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 2015  ottobre 24 Sabato calendario

APPUNTI SU NETFLIX PER IL FOGLIO ROSA


GIANMARIA TAMMARO, IL POST 23/10 –
Dovete immaginare Netflix come un enorme, collaudatissimo sistema di intrattenimento. Non è solo una piattaforma di streaming o una community di users come Youtube, o un produttore televisivo-cinematografico che ha soldi da spendere; è un gigante nell’industria dell’intrattenimento, uno che i suoi abbonati li coccola fin dall’inizio (vi siete già registrati? La prima cosa che vi viene chiesta è: “che cosa ti piace?” E da lì, viene stilata una lista delle vostre preferenze, con suggerimenti e varie categorie da tenere d’occhio). Fa in modo di entrare nella loro vita. È questo il segreto e la massima aspirazione di Netflix: essere come internet. Ovvero: una volta che l’avrete provato, non riuscirete (non dovrete riuscire, in teoria) più a farne a meno. La cosa incredibile è che questa visione non è solo degli altri addetti ai lavori (chi ci lavora, chi lo promuove, chi ne scrive), ma che è condivisa anche dagli attori e dagli autori che si dicono tutti, nessuna eccezione, contentissimi per aver potuto lavorare con Netflix. (Ieri ho incontrato parte del cast di Sense8, Orange is the new black, Daredevil, Jessica Jones e Marco Polo e dicevano tutti la stessa cosa: “Netflix. Figata. Evviva”).

È come un film, ma molto più lungo
Il punto è questo: girare una serie tv per Netflix è come girare un film. Non c’è pilot, non ci sono numeri, ascolti, spot da tenere in considerazione. Si fa tutto insieme, in un lunghissimo set. Alla fine dopo il montaggio, la postproduzione e la promozione, il prodotto viene messo online. E la palla passa, senza mezze misure, al pubblico: se una cosa funzionerà, funzionerà solo grazie ai click, le views e il – sì, anche in questo caso – passaparola. Parlando con gli attori, gli autori e gli showrunner si capisce una cosa; si capisce che lavorare con Netflix è bello perché a) ti lasciano tutto lo spazio che vuoi, b) tutti vedono la stessa cosa nello stesso momento, in tutto il mondo e c) c’è continuità nel prodotto (non devi pensarlo a scaglioni, come per i grandi network, sempre pronti ad andare in pubblicità).

Che cosa significa l’arrivo di Netflix per il mercato italiano?
Fondamentalmente non cambia niente. O meglio: cambia qualcosa nell’ottica, molto più vasta e molto più lontana da quella dello spettatore medio, dei produttori. C’è un nuovo competitor con cui fare i conti. Qualcuno che gioca a fare il modesto ma che volendo può metterti KO con un gancio (ieri, al lancio di Netflix a Milano si respirava quest’aria: tutti gentili, tutti disponibili, molti americani. Ma una professionalità assoluta, sacra, imprescindibile). C’è ancora Sky, ricordiamocelo. Con un palinsesto che, a oggi, regge benissimo – hanno molti prodotti originali in arrivo, come The Young Pope di Paolo Sorrentino, e la seconda stagione di Gomorra, e ZeroZeroZero, e serie tv della HBO pronte a essere distribuite (Vinyl di Scorsese e Jagger su tutte). E senza considerare che House of Cards, il prodotto di punta della scuderia Netflix, va in onda proprio sul canale di Murdoch. Per la RAI, invece, le cose si fanno decisamente più interessanti. Perché in Netflix potrebbe trovare non solo un rivale, ma anche un alleato. Suburra, per esempio, la prima serie di Netflix in Italia, vede la partecipazione proprio della televisione pubblica italiana (cosa già successa, tra l’altro, per il film). Quindi vedetela così: Netflix in Italia è una ventata di aria fresca, di idee e soprattutto – non me ne vogliano i puristi dello streaming – di soldi.

Abbonarsi o non abbonarsi: è questo il dilemma
No, non lo è. Il primo mese su Netflix è gratis – controllate pure, io vi aspetto qui. L’archivio offerto, è vero, è ancora “povero” (non può competere minimamente con l’offerta di Netflix America); ma ci sono alcune serie, come Peaky Blinders, inedite. E che sinceramente vi consiglio di andare a recuperare. In più, facendo due calcoli, per 9,99 euro (o 7,99 euro o 10,99 euro) avete così tante ore di serie, film e documentari da vedere che abbonarsi il primo mese (non questo, il prossimo; questo, ve lo ripeto, è gratis) è una scelta quasi obbligatoria: è quasi il costo del biglietto del cinema. Con la differenza enorme però che potrete vedere centinaia di titoli.
Quindi sì, almeno per i primi due mesi, conviene abbonarsi. Ma questo non significa che dobbiate dire addio alla pay tv: per quanto riguarda un’offerta sul breve termine, Netflix è perfetto; sul lungo termine, invece, per adesso, non ci sono ancora molte novità. Qui parliamo di numeri e di convenienza, e un po’ di sano cinismo da spettatore: c’è qualcosa di bello da vedere? Sì. Mi costa molto? No.

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IL POST 22/10 –
A partire da oggi Netflix, il famoso servizio per vedere in streaming on demand serie tv e film, è attivo anche in Italia. Netflix è considerato il più diffuso servizio di “internet tv” al mondo: è nato nel 1997, quando offriva un servizio di noleggio di DVD e videogiochi, ma dal 2008 si è progressivamente trasformato nel servizio di streaming online che è oggi. Ha 65 milioni di abbonati in più di 50 paesi del mondo e da alcuni anni produce per conto proprio serie televisive e documentari di grande successo. Netflix ha anche aperto due account in italiano, su Twitter e su Facebook, per promuovere i propri servizi.

Netflix permette di registrarsi con quattro profili utente, e si può segnalare se uno o più di questi sono di bambini, in modo da filtrare i contenuti disponibili. Appena registrati, Netflix chiede di scegliere tre titoli da un elenco di vari film e serie tv: in questo modo può capire le preferenze del singolo profilo utente e proporre contenuti che possano essere più affini ai suoi gusti. La stessa operazione è richiesta anche per gli altri tre profili utente.
Il prezzo

Ci sono tre piani di abbonamenti: uno “Base” che permette di usare il servizio su un dispositivo per volta a definizione normale, e costa 7,99 euro al mese; uno “Standard” che permette di aprire due streaming contemporaneamente – quindi può essere usato da due persone della stessa famiglia ad esempio – e in alta definizione, e costa 9,99 euro al mese; uno “Premium”, che permette di aprire quattro sessioni di streaming contemporaneamente e in formato Ultra HD 4K, che costa 11,99 euro. Il primo mese è gratis.
Come usare Netflix

Si può accedere a Netflix grazie alle app installate su moltissime Smart TV e set-top box collegati a Internet, ma anche da Apple Tv, da Chromecast e dalle console per videogiochi; e poi da tablet, dal browser del computer e dalle app per smartphone. L’abbonamento a Netflix non è collegato a un abbonamento a un provider di internet: basta avere una qualsiasi connessione internet per iscriversi. Vodafone proporrà promozioni che includeranno abbonamenti a Netflix insieme alle connessioni in fibra ottica o 4G. Per i clienti TIM, invece, Netflix è accessibile attraverso Tim Vision, la tv on demand di Telecom Italia.

Il catalogo

Il catalogo di Netflix è diverso paese per paese, sulla base degli accordi che la società stringe con le società di produzione e distribuzione dei film e delle serie tv: i dirigenti di Netflix dicono che il catalogo italiano sarà composto per un 80 per cento da titoli internazionali e per un 20 per cento da titoli italiani definiti “di respiro internazionale”. Il catalogo crescerà col passare dei mesi anche sulla base delle preferenze degli abbonati: i dirigenti di Netflix dicono che le sue dimensioni raddoppieranno entro il primo anno di disponibilità del servizio. In generale, Netflix non è un servizio che fornisce gli episodi delle serie tv in tempo reale e i film appena usciti al cinema, chi ha simili aspettative resterà deluso: Netflix è famoso per i suoi contenuti originali e il suo archivio ricco e profondo.

Tra i titoli statunitensi ci sono le più recenti produzioni originali di Netflix, come Daredevil, Bloodline, Sense8, Marco Polo e Narcos: le nuove stagioni di queste serie saranno diffuse su Netflix Italia contemporaneamente col resto del mondo. Le serie di Netflix che oggi sono trasmesse da Sky e Mediaset (come House of Cards) continueranno a essere trasmesse solamente su questi network, a meno che non decidano di rinunciare: e gli accordi in vigore permettono loro, qualora lo volessero, di trasmettere tutti gli episodi in una volta, uno dopo l’altro. Orange is the New Black invece, che in Italia è stato già trasmesso da Mediaset, fa parte del catalogo di Netflix Italia.

Tutti i contenuti sono disponibili in lingua originale, con audio e sottotitoli in altre lingue tra cui l’italiano; e sono disponibili anche in qualità 4K, per quelli che hanno una televisione e una connessione Internet che ne permettono la fruizione. Riguardo le lentezze delle connessioni Internet italiane fuori dalle grandi città, quelli di Netflix dicono che chiunque riesce a vedere un video di YouTube in alta definizione può vedere i film su Netflix, e che comunque l’azienda fornisce un mese di prova gratuito durante il quale provare il servizio. Nei mesi precedenti al lancio Netflix fornisce ai provider l’intero catalogo, così che possano immagazzinarlo nei loro server e rendere più fluido e meno oneroso per la banda lo streaming dei file.
Netflix in Italia, prima

C’erano comunque già molti utenti in Italia che usano Netflix in un modo un po’ abusivo: Francesco Costa, giornalista del Post, aveva raccontato la sua esperienza come utente di Netflix spiegando come si può accedere al sito anche se si vive in un paese dove ancora non è disponibile:

Basta invitare a casa un amico smanettone e creare una VPN per convincere Netflix che non vi state collegando da Quarto Oggiaro – come tutti i milanesi su Internet, mi sembra di capire – bensì dagli Stati Uniti. È illegale? Non lo so. Usare una rete VPN è legale. L’app di Netflix era già installata sul Media Player che ho comprato da Mediaworld. Il costo dell’abbonamento mi viene regolarmente addebitato ogni mese sulla carta di credito, e quindi si capisce perché per Netflix quello degli utenti abusivi – centinaia di migliaia in tutto il mondo, sembra – sia forse più un’opportunità che un problema.

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RENATO FRANCO, CORRIERE DELLA SERA 23/10 –
«L’avvento della tv via Internet è la più grande rivoluzione, come non si vedeva dai tempi dell’arrivo del colore». I toni di Reed Hastings – co-fondatore e ceo di Netflix – sono quelli del guru. Forte del suo look (jeans e giacca sportiva) e dei suoi numeri (69 milioni di abbonati in oltre 50 Paesi).
Da ieri è disponibile anche in Italia Netflix, la più grande rete di Internet tv al mondo, ovvero serie, film e documentari da vedere in streaming a partire da 7,99 euro al mese. Piacciono le previsioni a Hastings: «Un giorno quelli che oggi pensiamo come canali saranno delle app e i nostri figli ci chiederanno: “Ma cosa vuol dire che uno show inizia alle 20?”». Si sbilancia sui numeri in modo naïf: «Nel primo anno ci dobbiamo concentrare sulla felicità dell’impresa e non sulle dimensioni, ma alla lunga vogliamo avere molto successo anche in Italia. Il nostro obiettivo è di raggiungere una famiglia su tre. In America per farlo ci abbiamo messo 7 anni, dal 2007 al 2014 e ci stiamo riuscendo anche in altri Paesi europei». I nuclei familiari in Italia sono 16 milioni, quindi il traguardo – per deduzione – è di oltre cinque. Ambizioso, pare.
Quanto ai contenuti, le serie tv promettono molto. I titoli? Narcos che racconta la lotta al narcotraffico negli anni 80; la fantascientifica Sense8 dei fratelli Wachowski (quelli di Matrix ) con Daryl Hannah e altre 7 persone legate in modo misterioso tra di loro; Grace and Frankie con Jane Fonda e Lily Tomlin che diventano amiche quando i loro mariti fanno coming out e ammettono di amarsi; Daredevil, sull’eroe dei fumetti. E poi Marco Polo, produzione internazionale che parla molto italiano con il protagonista interpretato dal 25enne Lorenzo Richelmy.
Se il progetto è ambizioso, il panorama per lo spettatore è sempre più frammentato. Perché il servizio di video streaming è già effettuato in Italia da altri operatori sul mercato. Sky Online è la costola Web della tv a pagamento e offre tre diversi pacchetti di abbonamento mensile, il più basso a 9,99 euro con la possibilità di visione anche lineare dei canali (ovvero nell’istante della messa in onda). Il dato degli abbonati non è disaggregato, ma incluso in quello della pay tv che nell’ultima rilevazione erano quasi 4 milioni e 700mila. Infinity è il servizio di video streaming di Mediaset e dà l’opportunità di visione anche offline: qui si parla di 500mila utenti che pagano 6,99 euro al mese. Con TimVision si abbassa la cifra di abbonamento (5 euro) e anche il numero di clienti: ad oggi sono oltre 400mila ma Telecom stima di raggiungerne a fine anno circa 550mila. Funziona Invece in modo diverso Chili: nessun abbonamento, ma solo pay per view, ossia paghi quello che vuoi noleggiare o comprare (film e serie tv). A completare e complicare il quadro c’è anche Premium Online, l’offerta – sempre di Mediaset – per chi sceglie la connessione Internet per guardare la pay tv di Cologno Monzese, senza il bisogno di tessera o decoder: si parte da 9 euro per arrivare a 40 e l’abbonamento è annuale.
Lo streaming come nuova frontiera: pochi giorni fa anche Disney ha deciso di provarci. Con una strana inversione di ruoli: mentre Netflix è nata come servizio streaming e poi ha allargato il suo business anche alla produzione di contenuti, Disney ha fatto l’esatto contrario.

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ANDREA BIONDI, IL SOLE 24 ORE 23/10 –
Reed Hastings, cofondatore e ceo di Netflix non ha dubbi: arriverà presto il giorno in cui «i nostri figli ci chiederanno cosa vuol dire che uno spettacolo inizia alle 20». Sarà anche per questo che, parlando davanti ai giornalisti, Hastings mira un bersaglio non indifferente: «Puntiamo a raggiungere una famiglia su tre». Non in un anno, anche perché nel primo anno «dobbiamo concentrarci sulla felicità dei clienti più che sulle dimensioni della platea. Poi il passaparola farà il resto». E allora, far abbonare un terzo dei 24 milioni di famiglie italiane potrebbe diventare realtà (almeno nelle intenzioni del colosso californiano), nei tempi in cui ciò è avvenuto «in America. Lì per farlo ci abbiamo messo 7 anni dal 2007 al 2014».
L’annnciato giorno X di Netflix in Italia è arrivato. Il gigante da quasi 5 miliardi di dollari di ricavi nei primi nove mesi del 2015, con 69,2 milioni di abbonati e 79,5 milioni di dollari di utile netto, sempre nel consolidato gennaio-settembre 2015, è operativo nel Belpaese dalla mezzanotte fra il 21 e il 22 ottobre. È quindi possibile abbonarsi e scoprire, anche grazie a un mese di visione gratuita, quella che secondo i vertici di Netflix in versione guru – oltre ad Hastings era presente anche Ted Sarandos, Chief content officer di Netflix – sarà la modalità di fruizione dei contenuti video destinata a mandare in soffitta la tv lineare. «Ci sarà una crescita della tv via internet e un calo di quella lineare, così come è successo nella telefonia con il mobile e il fisso», ha detto Hastings. «Le persone che sperimentano il controllo» sul proprio “palinsesto” «non torneranno indietro. E succederà per utenti di tutte le età», ha aggiunto Sarandos.
Di certo, da ieri in Italia il mercato televisivo conta su un player di peso, che promette di rivoluzionare la tv, e il cui core business sta nell’on demand. Servizio con abbonamento (Svod) a 7,99 euro al mese per guardare - dopo un mese di prova gratuita - film, ma soprattutto serie tv attraverso tutti i dispositivi connessi a internet: dalle smart tv (in Italia secondo stime di mercato sono 2,8 milioni quelle connesse) alle console, agli smartphone, ai tablet. La forza riconosciuta di Netflix sta nelle produzioni originali: serie tv come Orange is the new black (tornato disponibile dopo l’accordo con Mediaset che ne deteneva i diritti esclusivi); Marvel-Daredevil; Narcos (mai trasmessa in Italia), ma anche documentari e il primo film originale Netflix Beasts of No Nation. Un altro cavallo di battaglia, House of Cards, è rimasto invece nelle esclusive disponibilità di Sky che non ha voluto condividere i diritti acquisiti in precedenza. «Abbiamo 21 serie in produzione pronte per la release – ha spiegato Sarandos – mentre nel 2016 ne produrremo 30 e 30 per bambini». Nel 2017 sarà la volta di Suburra, come da accordi con Rai e Cattleya. Il catalogo di film lascia più a desiderare. Ma, anche a seguito del successo di Beasts of No Nation, acclamato all’ultimo Festival di Venezia il panorama potrebbe cambiare.
A questo punto occorrerà valutare le ripercussioni sul futuro nel contesto italiano. Nonostante tutto, qui il mercato della tv ha tenuto in questi anni in termini di attrattività, visto che dai 9,2 milioni di spettatori medi del 2005 si è passati ai 10,2 milioni del 2015. Certo è che Netflix – che in Usa fa margini a gogo, ma fuori dagli Stati Uniti ovviamente sconta lo sforzo nell’espansione internazionale come dimostra il margine negativo per 67,7 milioni di dollari nel trimestre luglio-settembre con l’attività “international” – in Italia dovrà guardarsi dai competitor. Sono già operativi e stanno affilando le armi Skyonline (che ieri ha annunciato l’avvio del mese di prova gratuito per il pacchetto “Intrattenimento”, proprio come Netflix), Infinity di Mediaset (che rispetto a Netflix ha anche la funzione download&go) e Timvision che operano proprio nello Svod (on demand con sottoscrizione mensile), con Chili Tv e iTunes nel Tvod (si paga per ogni visione come con l’home video) e Google Play e Amazon che sono lì. Il mercato nel 2015 vale 53 milioni di euro e dovrebbe raddoppiare nel 2016 per salire oltre i 250 milioni nel 2018 secondo le ultime stime disponibili. «In Usa siamo cresciuti, ma è cresciuta anche Hbo», ha detto Hastings. Si vedrà.
Intanto Netflix ha gia stretto partnership con Telecom (sarà possibile vederlo tramite set-top-box Timision e addebito in bolletta) e Vodafone (in arrivo bundle sul 4G e fibra e addebito in bolletta o su credito telefonico per le ricaricabili). Hastings sul punto però non ha dato grande soddisfazione: «Siamo aperti alle partnership con tutti i provider, ma in alcuni Paesi non abbiamo accordi. Che comunque sappiamo essere positivi in termini di co-marketing».
Andrea Biondi

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LA STAMPA 23/10 –
Cos’è. Un servizio di streaming di film e programmi tv: non si scaricano ma si vedono collegandosi a internet.
Dove vedere Netflix. Su pc, in un browser qualsiasi, su tablet e smartphone di ogni piattaforma con l’app dedicata. Molti televisori smart recenti hanno già l’app installata o permettono di scaricarla, e in questo caso non c’è bisogno di altri apparecchi. Oppure si possono usare Xbox One, Playstation 4, Nintendo Wii U. Perfetto anche apparecchi come il Chromecast di Google o l’Apple Tv e TimVision.
La connessione. A casa serve una linea Adsl che garantisca almeno 1,5 Mbps. Per smartphone e tablet è consigliato il 4G ma anche il 3G va bene. La qualità dell’immagine si adatta automaticamente alla velocità della rete.
I prezzi. Il primo mese è gratis, senza limitazioni. Poi si può scegliere tra abbonamento base (7,99 euro), per un solo dispositivo e in qualità Hd; abbonamento standard (9,99 euro) per due dispositivi e in full Hd; abbinamento Premium per quattro dispositivi in qualità 4K, a patto di avere una rete veloce.
Come si paga. Con carta di credito o Paypal. Con Vodafone si può scalare l’importo dal credito telefonico, oppure pagarlo insieme alla bolletta (opzione possibile anche con Tim). L’abbonamento si può interrompere in qualsiasi momento, con un solo clic.
Come trovo quello che cerco? Basta digitare la serie, il regista o l’autore. Netflix impara i gusti e segnala altri contenuti che potrebbero interessare. C’è pure una sezione per bambini. Le serie sono sia in lingua originale sia doppiate.
Come faccio a riprendere un film dal punto in cui l’avevo interrotto? Ogni volta che si accede con l’app o via browser film e programmi tv sono disponibili da dove erano stati interrotti, automaticamente.
La Stampa 23/10/2015

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ANTONIO DIPOLLINA, LA REPUBBLICA 23/9 –
A questa ipotesi della rivoluzione televisiva loro non tengono affatto. Sono quelli di Netflix, colosso mondiale della tv via Internet. Stanno per sbarcare in Italia, data imprecisata ma nella seconda metà di ottobre dovremmo esserci. I big dell’azienda arrivano ogni tanto da noi, incontrano la stampa, ragguagliano, spiegano, fanno il punto. E da ieri, per esempio, hanno speso un concetto preciso: “I nostri veri avversari siamo noi stessi nella capacità di convincere il pubblico “, e soprattutto “siamo complementari alle altre pay-tv": aggiungendo che tutti loro dedicano soltanto l’1 per cento del tempo a valutare quel che fa la concorrenza (qui Sky e Mediaset Premium, che offrono da tempo servizi simili). Dietro, in un angolo, c’è il poster della campagna pubblicitaria italiana e dice “Tesoro, sono a casa”. Un’ode alla stabilità della famiglia visto che chiunque, se ha Netflix, rimane a guardare tranquillo la tv senza uscire in missioni a rischio. Forse.
L’approccio, insomma, sta diventando via via più prudente, e forse più razionale, rispetto a certe premesse che volevano milioni e milioni di italiani pronti da domani a buttare all’aria vecchia tv, vecchia pay-tv e tutto quello che veniva a tiro. Complementari: forse così ha un senso, sicuramente si capisce di più. Netflix è un catalogo, il catalogo è questo.
TELESPETTATORI A VITA
Niente live, niente news, niente sport, niente talk-show. Il resto c’è tutto (e detta così c’è quasi da correre ad abbonarsi). Netflix è la produttrice di serie gioiello come House Of Cards, oppure Orange is The New Black, ma in una fase acerba del cammino e quindi sono state vendute alle pay-tv sul campo. Ma vengono promesse serie prodotte in proprio e solo su Netflix in tempi brevi (Narcos è un esempio), nulla si sa di produzioni italiane vere e proprie che si mettano magari a fare concorrenza a prodotti come Gomorra (all’ipotesi, circolata nei mesi scorsi, di una cosa su Mafia Capitale i manager replicano: “Non sappiamo proprio cosa sia"): quindi c’è soprattutto il catalogo. Sterminato, di film, serie tv anglosassoni, cartoni animati di lusso, documentari al top della produzione mondiale.
Vuoi chiuderti due giorni in casa e guardare venti episodi di Breaking Bad? Con loro è possibile ma soprattutto più semplice che con chiunque altro. Agli incontri-stampa troneggia sul muro un tv gigante di ultimissima generazione, dentro c’è la schermata principale con l’offerta in sintesi e riquadri sgargianti e sembra francamente il paradiso. A patto di passare il resto della propria vita a fare il telespettatore. Ma ci sono anche vie di mezzo, nella vita medesima.
FACILE COME YOUTUBE
Serve internet, un discreto, preferibilmente buono, meglio se buonissimo, collegamento in casa. Anche qui, toni rassicuranti dai manager: “Se vedete YouTube sul computer, allora vedrete anche Netflix”.
In teoria un wifi all’altezza migliora le cose, anche se la ditta è provvista di un marchingegno detto “streaming adattativo": ovvero il segnale si adegua alla banda di wifi che hai e fornisce il miglior livello video per le tue possibilità. Poi serve una tv, le Smart Tv sono fatte apposta, oppure con un cavo vi colleghi il computer. O sul computer. O ancora via Chromecast, chiavetta evoluta che riceve il segnale una volta innestata nel tv. O ancora le console dei giochi, il lettore Blu-Ray, l’Apple Tv o anche lo smartphone. E chissà che altro, in teoria è escluso dal servizio solo chi accende la tv col bottone, ha perso il telecomando da anni tra i cuscini del divano e non lo trova più.
IL PRIMO MESE GRATIS
Più che il quanto, vale il come. Ed è quello che differenzia Netflix dagli analoghi servizi – Sky Go, Infinity, Sky On Line – della concorrenza. Chi usa Spotify o servizi simili per la musica sa già come funziona.
Nessun abbonamento permanente, ci si attiva via Internet (un mese gratis di prova) e poi via con tre modalità di abbonamento che sembrano confermate: a 7,99 euro per il servizio in qualità standard e su un solo dispositivo, 8,99 euro per il servizio in full hd e su due dispositivi, 11,99 euro per l’altissima qualità 4K – qualunque cosa sia – e su quattro tv, o altro, diverse. Ci si dis-abbona quando si vuole, in tempo reale.
Ma attenzione, Telecom e da ieri c’è anche l’annuncio di Vodafone ("abbonamenti offerti con i piani 4G e Fibra") offriranno Netflix con offerte promozionali e probabilmente con qualche sconto importante. Ogni abbonamento potrà avere cinque adesioni differenti – ovvero per i vari membri della famiglia, per esempio – e personalizzati in base ai gusti: i capi del servizio spiegano che da loro lavorano soprattutto centinaia di ingegneri alle prese con gli algoritmi che suggeriscono titoli e spunti in base ai gusti che hai dimostrato di avere nei primi giorni di abbonamento.
LA SPECIFICITÀ ITALIANA
Quelli di Netflix sono colossi veri a livello mondiale, hanno esportato la streaming tv in parecchi Paesi ma il centro delle operazioni è assai americano.
L’impressione per ora è che si aggirino come marziani in una terra sconosciuta e di fronte alle obiezioni sul Paese televisivo italiano (che negli anni è diventato una sorta di installazione ideata da un folle) ribattono tranquilli: che problema c’è? Per esempio, su certi proclami del tipo “la tv generalista è morta e sparirà in pochi anni” c’è da andarci molto cauti: in questa fase da noi sta succedendo esattamente il contrario, le pay-tv si sono molto appassionate ai canali in chiaro, ne hanno comprati, vi stanno riversando parecchia produzione prima a pagamento: e soprattutto da anni non scuciono un dato sugli abbonati paganti mentre ogni giorno vantano gli ascolti dei programmi-top, ovvero il contrario della mission pay-tv.
Magari per Netflix tutto questo è un bene, ma la specificità italiana in campo televisivo – e comunque la robusta concorrenza a base di SkyGo e Infinity che esiste già sul campo – sarà complicata da domare.
Per tacere poi dell’ipotesi vagheggiata di ulteriori arrivi di servizi simili in futuro, da Amazon a Apple, immaginando il pigro telespettatore italiano pronto a scucire dieci euro al mese a chiunque prometta meraviglie.
Fantascienza, meglio andarci piano e intanto parte Netflix. Puntando quindi sull’ipotesi che il famoso slogan “siamo complementari” risulti alla fine convincente e convinca soprattutto il pubblico pagante.
Antonio Dipollina, la Repubblica 23/9/2015

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VIVIANA DEVOTO, IL OTTOBRE 2015 – 
La periferia di Los Gatos è uno stradone in mezzo alle montagne a un’ora di distanza da San Francisco: complessi di grandi uffici in affitto, pendolari in coda all’ora di punta, centri commerciali. Il cuore tech di Netflix è nato qui, davanti a un ristorante italoamericano (Aldo’s) e ai binari del treno che ogni giorno congiungono in un solo punto impiegati e ingegneri da tutta la Bay Area; un colosso partito in California in grado di tessere insieme internet, tv e l’amore pigro degli americani per il cinema in salotto: 42 milioni di iscritti negli Stati Uniti – 60 milioni su scala mondiale – e un’espansione che punta al resto del globo offrendo film e serie tv a un prezzo inferiore a quello di un biglietto per un multisala.
Ora l’America di Netflix arriva in Italia, portando anche da noi, da ottobre, la rivoluzione dello streaming con contenuti sempre disponibili e produzioni originali. La compagnia che ha prodotto House of Cards e Orange Is the New Black sarà, curiosamente, orfana dei suoi cavalli di battaglia (i diritti sono stati venduti anzitempo rispettivamente a Sky e a Mediaset Premium) ma, nell’offerta, Netflix non teme rivali: tre pacchetti di abbonamenti che partono da 7,99 euro al mese, con i primi trenta giorni di prova gratuiti. È la tv on demand: nessun canale, nessuna pubblicità, nessun costo extra né troppe burocrazie per chiudere l’abbonamento; basterà un clic. Come in Italia già fa Sky Online.
Dopo l’espansione in Canada, in Gran Bretagna e nei Paesi scandinavi, l’azienda ha puntato al resto d’Europa. Netflix ha aspettato, con cautela, prima di sbarcare in Italia. Ha studiato i comportamenti, ha cercato di capire come noi guardiamo la tv. Spagna, Francia e Portogallo si uniscono al lancio della compagnia in Italia insieme alla gigantesca operazione in Giappone. «Puntiamo a un servizio che offra contenuti mai visti e in un modo che è del tutto sconosciuto ai vostri telespettatori», dice a IL Joris Evers, vicepresidente dell’azienda e direttore dell’area comunicazione. Evers ha iniziato la sua avventura a Los Gatos tre anni fa; ora si occupa dell’espansione del progetto europeo da Amsterdam, dove è nato un mini quartier generale con vista sul canale di Keizersgracht per le operazioni nel nostro continente. «Ci siamo adeguati al mercato italiano, alle sue modalità di fruizione: abbiamo assunto del personale per i contenuti che non erano doppiati e abbiamo lavorato per rendere disponibili tutti i film coi sottotitoli», racconta, durante una chiacchierata su Skype.
Netflix si adatta a qualunque schermo sia collegato a internet; ha un uso intuitivo, semplice, molto adatto a chi maneggia abitualmente gli smartphone; piacerà alle famiglie, piacerà ai bambini, libererà tutti dall’obbligo di attenersi a un orario di programmazione per accedere ai contenuti preferiti. «Il film si è bloccato all’improvviso: c’è qualcuno che può intervenire?». Alle undici di sera, capitasse l’imprevisto, l’assistenza clienti Netflix vi propone due soluzioni: la chat con un operatore, o una telefonata diretta (basta inserire il proprio numero appena si contatta, via internet, l’area assistenza). Il sito manda avanti un cronometro automatico che stabilisce i tempi di attesa. Carlos risponde dopo qualche minuto risolvendo il problema e guidando l’abbonato passo passo: «Per curiosità, che cosa stava guardando? Consiglio la serie Daredevil, se ancora non l’ha vista». Il customer service di Netflix è uno dei servizi su cui l’azienda punta maggiormente, e sarà l’occasione – per gli europei – di vivere l’esperienza di un “vero” ufficio assistenza costruito con criteri americani. Personale estremamente cortese, 24 ore su 24: «Nessun costo per il cliente», spiega Evers – che anzi si mostra sorpreso su alcuni servizi italiani a pagamento. Il quartier generale dell’assistenza sarà a Lisbona: «Avremo personale che risponderà in italiano, ovviamente. Il customer service è una delle aree di cui andiamo più fieri».
A Netflix piace vivere nel progresso. All’esterno e all’interno della compagnia. All’inizio di agosto, ha annunciato un piano che prevede un periodo di congedo illimitato per madri e padri dell’azienda durante il primo anno di vita del bambino. «Vogliamo che i dipendenti vivano il proprio posto di lavoro con sicurezza e flessibilità. Chi cerca di bilanciare i bisogni di una famiglia che si allarga non dovrebbe preoccuparsi del lavoro o delle finanze. I genitori possono ritornare in ufficio part-time, full-time o rientrare direttamente quando si sentono pronti», ha sentenziato Tawni Cranz, chief talent a Los Gatos, a capo del dipartimento che si occupa di mettere insieme gli impiegati più capaci e creare team ad alta produttività. È una filosofia che in questa azienda ha un nome, e una sigla: F&R, freedom and responsibility. Liberi e responsabili. «Il nostro modello punta ad aumentare la libertà degli impiegati anziché ridurla: è una strategia che permette all’azienda di attrarre persone innovative e mantenere il successo. A Netflix», dice Evers, che ha un secondo bambino in arrivo «trattiamo i dipendenti da “adulti”. La libertà fa parte della cultura della compagnia. Il fatto che chi lavora con noi abbia la possibilità di prendere un anno di congedo è un gran gesto».
Responsabilità, allora. E trasparenza. Gli assetti e i bilanci finanziari della compagnia guidata da Reed Hastings sono online e a disposizione dei dipendenti e del pubblico. Un fatturato di oltre cinque miliardi di dollari, 2.500 dipendenti, e l’ambizione di riassumere in sé le identità di canale streaming e di polo produttivo, con un’offerta che si aggira intorno ai cento milioni di ore di contenuti. Per il lancio italiano, la “nuova tv” punta sulle proprie serie: Marco Polo, con i volti “di casa” di Pierfrancesco Favino e Lorenzo Richelmy, ma anche l’anteprima di Narcos, con Wagner Moura, Pedro Pascal (Game of Thrones) e Boyd Holbrook (Gone Girl), che racconta i due volti della guerra della droga tra Colombia e Usa negli anni Ottanta, fino ad arrivare a Sense8 dei fratelli Wachowski e a Bloodline, dramma in 14 episodi ambientato nelle isole Keys. Ci saranno documentari come Virunga (prodotto dalla casa di produzione di DiCaprio) e Chef’s Table (con una puntata dedicata a Massimo Bottura); What Happened, Miss Simone? sulla cantante Nina Simone e Under the Influence sul chitarrista Keith Richards. O lungometraggi come la commedia The Ridiculous Six con Adam Sandler. Il resto dell’offerta sarà costituito da molte serie e film che in Italia non sono mai arrivati per vie ufficiali. Saranno compresi contenuti inediti per bambini – tra cui un’Ape Maia moderna e la serie originale di animazione Dinotrux della Dreamworks (il sistema Netflix punta molto alle famiglie e prevede, anche, un profilo specifico e “protetto” per i bambini-spettatori), magari consigliati dall’azienda stessa (Netflix prova a indovinare “che cosa potrebbe piacere” al cliente, con una lista di titoli associata a quello che un utente ha visto fino a quel momento).

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SILVIA FUMAROLA, LA REPUBBLICA 23/10 –
LA FORMULA magica è “click & watch”, perché l’era degli appuntamenti televisivi, degli orari da rispettare, è destinata a scomparire, resterà nei ricordi degli spettatori adulti. Netflix, la più grande rete di Internet tv del mondo, da ieri è disponibile in Italia. Tv su misura, come e quando vuoi. Presto per dire se sarà l’anno zero del piccolo schermo, ma certo è una rivoluzione che potrebbe cambiare anche da noi il panorama televisivo: la sfida alla vecchia tv generalista e a Sky è partita.
Oltre 69 milioni di abbonati in oltre 50 Paesi, che ogni giorno guardano più di 100 milioni di ore di programmi e film, serie e documentari. Lancio in grande stile a Milano, con il guru Reed Hastings, co-fondatore e CEO di Netflix (filosofia di fondo: «prima portare la felicità poi pensare al successo») e Ted Sarandos, responsabile dei contenuti, festa al Palaghiaccio con red carpet e sfilata di star, da Daryl Hannah a Will Arnett a Taylor Schilling a Krysten Ritter, da Steven Deknight a Pierfrancesco Favino, nel cast di
Marco Polo che scherza con gli altri attori di Suburra (il film diventerà una serie per Netflix).
I tempi per la tv on demand sono maturi. La funzione è in streaming, bisogna avere un televisore o un device (tablet, computer, smartphone, console video game, Apple Tv o Chromecast) connessi a Internet. Si parte da 7,99 euro al mese. Si paga con carta di credito, ma anche con PayPal, e per la disdetta non è necessario inviare raccomandate con ricevute di ritorno, scaricare moduli, chiamare il servizio clienti: basta andare sul sito, cliccare su un pulsante e sei fuori. Chi l’ha già sperimentato sa che è difficile resistere alla tentazione di vedere tutti insieme gli episodi della serie preferita, anche il rito dell’attesa diventa un ricordo. «Le persone vogliono il controllo su quello che vedono e una volta che lo sperimentano non vogliono più tornare indietro», dice Sarandos. «In Italia ci sarà rapidamente un nuovo pubblico aperto a nuovi format. Vogliamo creare programmi che soddisfino tutti i gusti, puntiamo sulla diversità, abbiamo 21 serie originali in produzione, l’anno prossimo ne avremo 30, e altrettante ne realizzeremo per i bambini ». Per stare al passo col pubblico che consuma in fretta le serie, aumenterà la produzione. «L’obiettivo è esplorare mondi mai esplorati prima e solo Internet ci dà questa possibilità », continua, «ora ci sono più risorse per i creativi, c’è una bella lotta tra noi e altri produttori di contenuti, è un ottimo stimolo: si crea una concorrenza positiva e di qualità».
Non è un caso se le serie cult degli ultimi anni sono nate per Netflix, da House of cards ( che però in Italia è trasmesso da Sky) a Narcos . Per conquistare il pubblico italiano ecco il kolossal Marco Polo con il giovane Lorenzo Richelmy nei panni dell’eroe del Milione , e Pierfrancesco Favino, il padre. Tra le migliaia di ore di intrattenimento disponibili, le stagioni complete di serie come Suits , Penny dreadful , Pretty little liars , Orphan black ; la fantascientifica Sense8 di Lana e Andy Wachowski con Daryl Hannah, Orange is the new black .
E poi Grace and Frankie con Jane Fonda e Lily Tomlin che diventano amiche quando i loro mariti fanno coming out e ammettono di amarsi, Unbreakable Kimmy Schmidt su una giovane
che comincia una nuova vita a New York dopo essere stata salvata da una setta apocalittica in Indiana. Dal 20 novembre arriverà anche Marvel - Jessica Jones , seconda di quattro serie dedicate agli eroi Marvel. E poi film come Molto incinta , Mission Impossible III .
Per i bambini programmi su misura: Lego Ninjago , Winx Club e How to Train Your Dragon.

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BRUNO RUFFILLI, LA STAMPA 23/10 –
Il presidente e cofondatore di Netflix è un ex marine che poi è entrato nei Peace Corps, ha insegnato matematica nello Swaziland e si è laureato in Informatica all’università di Stanford. Reed Hastings ha 55 anni ed è in gran forma: «È una giornata fantastica – dice –. Abbiamo lavorato duro e finalmente siamo partiti, vedo che le reazioni su Twitter sono entusiastiche». La più grande tv via Internet al mondo, con oltre 69 milioni di abbonati, è disponibile da ieri anche in Italia.
In Usa Netflix è attiva dal 2007, come mai ci avete messo tanto?
«Da voi costa molto comprare i contenuti perché la lotta tra Mediaset e Sky tiene alti i prezzi. L’anno scorso siamo partiti in Francia e Germania e abbiamo impegnato gran parte della liquidità, dovevamo recuperare un margine sufficiente per investire in Italia».
Teme più la pirateria o l’arretratezza tecnologica?
«La pirateria in realtà presuppone una tecnologia adeguata. E a 7,99 euro al mese, Netflix è un’alternativa valida: in Australia ad esempio, siamo partiti sei mesi fa e da allora streaming e download illegali sono scesi già del 27 per cento».
In che cosa è diversa Netflix da YouTube?
«Siamo cresciuti insieme e col tempo siamo andati in direzioni diverse, noi offriamo contenuti originali e loro materiale prodotto dagli utenti, noi siamo a pagamento, loro si sostengono con la pubblicità».
YouTube però ha annunciato un servizio in abbonamento senza pubblicità, che include video e streaming musicale…
«Per noi la vera competizione non è nei servizi simili, ma in altre attività: leggere una rivista, passare tempo su Facebook, uscire la sera».
Anche dormire?
«Già, siamo in competizione con il sonno. Lottiamo per avere l’attenzione della gente: la nostra vera sfida è vincere tempo, entrare nella vita di tutti».
Un po’ come Facebook?
«Non esattamente. Netflix per ora non ha forte una dimensione social e non sono sicuro che aggiungerebbe granché all’esperienza. Ma sono nel consiglio di amministrazione di Facebook perché voglio vedere come lavora Mark Zuckerberg e imparare da lui».
Parliamo di numeri. In Italia a cosa puntate?
«In sette anni vogliamo essere in un terzo delle famiglie. In Usa ce l’abbiamo fatta: siamo partiti nel 2007 e ci siamo arrivati nel 2014. Ma nei primi anni per noi più che i numeri conta la soddisfazione degli abbonati. Vogliamo essere certi che Netflix funzioni bene e che chi paga per i nostri servizi sia soddisfatto».
Assumerete anche personale?
«La nostra sede europea è ad Amsterdam, quelli che assumiamo lavorano lì anche se sono italiani. Diverso è se produciamo una serie in Italia: è un investimento notevole, che va alle maestranze locali».
E come mai si brucia in un solo giorno? Perché tutti gli episodi di una serie sono disponibili contemporaneamente?
«Un libro ha tanti capitoli insieme, anche se l’autore ci ha messo anni a scriverli. Si possono finire in una sola notte, si possono interrompere e poi riprendere. Di noi dicono che cambiamo la tv, oppure il cinema, ma il nostro modello è un altro. Con i libri eravamo abituati a questa flessibilità, è la tv che porta a considerare naturale vedere l’episodio di una serie una sera la settimana: rimettiamo tutto in discussione».
Bruno Ruffilli, La Stampa 23/10/2015

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VINCENZO LATRONICO, IL OTTOBRE 2015 – 
C’era un’epoca in cui si diceva «non ho la tv». Me la ricordo. Non era tanto tempo fa.
Io, come moltissimi venti-trentenni che conosco, potrei dirlo ancora. Ho varie cose con lo schermo, che secondo le lettere minatorie che continuo a ricevere potrebbero costringermi a pagare il canone. Ho un laptop (più un altro rotto), uno smartphone cinese, un vecchio tablet che si scarica subito; ho una macchina fotografica digitale e un iPod ottimisticamente pensato per la palestra e quasi mai usato. Prima o poi a Natale mi farò regalare un videoproiettore. Ma il televisore non ce l’ho.
Io, come moltissimi venti-trentenni che conosco, «non ho la tv» potrei dirlo ancora: ma sarebbe una truffa, o se non altro un’imprecisione; perché la realtà è che – noi – guardiamo un sacco di tv. Solo che non la si chiama così. Si dice “serie tv”, ma più spesso solo “serie”, che è un termine astratto; si dice “video” o “YouTube” senza pensare che quel tubo è catodico. Si passa un weekend intero sul divano a spararsi una stagione di Battlestar Galactica, ma questo è ben diverso da starsene tutto
giorno attaccati alla tv.
Questa dissociazione potrebbe dipendere da molti fattori. Di certo c’entra la sensazione che i modi di guardare e fare televisione siano cambiati tanto, negli ultimi anni, da rendere l’oggetto irriconoscibile. Ma probabilmente c’entra anche una qualche forma di oscura vergogna, di sensazione che la “televisione” sia una fonte di intrattenimento sciocco e schiavo del potere, un focolaio di ignoranza e violenza, una «ladra di tempo» e una «serva infedele».
Queste ultime due definizioni, così come tutto l’argomento sul rapporto fra tv e violenza, devono la loro popolarità a un libretto del 1993 intitolato Cattiva maestra televisione, costruito intorno a un breve scritto del filosofo austriaco Karl Popper. Popper scriveva che nel Novecento la televisione si era trovata a essere la principale fonte d’informazioni sul mondo per i bambini di tutto l’Occidente; e ne analizzava i contenuti in virtù di questo suo ruolo educativo. Le conclusioni non erano buone. La televisione concedeva un’esperienza di intrattenimento passivo, al contrario della lettura. Era rivolta a un pubblico molto vasto, e quindi doveva giocoforza offrire contenuti livellati verso il basso. Era tarata su uno spettatore disattento (che la guarda mentre mangia, o mentre cucina, o mentre sonnecchia sul divano) il che la rendeva superficiale e ripetitiva. Il suo modello di business si reggeva sulla pubblicità, il che la costringeva a trattare i temi più scottanti con semplificazioni demagogiche. I film prodotti direttamente per la tv dovevano incorporare le pause pubblicitarie nella propria struttura narrativa, che quindi risultava singhiozzante, dopata di tensione surrettizia per impedire di cambiare canale, e piena di ridondanze inutili per spiegare l’antefatto a chi si sintonizza in ritardo. La competizione fra canali generava un’escalation di sesso e violenza nei programmi, perché erano il modo più facile per accalappiare l’audience.
Quest’ultimo era il problema che stava più a cuore a Popper. La fondatezza delle sue conclusioni può essere messa in discussione (la correlazione fra tv e violenza era sostenuta con più citazioni di Kant che statistiche); eppure è innegabile che il libro toccava un punto scoperto. Alcune delle soluzioni che proponeva erano irrealistiche (ritorno al monopolio), altre, come l’istituzione di un organo di autoregolamentazione, sono state in effetti implementate.
Più in generale, i suoi ragionamenti condizionano ancora una certa idea che abbiamo, in modo ormai quasi irriflessivo, di televisione; un mezzo di second’ordine, con uno stigma in parte meritato, da considerare non una fonte di intrattenimento nobile ma tutt’al più un piacere proibito (basta pensare alla differenza fra «ho passato la sera a guardare film» e «ho passato la sera a guardare puntate di The Affair» e «ho passato la sera a guardare la tv»). Le critiche tradizionali alla qualità della televisione erano vere. Eppure, a leggerle oggi, sembrano uscite da un altro mondo, stranamente fuori bersaglio rispetto alla televisione che conosciamo.
In effetti, è interessante vedere come tutte le limitazioni di cui era accusata la programmazione televisiva dipendevano in modo piuttosto diretto dalla natura del mezzo, a livello tecnico o commerciale. Gli sceneggiati erano scadenti per via del pubblico distratto; i notiziari erano demagogici per via dei capricci degli inserzionisti. L’interdipendenza era tale che risultava superfluo, pignolo, chiedersi se il problema con la televisione fosse legato all’oggetto fisico (il televisore) o ai contenuti immateriali che mostrava (la programmazione televisiva). Non a caso si chiamavano con la stessa parola, “televisione”.
Quella parola oggi ha sempre meno significato. I programmi televisivi ormai sono contenuti a cui si accede da qualunque cosa abbia uno schermo: come Facebook, come i giornali, come i videogiochi. Ci si accede quando si vuole, nel posto in cui si vuole, e ce li si procura, legalmente o illegalmente, come si vuole. (E quindi forse hanno ragione quelli del canone, mi duole ammettere.)
Ne ha parlato diffusamente, di recente, un lungo articolo del New York Times Magazine dedicato alla “scomparsa del viewing party”, in cui si analizza come per le nuove generazioni l’immagine degli amici radunati intorno alla tv sia ancora valida ma abbia cambiato di significato. Se fino a qualche anno fa ci si incontrava in occasione di certe trasmissioni per vederle insieme, ora accade perlopiù solo con le partite, e succede semmai il contrario: ci si trova e si decide di vedere, on demand, qualcosa che di per sé è disponibile sempre. O si cerca in Rete in quale arretrato di MasterChef c’era quella ricetta della polenta, e la si guarda sul cellulare mentre si cucina. O si fa una maratona di arretrati di Crozza ritrasmettendo via Snapchat i clip migliori. O si scaricano cinque puntate di Gomorra per un lunghissimo ritorno in treno dalle vacanze estive, coi sottotitoli fatti in crowdsourcing per i pezzi in dialetto. O si guardano i tg in streaming per discutere delle distorsioni delle notizie su Twitter.
Questa non è una semplice evoluzione di costumi, ma cambia la natura stessa di ciò che chiamiamo “tv”. Le serie prodotte da Amazon non sono schiave delle pause per la pubblicità, perché Amazon non vive di pubblicità. Netflix diffonde online tutti gli episodi di una stagione nello stesso momento, sostituendo con le “maratone” la vecchia attesa trepidante dei nuovi sviluppi, di settimana in settimana (ma anche: permettendo una ricchezza narrativa molto maggiore). I documentari di Vbs possono toccare temi forti perché mirano a un pubblico di nicchia, ma coprendo tutto il mondo questo basta a renderli profittevoli. Una serie come Breaking Bad ha una narrazione complessa che richiede molta attenzione: infatti, di media, ogni puntata ha avuto meno di due milioni di spettatori negli Stati Uniti, cioè meno della metà di Porta a Porta (rabbrividisco). Ciò non l’ha resa insostenibile, anzi: ha creato un pubblico fidelizzato e attento che ne ha garantito il successo planetario, mentre quattro milioni di italiani sonnecchiavano svogliati di fronte a un talk show fatto partendo dal presupposto di avere un pubblico svogliato e sonnecchiante.
Questo può sembrare un fenomeno limitato a certe fasce di età e di alfabetizzazione tecnologica: ma i giovani crescono, e i computer si diffondono, e i servizi di tv on demand hanno preparato il terreno perché Netflix, anche al pubblico meno tecnologizzato, non sembri un’innovazione aliena ma una specie di videoregistratore potenziato. Le fasce orarie diventeranno sempre meno significative, via via che la messa in onda corrisponderà non al momento di visione del pubblico, ma solo all’ingresso del contenuto in un archivio accessibile in Rete. Sarà quell’archivio (come quello Bbc, come quello di Hulu) a identificarsi con la “televisione” molto più di un antiquato oggetto che decide lui che cosa vedi e quando.
La competizione fra tre canali ha portato violenza gratuita e Maurizio Costanzo, ma quella fra mille ha portato intrattenimento di altissima qualità, d’autore, come Seinfeld e Les Revenants; l’ascolto attivo e critico suggerito da Popper come rimedio alla passività del mezzo televisivo, esperito in solitaria, non è stato reso possibile dall’azione illuminata di genitori e maestri, ma dall’arrivo dei social network. «I bambini [dovrebbero usare] apparecchiature video per realizzare loro stessi degli spettacoli: che capiscano da soli quanto è facile per una telecamera distorcere la realtà», si augurava uno dei saggi di Cattiva maestra televisione. Ce l’hanno, ma non si chiama telecamera.
Quest’estate degli amici che lavorano nell’editoria hanno organizzato una festa per seguire insieme la diretta del premio Strega. La logistica della serata è stata complicata dalla necessità di far funzionare lo streaming del sito della Rai, perché il maxitelevisore che avevano in soggiorno non era collegato all’antenna. «Non è una tv», ha detto il padrone di casa, indicando l’apparecchio collegato a internet, a un laptop e a una Playstation. «È uno schermo».
Lui la tv non ce l’ha.

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ANDREA MINUZ, IL OTTOBRE 2015 –
Che ne sarà della fiction italiana nell’era di Netflix? Vedremo Kevin Spacey nei Cesaroni? Don Matteo che spaccia al Cocoricò? Faremo il binge watching di Cento Vetrine in streaming? Tutti se lo chiedono ma nessuno lo sa. Dietro l’angolo ci sono trasformazioni dei consumi, ricambio dei gusti, cicli demografici, nuovi italiani e Reed Hastings di Netflix che dice: «Entro quindici anni, il palinsesto della tv lineare non esisterà più». Che fare? Sin qui il nostro patto di genere ha retto. Sky Atlantic se la tira col crime drama sofisticato, la cura dell’immagine, l’innovazione, il “respiro internazionale”. Mediaset offre l’action così così ma si prende il melodramma più efferato. Grazie alla Ares Film di Teodosio Losito e Alberto Tarallo ha messo in piedi una formidabile epica tamarra costruita attorno all’unico divo che abbiamo, Gabriel Garko. Un gigantesco, spregiudicato pastiche con dentro Visconti, Grand Hotel, Jane Austen, Fassbinder, Filumena Marturano, Milly D’Abbraccio, Sandro Ferrone e una vaga ma riconoscibile «atmosfera alla Hitchcock», come dice Losito.
Alla Rai spetta il compito più infausto. La missione inderogabile. Il famigerato, «racconto del Paese». Lo spiegano bene nel documento informativo Linee editoriali per la produzione della fiction Rai, manifesto programmatico dove la Rai si concede la splendida definizione di «fabbrica del racconto audiovisivo italiano». Non dite storytelling. Non siamo mica alla Holden. Questo è il braccio narrativo della «più grande azienda culturale del Paese». L’ultimo tentativo di letteratura condivisa che ci resta dopo l’opera, la commedia all’italiana e il Fantacalcio se ci giocassero anche le femmine. S’intitola Nessuno escluso, perché «nessuno deve essere escluso dal racconto di Rai Fiction» e nessuno mette Rai Fiction in un angolo. Redatto in un linguaggio a metà tra la Dichiarazione universale dei diritti umani, un’intervista a Bagnasco e una circolare interna del Miur, il manifesto della fabbrica dell’audiovisivo italiano fissa il profilo ideologico (i valori), tecnico (i format) e narrativo (temi e personaggi) del servizio pubblico. Trovate anche le indicazioni per proporre una fiction alla Rai. Le storie devono essere «improntate al rispetto della dignità della persona e alla non discriminazione», al «superamento degli stereotipi culturali attraverso una rappresentazione veritiera della società civile», al «recupero di identità valoriali e delle diverse sensibilità».
Ricordatevi che nel «servizio pubblico non devono esistere le classi differenziali dove chi può, chi è fortunato accede al meglio e a chi ha meno strumenti viene lasciato lo scarto, il prodotto banale e sciatto». Qui si guarda a Piketty, mica a Breaking Bad. Quest’anno, contro la diseguaglianza narrativa c’è Braccialetti rossi 3, Don Matteo 10, Il giovane Montalbano 2 e un solido schieramento civile a tre punte: «Sud», «donne», «migranti». Lo strike lo fa Anna e Yusef – Un amore senza confini. Lasciata Ponza alle spalle, Vanessa Incontrada ha proseguito la sua epica marittima infilandosi nei barconi con l’aiuto di molti equivoci, un sostegno insospettabile della Trentino Film Commission e neanche un’interrogazione parlamentare di Salvini. «Sono entrata nella parte diventando bionda. Per il resto è stato tutto estremamente reale. La barca ondeggiava. La gente mi cadeva addosso e urlava. Ho pianto davvero». In alternativa, c’è la capitaneria di porto di Claudio Amendola che si occupa dei migranti in Lampedusa.
Identità valoriali e società civile li recuperiamo a Calura. È il nome di fantasia del paesino della Puglia Film Commission dove nasce Violante Placido, eroina di Questo è il mio paese. Il plot sta a Renzi come Flashdance a Rocky: «Anna non ha nemmeno quarant’anni quando diventa sindaco, senza esperienze politiche pregresse e con pochi alleati, dovrà lottare da sola contro i giganti e porterà una rivoluzione nel suo piccolo borgo». Ma la storia comincia tanti anni prima, quando lei tenta «un’avventura umana e professionale al Nord». Poi però torna a Calura, vince le elezioni, «avvia un’operazione politica di trasparenza e un inaspettato rilancio dell’economia» e sfida il boss locale aka era-mio-padre, Michele Placido.
Giusy Buscemi finisce in un romanzo di Èmile Zola (Al paradiso delle signore, già film del 1930 di Julien Duvivier, già miniserie Bbc). L’eroina di Zola arrivava a Parigi dalla Normandia, si trasferiva dallo zio il giorno prima che la sua bottega venisse spazzata via dal neoliberismo dei nuovi grandi magazzini. Giusy viene dal Sud. Non va a Parigi, ma si ferma a Milano nel ’56, in pieno boom. Contro gli stereotipi che dividono le due Italie del rapporto Svimez, sarà chiamata a «conciliare emancipazione e sentimento» tra «giovani donne che rappresentano l’Italia nuova», sempre con questa fissazione di lavorare. C’è anche l’esordio nella fiction di Cristina Comencini che ci trascina nell’«epopea di una famiglia produttrice di grappa che attraversa gli anni dell’emancipazione femminile», ed è subito Premio Nonino. Emancipazione femminile anche per Miriam Leone investigatrice di femminicidi (Non uccidere), per Anita Caprioli che combatte la mafia con «sistemi investigativi d’avanguardia» (Le Catturandi), per Diane Keaton che si fa suora per amore di Sorrentino.
Noi qui facciamo il tifo per Stefania Sandrelli, madre Courage di Garko in Non è stato mio figlio, set dove forse è sbocciata la passione tra l’attore e Adua Del Vesco, star in ascesa della Ares Film e formidabile nome d’arte di Rosalinda Cannavò che sprigiona campagne di Libia, telefoni bianchi, carteggi Puccini-D’Annunzio, «ah qual grande dolore in piccole anime e spasimo, dramma rovente, carne, poesia!». E poi ancora rifiuti tossici per Beppe Fiorello, riciclaggio per Claudio Gioè e tanti format spagnoli: oltre Braccialetti rossi, c’è la new entry Grand Hotel e Matrimoni e altre follie, tentativo Mediaset di riaprire il filone family-comedy dopo l’esaurimento dei Cesaroni e le inchieste di Mafia Capitale. Noi aspettiamo Casa Monica, la sitcom. Speriamo ci metta le mani Netflix che stava già lavorando sul «mondo di mezzo» con la Cattleya di Federico Tozzi ai tempi del funerale caciarone. Coi titoli della stampa estera del giorno dopo, avranno brindato pure loro a Zio Vittorio. Vabbè ma la famiglia allargata, le corna, un po’ di leggerezza, magari Tinder? Tranquilli. Claudia Pandolfi, figlia di Ninetto Davoli, resta vedova e incontra Claudio Santamaria, figlio di Edwige Fenech. Si intitola È arrivata la felicità. Dice che è «l’erede ideale di Tutti pazzi per amore». Gli autori sono gli stessi.
«Nella gamma di generi e sottogeneri», così il manifesto, «Rai riserva uno speciale interesse ai prodotti di commedia intelligente, comunque di qualità e mai volgare, che sappia divertire ma anche fotografare e commentare la realtà, rappresentando le mutazioni della società italiana». È una commedia, ma fa riflettere. Una commedia della Rai non può divertire perché è scritta bene o «ha ritmo» – sterili, brutali indici di efficienza dei meccanismi narrativi – ma perché non è volgare, perché fotografa, perché commenta la realtà. Perché il manifesto l’hanno scritto prima che arrivasse Campo Dall’Orto e per quest’anno ormai è andata. Ma «tra marzo e maggio», dice Campo Dall’Orto, «ci sarà lo spazio per cominciare a disegnare una Rai più simile a quella che immagino». Cioè? «Con una discontinuità di tipo culturale prima che di tipo tecnologico. C’è una parola, forse abusata, ma che sintetizza bene quello a cui mi sto riferendo: pop». Se non fosse che noi con questa parola c’abbiamo il rapporto che c’abbiamo, se non fosse che per capire la popular culture ci siamo dovuti far spiegare Gramsci dagli inglesi, ci sarebbe da stappare lo spumante aziendale di viale Mazzini. Brindare al tracollo del mito civile e pedagogico della tv di Stato, uccidere il maestro Manzi che è in noi, che proprio nella fiction sta sempre lì in agguato con la lavagnetta a ogni pagina di sceneggiatura. Ce la faremo?
«Il problema in Italia è che non c’abbiamo lo showrunner», dirà il lettore arrivato sin qui che la sa lunga (c’è stato un tempo in cui per cavarsela bastava dire: «Le serie sono i nuovi romanzi», «True Detective è meglio del cinema», ormai se non ti giochi lo showrunner non sei nessuno). Lo showrunner però ce l’abbiamo eccome. Si chiama Eleonora “Tinny” Andreatta, figlia prediletta di Beniamino e direttore di Rai Fiction dal 2012. È lei che fa funzionare tutte le serie. La Rai sceglie storie, personaggi, registi, sceneggiatori, case di produzione. Tutta roba di public utility. Come la Lux Vide, nata dalle ceneri della Rai di Bernabei, retta da Matilde e Luca Bernabei, produttrice delle vite dei Santi, del ciclo “gli amici di Gesù” e di Don Matteo. Gli autori si adeguino. Invece di lamentarsi, quest’anno possono iscriversi al Master di scrittura seriale della Rai, cinquemila euro per cinque mesi di alta formazione e esercitazioni. Alla fine ti interrogano sul manifesto: «L’articolo 3?» «Rai Fiction rispetta le donne». Sei pronto per scrivere «opere di impianto cinematografico che possono toccare temi di grande valore civile e spettacolarità».
Gli americani trasformano i film in serie tv (Fargo, Hannibal, Rush Hours, Minority Report, Limitless) noi ci industriamo a fare le miniserie che sembrano film italiani. La seconda golden age della tv non ci avrà mai. Neanche nell’anno di Antonio Campo dall’Orto e Carlo Freccero. Per Netflix è pronto un bel catenaccio di diritti. Al resto penseranno i server italiani. E poi Reed Hastings non conosce per niente il nostro mercato, il prodotto locale. Come hanno notato in molti, Netflix «non ha neanche un ufficio in Italia». Come Airbnb non ha le case, Uber le macchine, Alibaba i supermercati.

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LUCA DONDONI, LA STAMPA 23/10 –
«L’avvento della tv via Internet è la più grande rivoluzione dai tempi dell’introduzione del colore. Possiamo vedere su qualsiasi schermo e in qualsiasi momento quello che vogliamo. In sette anni vogliamo arrivare a una famiglia italiana su tre».
È questo il senso di una giornata che secondo Reed Hastings, presidente e cofondatore di Netflix, cambierà per sempre il modo in cui tutti noi guardiamo il piccolo schermo. Anzi, «i piccoli schermi», poiché Netflix, come le altre tv via Internet, si può vedere alla tv (se connessa alla Rete), sui computer, sui tablet e sugli smartphone.
Non solo: «Cambieranno anche i contenuti - promette Hastings - perché senza la tv lineare non ha più senso creare serie con puntate da un’ora ciascuna e zeppe di rimandi interni». L’obiettivo di Netflix è infatti produrre sempre più serie originali: «Ne abbiamo 21 pronte per l’uscita - annuncia Ted Sarandos, responsabile dei contenuti - mentre nel 2016 ne produrremo 30 e 30 per bambini». Sarandos annuncia poi che la quarta stagione della serie Orange Is The New Black, contrariamente a quanto s’era detto finora, sarà trasmessa contemporaneamente da Mediaset/Infinity e anche da Netflix e che «si potranno rivedere anche le tre stagioni passate. Tenete presente che nei Paesi in cui siamo presenti noi puntiamo molto sulle produzioni locali: in Italia partiremo con Suburra che vedremo nel 2016».
Tra le novità già online c’è Marco Polo, che qualcuno ha già battezzato «Il Trono di spade di Netflix» ed è lo show più costoso prodotto dalla rete (90 milioni di dollari). Il nostro Pierfrancesco Favino, fan di Netflix della prima ora, tanto che nella sua casa americana si è abbonato al servizio Usa anni fa, sarà il padre del mercante veneziano mentre il protagonista è l’italianissimo Lorenzo Richelmy.
Quali sono i titoli di punta di Netflix, che da ieri, naturalmente per chi si è abbonato, è visibile anche in Italia? Senz’altro Narcos, serie che racconta la vita e l’ascesa di Pablo Escobar (e del suo cartello di Medellin): eccezionali l’attore Wagner Maura (che fa Escobar) e Pedro Pascal, nei panni di uno degli agenti che danno la caccia al boss. In questo momento si sta girando la seconda stagione in Colombia e per questo nessuno degli attori ha preso parte al viaggio promozionale in Italia. Netflix al Palazzo del ghiaccio di Milano ha organizzato una serata: sul tappeto rosso le star Taylor Schilling e Kate Mulgrew di Orange Is the New Black, Daryl Hannah e Miguel Angel Silvestre di Sense 8, Carrie Ann Moss e Krysten Ritter di Jessica Jones, Stephen DeKnight di Daredevil, Will Arnett di Bojack Horseman e il cast di Suburra.
Tra i titoli più importanti, va inoltre segnalato il thriller Bloodline, mentre gli autori di Matrix, i Wachowski, si sono impegnati su una modello di serie tv che mantiene la loro cifra: in Sense8 otto persone in diversi angoli della Terra scoprono di essere collegati fra di loro e di avere - contro ogni legge di natura - le stesse percezioni nello stesso momento.
Daredevil (l’avvocato non vedente Matt Murdock si trasforma nel supereroe che combatte un cattivissimo e bravissimo Vincent D’Onofrio) è la prima delle cinque serie che Netflix ha acquistato dalla Marvel, come Jessica Jones, tredici episodi di un’ora ciascuno con Krysten Ritter (vista in Breaking Bad) nei panni della protagonista.

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MASSMO RUSSO, LA STAMPA 23/10 –
Il rumore creato dal lancio di Netflix in Italia - la piattaforma per vedere film e serie tv online e su richiesta - può sembrare sproporzionato rispetto alle dimensioni attuali del fenomeno. I progetti sono ambiziosi - raggiungere un terzo delle famiglie italiane in sette anni - ma in fondo all’inizio gli abbonati non saranno molti, e la modalità di trasmissione dei contenuti richiede di essere connessi a internet con la banda larga, cosa non sempre facile da noi. In realtà la scena si illumina in modo diverso se - invece di valutare Netflix in sé - misuriamo l’impatto che avrà in noi, ovvero sulla nostra televisione.
Da questo punto di vista, oltre a una perdita di importanza del palinsesto tradizionale a vantaggio della possibilità di vedere quel che si vuole quando più aggrada, sono tre gli effetti più rilevanti della creatura di Reed Hastings, il 55enne professore di matematica di liceo diventato imprenditore globale e uscito vincente dal confronto con colossi come Blockbuster, nel frattempo fallito, e con le major hollywoodiane.
Il primo, di tipo commerciale e industriale, si sta producendo in queste settimane: fioccano le offerte dei concorrenti tradizionali per non farsi sfuggire l’attenzione degli spettatori. Sky si è alleata con i fornitori di connettività e offre un anno di abbonamento gratuito al proprio servizio online, garantendo condizioni super vantaggiose a chi minaccia di disdire il servizio Cinema. Mediaset spinge la propria creatura, Infinity, e proprio l’altro ieri ha reso noto di aver chiuso un contenzioso durato otto anni con Google, con un accordo che prevede anche la distribuzione di video su Play e YouTube. Il direttore generale della Rai, Antonio Campo Dall’Orto, ha poi annunciato di voler realizzare una piattaforma on demand del servizio pubblico, con una parte di contenuti a pagamento, pescando anche dallo sterminato catalogo degli archivi. Non è ancora chiaro se questo avverrà con un’applicazione tipo quella realizzata dalla Bbc nel Regno Unito, o con un vero e proprio decoder, per connettere alla rete anche i televisori più attempati.
Questioni tecniche a parte, tutto ciò avrà anche un secondo effetto, sul linguaggio, sui formati e sulla qualità delle produzioni. Non significa che vedremo serie come True Detective, Il trono di spade o House of Cards in prima serata su Rai Uno. Ma che la progressiva abitudine del pubblico allo standard di questi prodotti, imporrà anche alle nostre emittenti di produrre fiction di maggiore qualità di quel che oggi passa il convento, scardinando piccoli cabotaggi e rendite di posizione decennali, figlie della logica del duopolio tra Mediaset e Rai. Avremo meno produzioni e meno film, ma in grado di accontentare palati più esigenti, condizione indispensabile se si vuole davvero provare a giocare su un palcoscenico globale.
Il terzo è un risultato collaterale, ma non meno importante. Come Campanile Sera e Mike Bongiorno negli Anni 50 e 60 unirono la penisola diffondendo la lingua italiana, nello stesso modo la promessa della televisione 2.0 potrebbe essere un’ottima leva per spingere la metà degli italiani che ancora non conosce la rete ad avvicinarsi a internet con meno diffidenza. Così, tra un film e una serie, imparare che internet è ormai un’irrinunciabile piattaforma abilitante della vita quotidiana e della conoscenza, e l’alfabetizzazione digitale un diritto fondamentale, al pari della scuola o della salute.
Si comincia da un poliziesco o da una saga fantasy e - hai visto mai - si finisce per traghettare il Paese nella contemporaneità.
@massimo_russo

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MASSIMO SIDERI, CORRIERE DELLA SERA 23/10 –
Mister «ho-ucciso-il-palinsesto», il fondatore di Netflix Reed Hastings, non voleva farlo: la fine della programmazione oraria della tv è stato un effetto collaterale. Lo ha raccontato lui stesso: era in ritardo di settimane con un film che doveva riconsegnare a Blockbuster (40 dollari di penale) e andando in palestra si rese conto che il modello di business dell’abbonamento aveva più senso. Intanto paghi, poi decidi se, cosa e quando vedere. È così che Hastings ha ucciso sia l’uno (Blockbuster) che l’altro (il palinsesto). Ora il tema è cosa accadrà ai broadcaster tradizionali. «Loro sopravviveranno — ci racconta Hastings — evolvendosi e diventando applicazioni sull’iPhone. La Bbc sta facendo un ottimo lavoro. Tutti i loro contenuti sono su Internet e molti la guardano. È un buon esempio per tutte le società perché tutta la tv andrà sulla Rete in 10-12 anni». Mentre il palinsesto per Hastings «sarà come la rete fissa del telefono, un lungo declino». D’altra parte pare che nemmeno Netflix fuggirà a questo destino: non sarà che qualcuno inizierà a vendere i singoli film colpendo il modello dell’abbonamento mensile? «È sicuro che qualcuno distruggerà me e Netflix, ma come e quando accadrà non lo sa nessuno». Per ora. Intanto la società rimane convinta che riuscirà ad essere profittevole anche mantenendo bassi i prezzi, prospettiva che non convince gli analisti. «Loro facciano gli analisti, io faccio il manager».

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NICOLE CAVAZZUTTI, IL MESSAGGERO 23/10 –
La rivoluzione tecnologica dell’anno? Si chiama Netflix. Che, per chi ancora non lo sapesse, è la più grande rete di internet tv al mondo, con quasi 70 milioni di abbonati in oltre 50 Paesi. Nata nel 2007 in America, la piattaforma che rende la fruizione della televisione attiva e on demand è arrivata nella notte tra il 21 e il 22 ottobre anche in Italia, con tutto il suo catalogo digitale di serie tv, film e documentari. E ora si appresta a fare la guerra a Chili, Sky Online, Infinity Tv, MYMoviesLive e TimVision. «Netflix rappresenta il passaggio dai network televisivi alle tv app e rivoluziona il modo di fruire della tv, perché consente di vedere i contenuti su qualunque schermo e a qualsiasi ora», spiega Reed Hastings, co-fondatore e amministratore delegato.
Che poi aggiunge: «Per avvicinare il pubblico italiano punteremo sulla prova gratuita di un mese: siamo sicuri che quando gli utenti useranno Netflix se ne innamoreranno perché il servizio è economico (l’abbonamento base costa 7,99 euro al mese); il contratto non è vincolante, ma rinnovabile ogni trenta giorni e i contenuti sono di altissima qualità. Il nostro obiettivo, in termini di spettatori, è di raggiungere un terzo delle famiglie italiane nel giro di sette anni». L’offerta è ricchissima e di qualità: tra i titoli di punta c’è sicuramente Narcos, serie ideata da José Padilha per Netflix incentrata sulla storia vera della dilagante diffusione della cocaina tra Stati Uniti ed Europa, grazie al cartello di Medellin del boss della droga Pablo Escobar.
«Tra le altre serie originali di maggiore successo, vi ricordo Daredevil, Marco Polo con il vostro Pierfrancesco Favino e Orange is the new black», specifica Reed Hastings durante la conferenza stampa tenutasi a Milano, cui hanno partecipato anche gli attori Will Arnett (i Millers), Kristen Ritter (Jessica Jones), Taylor Schilling (Orange is the new black), Pierfrancesco Favino, Daryl Hannah (Sense8) e Stephen DeKnight (showrunner di Daredevil). E se attualmente sono in fase di realizzazione ben venti produzioni targate Netflix, l’anno venturo il numero è destinato a crescere a trenta.
Tra i titoli già annunciati c’è Suburra, serie tratta dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, trasposto anche per il grande schermo da Stefano Sollima nel film al cinema in questi giorni con Favino, Claudio Amendola ed Elio Germano. Tra le serie italiane, segnaliamo poi anche Amiche da morire, Generazione 1000 euro e Reality
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COLLABORAZIONI
Per il futuro Hastings non esclude partnership con altri gruppi, inclusi Sky e Mediaset Premium: «Siamo sempre aperti a stringere collaborazioni per co-produrre nuove serie. In America lo facciamo già con la Fox».
E non fa trapelare alcuna preoccupazione rispetto alla notizia dell’arrivo del competitor YouTube Red. «La concorrenza fa bene al mercato e accelera la rivoluzione in atto. Per le nuove generazioni, quelle nate nell’era di internet, sarà assolutamente impensabile l’idea di seguire uno spettacolo di prima serata in tv. I giovani sono abituati a cliccare e a guardare solo i video che desiderano: per loro la televisione è da sempre on demand. Di conseguenza, presto i concetti di fruizione passiva della tv e di programma di prima serata scompariranno. Del resto, è successa la stessa dinamica con il telefono. Se gli anziani hanno ancora la linea fissa in casa, nonostante usino anche il cellulare; i giovani usano solo lo smartphone», osserva. «Insomma, sono certo che tra vent’anni o poco più la tv sarà quasi solo in streaming».
È d’accordo Pierfrancesco Favino, protagonista di Marco Polo: «Ho scoperto Netflix all’estero qualche anno fa e mi sono subito abbonato al servizio. Quando ti abitui a vedere la tv on demand, è difficile tornare indietro».
Nicole Cavazzuti