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 2015  ottobre 25 Domenica calendario

IL CIMITERO VERTICALE A VERONA

Che cosa c’è sotto? Capisco che suoni crudele, considerata l’abituale collocazione dei defunti, ma la domanda sorge spontanea di fronte al puntiglio con cui il sindaco di Verona, Flavio Tosi, difende il controverso progetto del cosiddetto cimitero verticale, sino a far saltare, com’è accaduto giovedì scorso, la seduta del Consiglio comunale convocata sull’argomento. Se il traforo delle Torricelle divide in due la città, il grattacielo dei morti la riunifica: ben pochi veronesi hanno capito il senso della bizzarra operazione.
Nessuno vuole il funereo falansterio non dico sull’uscio di casa ma neppure nei paraggi. E nemmeno nelle verdi praterie del Fondo Frugose o della Genovesa. Un motivo ci sarà. Che io sappia, l’unico morto sepolto in perpendicolare è stato Carlo Scarpa (così mi assicura Alfonso Vesentini Argento, che fu suo allievo), ma solo perché il grande architetto veneziano morì per una caduta mentre si trovava a Sendai e i giapponesi rimandarono in Italia la salma seduta dentro una bara a forma di baule.
Anziché piegarsi alla contrarietà popolare, Tosi, da autentico hombre vertical, non recede. A Diretta Verona su Telearena ha chiarito i suoi convincimenti sepolcrali con argomenti all’apparenza molto sensati. Ha spiegato che l’avveniristico cimitero porterebbe nelle casse comunali 11 milioni di euro versati dall’impresa privata che vuole realizzarlo, soldi benedetti per garantire i servizi pubblici senza aumenti di tasse. Ha aggiunto che l’opera architettonica non avrebbe alcunché di macabro, trattandosi di un elegante palazzo in vetrocemento. Ha specificato che gli sembrano ben più deprimenti i condomini con vista sulle lapidi delle necropoli classiche. Ha garantito che la società Cieloinfinito non farà concorrenza all’Agec, l’azienda municipale preposta alle onoranze funebri, in quanto la potenziale platea dei clienti - per così dire - sarebbe formata da benestanti d’importazione, desiderosi di trascorrere l’eternità in tombe di famiglia aeree e per questo disposti a investire parecchi quattrini, obbligando gli addolorati eredi a percorrere centinaia di chilometri ogni settimana o, almeno, ogni 2 novembre. Insomma, ci troveremmo in presenza della trasposizione nella realtà dei film Weekend con il morto e Weekend con il morto 2.
Chiarito che il cimitero verticale si rivolge più ai foresti che ai veronesi, viene in parte a cadere la principale obiezione: a chi serve? Secondo quanto dichiarato da Paola Zanchetta, responsabile dei servizi demografici del Comune, è in vertiginoso aumento il numero dei concittadini - ormai uno su due - che scelgono la cremazione anziché la tradizionale tumulazione (e dunque non hanno bisogno di tombe, visto che il fuoco ridurrà di botto il loro peso a 1,5 chili). Comprensibile, in tempi di crisi economica. La concessione di una celletta nel cinerario costa appena 523 euro e dura per 50 anni; un loculo all’altezza degli occhi viene il 564 per cento in più (3.474 euro) e dopo soli 30 anni lo devi pure restituire. Ho avuto occasione d’intervistare un impresario di fuochi artificiali residente ad Arquà Polesine, il quale con modica spesa (1.500 euro) spara addirittura i resti liofilizzati del caro estinto nell’alto dei cieli, circonfusi da spettacolari aloni pirotecnici. Inoltre per un cofano destinato al forno crematorio non si spendono più di 500 euro, mentre una cassa da morto come dio comanda, magari in mogano o rovere, arriva a superare i 4.000.
A Verona muoiono mediamente circa 2.700 persone l’anno e gli spazi cimiteriali oggi disponibili sono più che sufficienti per 15 anni. Allora perché innalzare un mostro a sei braccia, con ben 2.676 cappelle, che occuperà quasi 7 ettari di superficie? A che servono 35 piani in grado di accogliere 23.908 salme? Penso con sgomento a come avrebbe reagito mia madre. Il suo testamento lasciato ai figli fu: «Metìme soto un pigno».
Stiamo parlando di una torre alta 100 metri, pressappoco quanto il Duomo di Milano, con sala del saluto (alias chiesa), sale del ricordo, alloggio per il cappellano, ascensori, aria condizionata, parcheggi interrati per 270 veicoli, aree commerciali, strade di accesso e addirittura un museo d’arte («ars longa, vita brevis», dicevano i latini). A Venezia hanno fermato il Palais Lumière dello stilista Pierre Cardin, che si prefiggeva di riqualificare l’area inquinata di Porto Marghera ospitandovi 15.000 vivi, figurarsi quale futuro possono avere i 24.000 morti in cerca di casa a Verona.
Resta misteriosa, dunque, la finalità imprenditoriale della Cieloinfinito Srl, con sede a Milano, soprattutto dopo che la giunta Pisapia ha bocciato l’idea del cimitero verticale, nonostante l’alto tasso di cumenda interessati alle tombe per moderni faraoni. E qui sono in grado di raccontare un gustoso retroscena. Un anno fa, il 26 settembre, ricevetti una mail da Pier Giulio Lanza, ideatore del progetto. Sosteneva di avermi conosciuto nel 1998 e che a presentarci era stato il padrino di mia figlia. Mi ringraziava per un servizio che avevo pubblicato sul Giornale in occasione della morte di suo padre Ugo, avvenuta nel luglio di quell’anno. Non ricordandomi né di lui né dell’articolo, andai a ripescare il ritaglio in archivio. Tutto vero: «Addio a Lanza, papà del rasoio usa e getta», riferiva il titolo.
Ugo Lanza era nato a Trieste nel 1918 e per qualche tempo aveva fatto il giornalista. Trasferitosi a Milano e laureatosi in ingegneria, nel primo dopoguerra entrò in società con un valdostano abitante a Parigi, il barone Marcello Bich. Insieme aprirono uno stabilimento, dal quale uscirono miliardi di biro Bic, dal cognome di László József Bíró, l’ungherese che inventò la penna a sfera. Ma dopo una trentina d’anni il sodalizio si ruppe. Accadde quando il colosso Gillette s’intrufolò nel loro business, acquisendo le aziende Paper Mate e Grinta, produttrici di pennarelli. Per reazione, Lanza servì la multinazionale di barba e capelli, brevettando il rasoio usa e getta Bic, che in sei mesi conquistò il 50 per cento del mercato mondiale, costringendo la Gillette a un’affannosa rimonta.
Pier Giulio Lanza dimostra di possedere la proteiforme intelligenza del padre. Laureato alla Bocconi, prima di dedicarsi al grattacielo dei morti fu, fra l’altro, amministratore delegato di Fiorucci, la casa di moda fondata dallo stilista deceduto nel luglio scorso. Bisognerà pertanto aggiornare la formula di rito nelle necrologie: non Fiorucci, ma opere di bene. A seguito della sua mail, intrattenni con lui una fitta serie di contatti epistolari e telefonici. M’interessava intervistare un imprenditore intenzionato a imprimere «una svolta decisiva in un servizio, quello cimiteriale, fermo a Napoleone Bonaparte», così mi aveva scritto. Però, trascorse due settimane, dovetti mandarlo a quel paese: non solo non c’era stato verso di farmi consegnare la documentazione che mi aveva più volte promesso, ma disdisse pure alle 9 di sera l’appuntamento che mi aveva fissato per l’indomani.
A quel punto, come cittadino, mi sentii in dovere di esternare le mie perplessità sul progetto Cieloinfinito a un’autorità civica. La laconica risposta fu: «Però hanno versato 100.000 euro di cauzione, quindi sarei ottimista». Questo mi conforta circa la fondatezza di uno degli esergo che ho scelto per il mio prossimo libro: «Il posto dove più fiorisce l’ottimismo è il manicomio» (Havelock Ellis, medico e psicologo britannico).
Sorprende che il sindaco Tosi, cui non fa certo difetto l’intelligenza, non abbia ancora compreso come la torre funeraria infranga l’ultimo dei tabù: l’uguaglianza finale che la Falciatrice garantisce da sempre nel pareggiare le spighe del campo (santo). È destino ineluttabile dell’umana gente quello di giacere in posizione orizzontale, non certo verticale, e la pretesa di modificarlo cozza contro un sentimento popolare talmente radicato da risultare del tutto insensata.
Consiglierei al primo cittadino di mettere da parte per un attimo la calcolatrice e di rileggersi la poesia ’A livella di Totò: «’A morte ’o ssaje ched’è? È una livella. / ’Nu rre, ’nu maggistrato, ’nu grand’ommo, / trasenno stu canciello ha fatt’o punto / c’ha perzo tutto, ’a vita e pure ’o nomme: / tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?». Traduco dal napoletano per l’ex leghista: «La morte lo sai cos’è? È una livella. / Un re, un magistrato, un grand’uomo / varcando questo cancello ha capito / di aver perso tutto, la vita e pure il nome: / tu ancora non te ne sei reso conto?».


LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).


LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.