sistema e perché essa esprime beni esportabili, essenziali per pagare le fonti d’energia e i prodotti primari che non si può evitare di importare. La manifattura italiana, dopo aver brillato fra il 1950 e gli anni Ottanta, ha visto scemare produttività e competitività. Attualmente il valore aggiunto per addetto è di quasi un quarto inferiore a quello di Germania, Regno Unito e Francia. Il costo del lavoro per unità di prodotto dal 2000 è salito del 40%, rispetto al 15% della Francia e allo zero per cento della Germania. Se la comparazione del valore aggiunto per addetto viene effettuata distinguendo le diverse categorie dimensionali delle imprese manifatturiere, emerge un divario nella pletora – milioni delle aziende italiane minori (massimo 9 dipendenti). Il divario è compreso fra il 30% rispetto alle aziende tedesche e il 50% rispetto alle inglesi. Lo scarto si attenua sino ad annullarsi quando si sale alle unità da 20 a 49 dipendenti e cambia addirittura di segno nel caso delle aziende medie, da 50 a 249 addetti, con la produttività italiana che arriva a travalicare del 15% quella negli altri tre paesi. Il divario negativo tuttavia riemerge allorché si superano i 250 dipendenti e la produttività della nostra manifattura risulta del 10-15% inferiore a quella inglese e a quella tedesca (non alla francese).
Che vi siano limiti nella zona alta dell’industria è confermato dalla pochezza numerica e dalla dimensione modesta dei maggiori gruppi italiani nel confronto internazionale. Solo una decina fra essi superano i 15-20mila addetti. Nessuno è presente in attività a elevata, moderna, innovativa tecnologia, situate sulla frontiera delle produzioni mondiali. Nessuna entra nelle graduatorie delle "worlds’s most admired – big – companies". Una risposta spontanea del capitale privato a tale preoccupante condizione potrebbe mancare, come è avvenuto dal 1992 con gli alti profitti scaturiti dallo svilimento del cambio, dalla debolezza del sindacato, dalla spesa pubblica a pioggia, dallo scemare della concorrenza, dall’elusione ed evasione delle imposte.
Lo Stato potrebbe allora, suo malgrado, doversi di nuovo improvvisare produttore ricorrendo all’impresa pubblica, anche se per vie diverse da quella che, con l’IRI, Beneduce e Menichella imboccarono negli anni Trenta del Novecento. La storia, lo studio della storia, soddisfa curiosità sul passato in quanto tali intriganti. Ma può utilmente suscitare questioni di rilievo per l’oggi e per il futuro. Questo duplice spirito ha animato la "Storia dell’Iri 1933-2002", che Laterza ha pubblicato fra il 2012 e il 2014. L’opera si articola in sei volumi: 1. Dalle origini al dopoguerra (a cura di Valerio Castronovo); 2. Il miracolo economico e il ruolo dell’Iri (a cura di Franco Amatori); 3. I difficili anni ’70 e i tentativi di rilancio negli anni ’80 (a cura di Francesco Silva); 4. Crisi e privatizzazione (a cura di Roberto Artoni); 5. Un Gruppo singolare. Settori, bilanci, presenza nell’economia italiana (a cura di Franco Russolillo); 6. L’Iri nell’economia italiana, curato da chi scrive queste righe. Hanno contribuito una cinquantina di studiosi, coordinati da un comitato presieduto, finché gli è stato possibile, da Luciano Carfagna e di cui hanno fatto parte Amatori, Castronovo, Ciocca, Russolillo.
Sul piano scientifico gli esiti della ricerca si stanno discutendo in varie sedi, universitarie e non. L’Accademia dei Lincei ha ospitato un partecipato convegno sotto gli auspici della Banca d’Italia. L’AssiI, l’Enciclopedia Italiana Treccani e la Fondazione Gramsci hanno programmato una giornata di riflessione – Fra economia e politica: l’Iri e la storia d’Italia – a Roma il prossimo 18 dicembre.
Il gruppo Iri, sorto nel 1933 quando la depressione del 1929 restava acuta al punto di minare la stessa Banca d’Italia, attraversò alterne vicende. Operò al meglio negli anni Trenta, recando un apporto decisivo al superamento della crisi industriale e bancaria. Fra il 1940 e il 1948 andò incontro a difficoltà e incomprensioni che ne misero a repentaglio la stessa sopravvivenza. Nel 1950-1970 molto contribuì al "miracolo economico", che vide il reddito medio pro capite degli italiani triplicare in un ventennio grazie al processo di industrializzazione esteso al Meridione. Sperimentò negli anni Settanta perdite e debiti, da cui non riuscì a risollevarsi, nonostante i progressi compiuti negli anni Ottanta. Le perdite e i debiti si riproposero nel decennio successivo. Dietro le istanze europee, nel mutato clima politico del Paese, sfociarono nella privatizzazione delle imprese che l’Iri controllava e nella liquidazione del gruppo, conclusasi nel 2002.
Al di là di queste complesse vicende l’Iri dové fronteggiare, fra gli altri, un problema di fondo: sostituire l’impresa pubblica alla privata, là dove questa si dimostrava manifestamente incapace di assicurare al Paese capitali e imprenditorialità in settori chiave. A questa supplenza può, mutatis mutandis, accostarsi l’azione svolta dalla "Mediobanca" di Cuccia e Maranghi: fungere da "badante" delle poche grandi imprese private, bisognose di risorse, suggerimenti, sostegni esterni. Si ripropone oggi, può riproporsi domani, un analogo problema di adeguatezza dei maggiori centri d’affari del Paese? I volumi pubblicati invitano a non eludere una siffatta domanda, sebbene la storia di rado si ripeta e sebbene una soluzione "tipo IRI", qualora il problema si confermasse, appaia difficilmente attuabile.
PIERLUIGI CIOCCA, Affari&Finanza – la Repubblica 26/10/2015