Enrico Franceschini, il venerdì 23/10/2015, 23 ottobre 2015
UN SOCIO PALESTINESE E LA VERDURA SEXY: VEDI ALLA VOCE MIRACOLI DEL CELEBRITY CHEF EBREO
[Yotam Ottolenghi]
LONDRA. «Se israeliani e palestinesi non sono ancora riusciti a fare la pace, dopo vent’anni di negoziati e mediazioni diplomatiche americane, forse dovrebbero»: sedersi attorno a un tavolo e intingere il pane nella salsa di pasta di ceci, aromatizzata con olio di oliva, prezzemolo, succo di limone e altri possibili ingredienti, che è da sempre uno dei piatti tipici più amati da entrambi i popoli. Il suggerimento viene da un israeliano che una pace del genere l’ha fatta con grande successo: Yotam Ottolenghi, celebrity chef come si dice a Londra, sua seconda patria, che una decina d’anni or sono sedette appunto attorno a una tavola imbandita con il palestinese Sami Tamimi, tutti e due da poco esuli sotto il Big Ben, e da quel pasto a base di hummus nacque una collaborazione che ha portato un nuovo tipo di ristorazione lungo le rive del Tamigi.
Cocktail di gastronomia ebraica e araba, oggi arricchita dalle fantasiose influenze di un terzo elemento, il malese-irlandese-cinese-indiano (non ha quattro genitori: sono le nazionalità dei suoi quattro nonni) Ramael Scully, come se non bastasse cresciuto in Australia, la «pace dell’hummus» ha generato nella capitale britannica prima un delicatessen, una bottega di alimentari con qualche tavolino per mangiare sul posto, quindi una trattoria, poi un ristorante, Nopi (acronimo di «North of Piccadilly», ovvero nel cuore di Soho), e quattro libri di ricette e cultura alimentare firmati da Ottolenghi, l’ultimo dei quali, scritto insieme al suo cuoco malese, è un ricettario di 150 piatti del ristorante, adattati per la cucina casalinga di tutti i giorni. La pubblicazione di Nopi, il libro delle ricette (in Italia esce in questi giorni da Bompiani, in Inghilterra è stampato dalla Penguin Random House, maggiore casa editrice nazionale) è l’occasione per incontrare uno dei più originali artisti dei fornelli, originale anche fuori dalla cucina. Barbetta da rock star e occhiali da designer, Yotam Ottolenghi proclama subito che la cosa che più gli interessa, dopo la ristorazione, sono gli affari internazionali: diciamo che non ci sono molti cuochi così.
Cominciamo con una domanda che riguarda da vicino il mio giornale: lei è parente di Miriam Ottolenghi, israeliana di origine italiana che è stata a lungo una formidabile assistente dei corrispondenti di Repubblica a Gerusalemme, me compre sonei sei anni che ci ho trascorso?
«No, non credo. Ci sono almeno mezza dozzina di gruppi di Ottolenghi, in Israele. Magari poi siamo imparentati alla lontana. Nel mio Paese si dice spesso che siamo tutti una sola famiglia e un po’ è vero».
Suo padre da dove viene?
«Da Firenze. Emigrò a Gerusalemme con i genitori nel 1939, subito prima della Seconda guerra mondiale».
Perciò si salvò dall’Olocausto?
«Sicuramente fu un buon modo per non correre il rischio di finire nei campi di concentramento e nelle camere a gas».
E poi?
«Poi ha sposato un’ebrea tedesca, è diventato professore universitario di chimica e siamo nati io e i miei fratelli».
Lei ha anche la nazionalità italiana?
«Sì, insieme a quella israeliana e a quella britannica».
Potrebbe fare l’agente segreto, se non facesse il cuoco.
«È sempre bene avere un mestiere di riserva».
In realtà un po’ lo è già stato: ha fatto il servizio militare in un’unità di intelligence dell’esercito israeliano.
«Sì, ma non in virtù dei miei tre passaporti, che all’epoca comunque erano soltanto due» (un fratello di Yotam è morto sotto le armi, ucciso dal fuoco amico in un’esercitazione militare).
Quindi ha lavorato per Haaretz, famoso quotidiano progressista israeliano. Come ha fatto a passare dal giornalismo alla cucina?
«Non so se avrei continuato a fare il giornalista. Ho una laurea in filosofia, forse avrei tentato la carriera accademica. Ma cucinare mi è sempre piaciuto, è una passione che mi hanno instillato i miei genitori. Un giorno sono venuto a Londra, mi sono iscritto a una scuola di cucina e non ho più smesso».
Si dice che la sua specialità sia la cucina vegetariana, in particolare lei ha la reputazione di avere «reso sexy la verdura», secondo quanto ha scritto il Times di Londra. Ci dice come si fa?
«Proseguendo la metafora, direi che bisogna mettere più amore nel cucinarla. Diciamo che in Europa del nord la verdura viene mangiata più per dovere che per piacere. Nel Mediterraneo sappiamo condirla con più fantasia. Io ci ho aggiunto un po’ di sapori e ancora più fantasia».
È vegetariano?
«No, mangio di tutto».
Dunque niente cucina kosher, secondo le regole religiose ebraiche, a casa sua?
«No, e non c’era neanche a casa dei miei genitori. Sono cresciuto in una famiglia laica e sono rimasto tale».
Se dovesse portare un solo piatto con sé in un’isola deserta, quale sarebbe?
«Gli gnocchi alla romana che fa mia madre, pur essendo tedesca. Imbattibili».
Mai pensato di aprire un ristorante in Italia?
«Neanche per sogno! Gli italiani, a partire da mio padre, amano solo la cucina italiana».
Forse sarebbero pronti per qualche innovazione. E in Israele lo aprirebbe?
«Nemmeno. Troppo lontano da Londra, dove mi trovo benissimo. E poi non voglio avere una catena di ristoranti. In quelli miei io voglio andarci di persona, tutte le sere se è possibile».
È vero che il suo socio palestinese Sami Tamimi all’inizio è stato oltre che suo partner commerciale anche suo partner sentimentale (Ottolenghi è gay, si batte per i diritti degli omosessuali, ha avuto un figlio, da una madre surrogata, che cresce insieme al suo attuale compagno)?
«No, solo soci d’affari, meglio non mescolare le cose».
E la «pace dell’hummus» funziona ancora?
«Tra me e Sami sì, benissimo. Sognerei che funzionasse anche tra i nostri due popoli. Ma al momento non vedo neanche un granello di speranza per un accordo tra israeliani e palestinesi. A dispetto del fatto che ci somigliamo più di quanto si creda, come conferma la nostra comune passione per la salsa di pasta di ceci».