Marco Iasevoli, Avvenire 23/10/2015, 23 ottobre 2015
SPREAD, QUATTRO ANNI TRA PAURE E SPERANZZE. UNA CIFRA CHE HA CREATO DIPENDENZA
Gli italiani fanno amicizia con lo spread a luglio 2011, nel cuore del conflitto tra Berlusconi e l’Ue. Le riforme italiane latitano e la speculazione infila il coltello nel burro del debito pubblico italiano. Il differenziale con i bund tedeschi lievita di giorno in giorno, i tassi d’interesse schizzano, la paura terremota il Paese. Dagli industriali ai sindacati la disamina è la stessa: «Siamo ad un passo dal baratro». Sino al 9 novembre: spread a 575 punti, record assoluto. Tre giorni e il Cavaliere passa il campanello di Palazzo Chigi a Mario Monti.
Comincia una storia nuova. Il professore in loden va ad ogni conferenza stampa con l’andamento dello spread nella tasca interna della giacca. Memorabile l’incontro con i cronisti del 29 dicembre 2011. Il premier bocconiano tira fuori un foglietto che sembra un elettrocardiogramma, illeggibile a distanza, e cerca di far capire come e perché nel primo mese di governo è riuscito a calmare la tempesta dello spread. Era il tempo del decreto Salva-Italia, del ritorno dell’Imu, della riforma-Fornero delle pensioni. Quando poi Monti proverà la ’salita in politica’, rivelerà un altro gustoso retroscena circa il rapporto simbiotico tra lui e il differenziale con i bund tedeschi: «Sa – confida a Unomattina l’11 dicembre 2012 –, a scuola il mio nipotino lo chiamano ’spread’... paga le colpe di suo nonno».
Eppure, lungo l’esecutivo dei tecnici lo spread continuò ad essere altalenante. Enrico Letta, a fine aprile 2013, lo ereditò poco sotto i 300 punti e, nei suoi 10 mesi di governo, lo portò a 200. Beffa delle beffe, il premier pisano lasciò la poltrona di premier al fiorentino Renzi - nei modi traumatici che tutti ricordano - proprio quando il differenziale raggiunse il minimo del suo mandato. Ed è proprio durante la stagione di Letta che Berlusconi, staccatosi dal governo di unità nazionale, fa avanzare attraverso numerosi articoli di Renato Brunetta la ’teoria del complotto’, ovvero la tesi secondo cui sono state le banche tedesche e francesi e manipolare i mercati per far cadere il Cavaliere, «l’unico che si opponeva all’austerity». Forza Italia è arrivata anche a chiedere una commissione d’inchiesta.
Il resto è storia recente. Una storia che sarebbe poco chiara se letta solo attraverso gli avvicendamenti alla guida dei governi italiani. Perché gran parte di quanto accaduto ha avuto un’unica cabina di regia: l’Eurotower, il Palazzo della Banca centrale europea. C’è ancora oggi una data spartiacque nella storia della politica economica e monetaria dell’Ue: 26 luglio 2012. Dopo il primo faticoso accordo con la Grecia, ora è la Spagna ad essere in tilt e l’Italia torna in zona-contagio, intorno ai 500 punti. E Mario Draghi, al termine del board Bce, pronuncia le parole magiche: «Faremo tutto il necessario per salvare l’euro». È l’annuncio politico di tutto ciò che sarebbe seguito mese dopo mese, dai ’firewall’ ai Fondi salva-Stati sino ad arrivare al salvifico ’quantitative easing’. La speculazione smette di giocare contro Roma.
E Renzi? Entra in gioco a febbraio 2014 con il differenziale intorno ai 200 punti. Su e giù per qualche mese poi la doppia svolta. Roma parte in quarta con legge elettorale e riforma costituzionale ma soprattutto, in autunno, vara il jobs act (galeotto fu un faccia a faccia segreto, il 16 agosto 2014, tra il premier e Draghi). E la Bce, a marzo 2015, inizia a usare davvero il bazooka. Lo spread si pianta poco sopra il 100 per lunghe settimane. Ieri, ancora una volta sulla scia delle parola di Draghi, questa soglia psicologica si è infranta.