Pietro Saccò, Avvenire 22/10/2015, 22 ottobre 2015
REGOLE E SCAMBI, TRA USA E UE RESTA UN OCEANO DI DIFFERENZE
C’è una cosa che la Commissione europea vorrebbe rispondere ai milioni di cittadini spaventatissimi per i possibili risultati della trattativa per il libero scambio con gli Stati Uniti, ma non può permettersi di dirla: «Relax, il Ttip è in alto mare», come ha titolato, esultante, ’il manifesto’ la settimana scorsa. È curioso: la protesta contro il trattato commerciale transatlantico – la Transatlantic Trade and Investment Partnership – continua a ingrossarsi mentre le possibilità di raggiungere un accordo significativo si riducono, ma il rapporto di causa ed effetto tra i due fenomeni non è poi molto forte. La rivolta è più viva che mai. Il movimento no-Ttip, quasi invisibile in Italia, a inizio ottobre a Berlino è riuscito a portare in piazza almeno 150mila persone per una delle più grandi manifestazioni di protesta della recente storia tedesca.
A Bruxelles è stato consegnato un appello contro il Ttip firmato da 3 milioni di persone e Wikileaks è quasi riuscita a raccogliere in crowdfunding i 100mila euro promessi come ricompensa a chi le consegnerà il segretissimo documento al centro della trattativa.
La protesta è giustificata solo in parte. Sul Ttip fin dall’inizio circolano leggende riciclate dagli anni ’90, come quella che racconta di un’Europa pronta a fare arrivare nei suoi supermercati i polli lavati con il cloro o i manzi ’allevati’ agli ormoni, messe in giro solo per spaventare i cittadini. La Commissione ha sempre ricordato che nel mandato dei negoziatori è specificato che non si può trattare nulla che possa comportare un abbassamento del livello di sicurezza e dei diritti per quanto riguarda il cibo, la salute e il lavoro. Ci sono però anche critiche più ragionevoli, come quelle che riguardano la trasparenza del negoziato e i suoi reali effetti positivi. Sul primo punto è naturale, ma opinabile sotto il profilo democratico, che in questo tipo di trattative non sia possibile comunicare apertamente ogni mossa ai cittadini (ai deputati europei è comunque concesso di visionare i documenti negoziali); per quanto riguarda gli effetti positivi è vero che anche a Bruxelles ora ammettono che l’accordo non darà poi chissà quale ’turbo’ alla crescita europea, tanto che, come ha scritto l’Economist, ormai molti anche alla Commissione iniziano a chiedersi se valga la pena darsi tanto da fare per un’intesa che potrebbe portare un +0,5% di Pil nel 2027… T ra i negoziatori a Miami, dove si sta concludendo l’undicesima sessione di trattative, c’è una certa sfiducia. Fonti europee non esitano ad ammettere che il negoziato, iniziato nel luglio del 2013, non fa progressi da un anno. L’obiettivo iniziale, cioè chiudere tutto prima che l’inizio della campagna presidenziale americana rischiasse di travolgere la trattativa, è stato evidentemente mancato e ora la speranza è riuscire a ottenere almeno qualcosa prima della fine del mandato di Barack Obama, cioè entro il 2016. Per riuscirci in molti si accontenterebbero di un ’accordicchio’, con un abbassamento dei dazi tariffari, che sono già minimi, e un po’ di maquillage a livello di regole (e sono le regole, il vero punto di scontro). Un po’ come gli Stati Uniti hanno fatto con l’altro grande accordo commerciale dell’era Obama, la Trans-Pacific Partnership siglata il 5 ottobre con 12 paesi tra Asia e Sudamerica. Anche in quel caso i negoziatori hanno chiuso un’intesa minima pur di arrivare a qualcosa prima che cambi l’inquilino della Casa Bianca.
Quello che è ormai certo è che il Ttip che aveva in mente l’Europa non arriverà mai. Il punto è che fin dall’inizio l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno guardato a questa intesa commerciale con un punto di vista diverso e questa diversità si è nel tempo rivelata troppo radicale per essere superata. Per l’America è quasi esclusivamente una questione di soldi. Un po’ di idealismo c’è - nel senso che Obama sperava di potere lasciare ai posteri due accordi, il Tpp e il Ttip, che mettessero l’America al centro di un’area di libero scambio che andasse dall’Asia all’Europa - ma le aziende che sponsorizzano la politica americana stanno cercando con forza di limare al ribasso le regole europee per potersi espandere nel Vecchio Continente. L’Europa, la contrario, ha sperato di potersi alleare con l’America di Obama per alzare, a livello mondiale, lo standard delle regole per proteggere l’ambiente, la salute dei cittadini e i diritti dei lavoratori. Con uno spirito che potremmo definire di bonario imperialismo culturale Bruxelles sperava di ’civilizzare’ gli Stati Uniti rendendoli più simili a sé. Le regole armonizzate prodotte dal Ttip sarebbero così diventate lo standard di riferimento nel resto del mondo. I mpossibile, così, trovare un punto di contatto. Infatti non c’è accordo praticamente su niente. Restano incolmabili le differenze sulle principali regole di sicurezza, dai crash test delle automobili a quelle per i prodotti chimici o farmaceutici, sull’alimentare l’Ue sta cercando un blando accordo per proteggere i prodotti tipici ma fa molta fatica, sulla possibilità per le imprese europee di partecipare agli appalti pubblici degli Stati americani (non possono farlo perché glielo vieta il Buy American Act del 1933) ormai la speranza è tramontata. Addirittura su alcuni terreni si stanno facendo passi indietro (ad esempio sulla eliminazione dei dazi, che sembrava la cosa più semplice) e siamo arrivati al punto in cui la riflessione fatta sul Ttip sta rimettendo in discussione anche gli accordi già definiti: nella trattativa con gli Usa l’Europa ha scelto di accantonare i famigerati Isds - gli arbitrati indipendenti che avrebbero dovuto regolare i contenziosi tra aziende e Stati - per sostituirli con gli Ics, corti composte da giudici togati, e adesso alcuni Stati membri chiedono di fare la stessa scelta anche nell’ambito del Ceta, l’accordo di libero scambio con il Canada.
Solo che questo accordo, a differenza del Ttip, è già stato chiuso (ad agosto) e attende solo l’approvazione del Consiglio e del Parlamento europeo. Chiedere di modificarlo adesso danneggerebbe pesantemente la credibilità negoziale europea. Non avremo un Ttip - non un Ttip ’vero’, almeno - e non è detto che sia un male. Avere un cattivo accordo, banalmente, sarebbe peggio. Casi recenti come lo scandalo Volkswagen o la sentenza safe harbor sulla protezione dei dati ricordano però che in molti casi i cittadini europei e americani potrebbero essere più protetti all’interno di un sistema di regole condivise. Mentre scene altrettanto recenti come quella del presidente cinese Xi Jinping accolto con una guardia d’onore e il benvenuto reale in una Gran Bretagna affamata di yuan ci ricordano che forse una buona alleanza commerciale tra grandi democrazie non sarebbe poi così inutile in tempi in cui Stati non democratici stanno conquistando l’egemonia sull’economia globale.