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 2015  ottobre 26 Lunedì calendario

NOSTALGIA CONIGLIA

«Posso essere indiscreto?».
«Dimmi pure». Tintinnare di tazze e piattini da caffè, volume della radio troppo alta, vociare romanesco e frettoloso in sottofondo.
«Qual è la donna più bella che hai mai visto in tutta la tua vita?».
La domanda è banalissima, ma solo se non si conosce il contesto. Roma, cinque di pomeriggio circa, uno dei tanti bar in zona Torre Argentina, sono al tavolo in fondo alla sala con Massimo Balletti. Siciliano, classe ’42, ironia garbatissima e savoir faire d’altri tempi spalmato su un distinto signore alto e dinoccolato. Nella sua lunga carriera di giornalista Balletti ha vissuto in prima persona la nascita, l’ascesa e il crepuscolo dei magazine erotici in Italia: caporedattore di Playmen, direttore di Playboy, fondatore e direttore di Excelsior, direttore di Penthouse, senza contare Men, Le Ore e tantissima altra carta stampata, patinata e non.
Personalmente credo che l’erotismo racconti molto della società e del tempo in cui si vive: come un termometro che misura la temperatura dei nostri corpi, l’immagine di nudo continua ad essere la grata di un confessionale che si frappone tra noi e chi abbiamo davanti, permettendoci una sbirciata furtiva attraverso i fori della lastra di metallo. Le riviste come Playboy, Penthouse, Playmen hanno scardinato diversi paletti dalle barriere culturali dell’epoca, contribuendo alla rivoluzione dei costumi sessuali e alla costruzione di un immaginario resistente ancora oggi.
Per questo ho chiesto a Massimo Balletti di incontrarci, per parlare dell’editoria erotica in Italia, dei magazine che ha “vissuto”, dei cambiamenti della società spiati dal buco di una serratura.
Il casus belli arriva da lontano: Holmby Hills, Los Angeles, dove svetta la Playboy Mansion. Qui circa un mese fa Corey Jones, top editor di Playboy Usa, ha proposto al patron Hugh Hefner un cambio radicale di rotta nella gestione del magazine: da marzo niente più nudi integrali, linea editoriale più focalizzata su giornalismo investigativo, approfondimenti e interviste, per un target che va dai 18 ai 30equalcosa anni. Insomma, pulizie di primavera in grande stile. Il buon vecchio Hef a 89 anni non ha perso l’intraprendenza di sempre e ha accettato. Un rischio? Forse, ma le motivazioni ci sono tutte: «Non fraintendetemi», ha spiegato Jones, «il dodicenne che è in me è davvero deluso, ma è la cosa giusta da fare».
I numeri parlano chiaro: se nell’anno di grazia 1975 Playboy vendeva 5,6 milioni di copie, oggi arriva a 800mila (dati dell’Alliance for Audited Media); qualunque fantasia pornografica è accessibile in pochi click; anche i barbieri di paese, lentamente, fanno sparire le riviste “da uomo” dalle salette di attesa. L’anno scorso Playboy ha eliminato il nudo integrale dal sito web registrando un incremento del 250% del traffico e un abbassamento di età del lettore medio da 47 a 30 anni.
Quale futuro quindi? Staremo a vedere. Ma se c’è una cosa che ho imparato dai corsi e ricorsi e storici fino all’eterno ritorno dell’uguale è che, a volte, per fare un salto in avanti è utile guardarsi indietro e prendere una lunga rincorsa. Non a caso in terzo liceo sono stato rimandato in filosofia. L’anno dopo in educazione fisica.
Torniamo a Balletti. Brevissima cronostoria erotica patinata italica: “Diciamo che gli anni ‘60 sono stati la spinta iniziale in cui tutto avviene”, mi spiega sorseggiando il caffè. “Dagli anni ‘70 fino a metà ‘80 i giornali si perfezionano a livello grafico e di contenuti, cavalcando l’ottimo momento editoriale e commerciale; la seconda metà degli anni ‘80 è stata il canto del cigno, prima dell’inesorabile declino degli anni ‘90 dovuto essenzialmente al mercato dei VHS porno”.

Qual è stato il segreto del grande successo di Playboy?
«Il cocktail innovativo che mescolava il nudo di donna con cultura “aggressiva”, shakerato dalla visione di Hefner, personaggio incomprensibile quanto straordinario. In pochi mesi Playboy diede una grande lezione di stile: il sesso era un grimaldello che scatenava la libertà sessuale dei lettori, ma Hefner era rigorosissimo negli stilemi su cui poggiava il magazine. Il segreto era la grande libertà di espressione data ai grafici, ai disegnatori e ai redattori. Così i grandi dell’underground americano si trovarono a dare il meglio di sé: nel primo anno di vita, dal ‘53 al ‘54, Playboy aveva una foliazione di 164 pagine dedicate solo alla letteratura, che negli anni ’60 arrivarono a 200 e ospitarono firme come Alfred Kazin, Leslie Fielder e Nabokov. Inoltre poteva permettersi di pubblicare interviste dettagliatissime a nomi come Fidel, Marquez o Malcom X».
Hai iniziato con Playmen negli anni ‘70 e poi sei passato a Playboy quasi 10 anni dopo: quali erano le differenze?
«Erano diversissimi. Playmen era un prodotto totalmente italiano, ideato nel ’67 da Saro Balsamo, catanese, marchese di San Felice, e portato avanti con talento dalla moglie Adelina Tattilo che ereditò parte del suo impero editoriale dopo il divorzio. Essere laici e pubblicare un mensile come Playmen in un paese cattolico come l’Italia comportava un modo molto diverso di trattare certi argomenti rispetto agli americani. Loro hanno una presunta tonalità sessuale, noi inevitabilmente abbiamo più remore di carattere etico-religioso e questo ha prodotto risultati anche migliori dal punto di vista della ricchezza dell’immaginario e dell’immaginazione. In punta di penna e con grande attenzione fotografica dovevamo mediare tra un messaggio rivoluzionario e la sua accettazione da parte di un pubblico imbevuto di cultura religiosa. E ci siamo riusciti benissimo, anche grazie a firme intelligenti e garbate come Bevilacqua, Moravia, Giovanni Arpino e alle interviste a personaggi come Warhol, De Chirico, Henry Miller, Marquez, Burroughs. Inoltre Playmen era più “italiano” anche nella scelta delle donne, dalla sensualità meno giunonica come Brigitte Bardot, Ornelli Muti, Clio Goldsmith, Ornella Vanoni».
A chi va il merito del successo di Playmen?
«Il successo del giornale è merito all’80% del direttore Luciano Oppo, che già aveva guidato Men: un grande maestro che viveva ogni pagina come un’espressione artistica. Ma i successi, come le disfatte, vanno sempre frazionati. Per un bel periodo abbiamo miscelato il cocktail di Playboy a meraviglia, con grande attenzione alla cultura, alla società e ai suoi cambiamenti. Pensa che le prime divulgazioni psicoanalitiche su un mensile popolare furono pubblicate su Playmen grazie a Emilio Servadio. Era l’unico magazine che ospitava trattamenti così ostici per il lettore medio. Aggiungi che vi lavoravano fotografi come Mimmo Cattarinich, Franco Marocco e Roberto Rocchi, e il profilo è completo».
Poi, nell’82, sei passato a Playboy come direttore: che atmosfera si respirava?
«Era la massima espressione di quel genere di magazine, pubblicata dal massimo editore italiano (prima Rizzoli, poi Mondadori) con il marchio di Hefner: era la mia prima direzione (sorride con nostalgia). Pensa che quando andavo a Chicago il marine all’uscita dell’aeroporto mi faceva il saluto militare perché sapeva che lavoravo per Playboy, e per la città era una sorta di rivincita verso New York e Los Angeles. La sede italiana era a Milano 2, l’impero di un Berlusconi nascente che intervistai di persona nel numero di gennaio 1983. In quell’occasione mi diede la celebre risposta “Sono un democratico, chiamatemi Sua Emittenza”. Lavorare per Playboy era bellissimo, ma c’era una struttura organizzativa molto verticale con Mondadori molto presente nelle scelte editoriali. Da un lato era un bene, dall’altro portò alla fine della mia collaborazione».
Siamo a metà anni ’80: società dei consumi, yuppismo e gli ultimi scampoli di riflusso da cavalcare. Il target italiano si divideva tra Playmen e Playboy, poi cos’è successo?
«Ho fondato Excelsior con Saro Balsamo, nell’86: una rivista di gran qualità nella fotografia e nei contenuti, con un prezzo di copertina proibitivo, 10.000 Lire. I nudi erano contestualizzati nei luoghi della grande memoria italiana o in interni elegantissimi; spendevamo 10 milioni di lire per ogni servizio e lo vendevamo anche in Giappone, in Germania, in Olanda. Per i primi sei mesi non avemmo mai resa, vendevamo ogni singola copia. Memorabile il servizio fotografico di Mimmo Cattarinich agli scavi di Pompei dove ricostruimmo le antiche case di piacere, o quello di Michelangelo Giuliani alle cascate di Saturnia, erano come piccoli film che puntavano alla qualità artistica. Proposi a Michelangelo Antonioni un servizio che mescolava letteratura, pittura e fotografia e lui ne fu entusiasta: in quel caso ho visto l’artista e il professionista che sapeva meravigliarsi del mondo come pochi, impareggiabile. Purtroppo si ammalò durante i lavori e dovemmo accantonare il progetto».
(Un’altra smorfia di nostalgia: parte dagli occhi e scivola fino alla bocca che si piega in un sorriso amaro. Guardo l’orologio: le 18.20. È trascorsa più di un’ora e nessuno dei due sembra essersene accorto.)
La trafila dei magazine erotici l’hai completata con Penthouse negli anni ’90. Non vorrei annoiarti sulla crisi dell’editoria contro il Vhs quindi arrivo al sodo: cosa è cambiato in questi 20 anni?
«Nulla, e il problema è proprio questo. Non ci sono stati processi innovativi nelle espressioni editoriali, ma quasi sempre delle revisioni di stilemi già visti. La genuinità è sparita, con il ritocco digitale lo stile si è omologato e in definitiva il nudo è stato fagocitato dalla pubblicità, perdendo quella carica eversiva iniziale. Oggi mi annoio a morte nello sfogliare queste riviste».
Forse allora c’era più coinvolgimento da parte di intellettuali in questi temi?
«Il problema è che allora c’era una certa intellighènzia, oggi no. E quando c’è si tiene alla larga da questi temi».
Sembri nostalgico.
«Sono assolutamente nostalgico».

Ci alziamo dal tavolo, Massimo insiste per pagare i caffè e non cede alle mie proteste da meridionale con il culto dell’espresso. Lo ringrazio con una stretta di mano il più virile possibile, mentre ci avviamo all’uscita del bar.
«Posso essere indiscreto?».
«Dimmi pure». Tintinnare di tazze e piattini da caffè, volume della radio troppo alta, vociare romanesco e frettoloso in sottofondo.
«Qual è la donna più bella che hai mai visto in tutta la tua vita?».
“Sulla bellezza c’è un capitolo a parte: è cultura, opera d’arte, un modo di vivere e di mandare un messaggio. La bellezza pregnante ha pochissimi nomi. Ne parliamo la prossima volta».