Massimo Lopes Pegna, Style 27/10/2015, 27 ottobre 2015
ANIMA YANKEE
«Chiunque voglia Comprendere il cuore e la mente dell’America, è meglio che cominci a studiarsi il baseball». Lo storico e filosofo Jaques Barzun ha scritto oltre 40 libri, ma viene ricordato soprattutto per questa citazione. Da quasi un secolo e mezzo il baseball è il «national pastime», il passatempo nazionale, uno slogan mai passato di moda (certo, i tifosi di basket e football potrebbero obiettare cifre alla mano sulla questione popolarità... Ma questa è un’altra faccenda). Le World Series, le finali del campionato Usa di baseball, sono l’evento più antico di una nazione con poca storia. Si giocano dal 1903, da quando American League e National League scelsero di sfidarsi per avere una sola squadra campione. Così, da 112 anni, ogni autunno, con ripetitiva eccezionalità, l’America parla di quello. È la consuetudine a cui si è affezionato un intero Paese: non ci può essere un ottobre senza World Series. Non c’è mai stato, a parte due casi: nel 1904 (per una stupida rivalità fra le due leghe) e nel 1994 (per lo sciopero dei giocatori). Non le hanno fermate neppure le due guerre mondiali, quando anche Joe DiMaggio e gli altri big andarono sotto le armi a difendere la Patria. In una lettera al commissioner delle Major League Baseball di allora, il Presidente Franklin Delano Roosevelt scrisse: «Con tutta onestà, penso sia nell’interesse del Paese che si continui a giocare». E così fu. Milioni di orecchie s’incollarono alle radio per le cronache di quelle mitiche finali che sollevarono lo spirito di un popolo con disperato bisogno di normalità.
Da buon europeo, Albert Einstein non capiva: «Insegnatemi il baseball e vi farò imparare la teoria della relatività. Ma sono certo che apprenderete più rapidamente voi la fisica che io il vostro sport». Da grande appassionato, Humphrey Bogart cercò di spiegare ai colleghi stranieri: «Un hot dog allo stadio durante le World Series è meglio di una bistecca al Ritz». DiMaggio, protagonista di dieci finali e nove volte vincitore, con la serietà che lo contraddistingueva chiarì le ragioni del suo successo: «Do tutto me stesso, perché ci sarà sempre qualcuno che mi vedrà giocare per la prima o l’ultima volta: lo faccio per loro». Don DeLillo, uno dei più apprezzati scrittori Usa contemporanei, ha raccontato la sua America, in Underworld, partendo dal fuoricampo che passò alla storia come «il colpo udito in tutto il mondo»: Bobby Thompson che spedisce la pallina sulle tribune del Polo Grounds, lo stadio dei New York Giants che oggi non c’è più, e contribuisce a mandare la sua squadra alle World Series del 1951. È come se in quelle partite, quattro o sette che siano, si sintetizzi la coscienza di tutta una nazione. Quelle del 1919 furono macchiate dal tradimento, la più antica «calciopoli» dello sport: otto giocatori dei Chicago White Sox accettarono di perdere in cambio di una cospicua somma pagata dagli scommettitori. Furono scagionati da un tribunale, ma radiati dal baseball: una ferita mai rimarginata. L’anno prima ci fu la «maledizione del Bambino». Harry Frazee, proprietario dei Boston Red Sox e impresario teatrale, cedette la promessa Babe Ruth agli odiati New York Yankees per finanziare un musical di Broadway. Per la credenza popolare, fu l’inizio di una macumba. Gli Yankees, grazie alle prodezze del «Bambino» Ruth, iniziarono il loro dominio; i Red Sox il loro declino: un digiuno di 86 anni, prima di riconquistare la vetta della Mlb alle World Series del 2004.
Alla vigilia delle finali del 1989 il giornalista Mike Recht, ignaro di ciò che sarebbe accaduto pochi giorni dopo, predisse: «Ci vorrebbe un terremoto per stoppare la superiorità dei Giants». Chi stava in tribuna poco prima di gara tre fra San Francisco e Oakland, il derby della Baia, vide il faro di fronte allo stadio piegarsi a 45 gradi come una canna di bambù: erano le prime scosse del sisma più potente dal 1906. Ma le World Series furono solo rinviate di dieci giorni. Poi San Francisco fu fermata, ma sul campo: quattro a zero. L’illustratore del New Yorker Saul Steinberg scrisse che «il baseball è una rappresentazione allegorica dell’America: un frullato di poesia, coraggio, paura, fortuna, errori, pazienza e destino». Un’esagerazione? Chi non è americano è meglio che inizi a studiarsi il baseball.