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 2015  ottobre 22 Giovedì calendario

NON PAGHEREMO MENO TASSE E VI SPIEGO PERCHÉ

Se provate a metterle in fila, le riduzioni delle tasse messe in atto dal governo Renzi dal momento del suo insediamento a oggi, ovvero in due anni scarsi, formano una sequenza impressionate: meno Irap, bonus da 80 euro, maxidecontribuzione per gli assunti nel 2015, decontribuzione (più modesta) per gli assunti nel 2016, detassazione del salario di produttività, agevolazioni nel calcolo degli ammortamenti, abolizione delle tasse sulla prima casa e sui macchinari imbullonati, revisione del regime dei minimi per professionisti e piccole imprese, disinnesco delle clausole di salvaguardia sull’Iva e sulla accise. Mal contati, fanno 35 o 40 miliardi di minori entrate per lo Stato. Una vera rivoluzione fiscale, da far impallidire i timidi tentativi di riduzione della pressione fiscale di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti alla fine della legislatura 2001-2005, quella conquistata con il «Contratto con gli italiani». Un patto che, al suo punto numero 1, prometteva la riduzione a due sole aliquote (23 e 33 per cento) dell’Irpef.
Capisco quindi che il nostro giovane premier sia su di giri, e trovi «sorprendente» la sua Legge di stabilità. Trovo anche che la maggior parte delle riduzioni fiscali promesse siano utili, in quanto alleggeriscono la pressione fiscale sui produttori, e per questa via stimolano l’economia. Non solo, ma mi pare che, da questo punto di vista ci sia un doppio e positivo stacco rispetto al passato: rispetto al vecchio centrosinistra, perché Matteo Renzi non ha alcuna intenzione di spremere ulteriormente gli italiani; rispetto al vecchio centrodestra, perché Renzi quando parla di riduzioni fiscali pensa più al mondo dei produttori che ai bilanci famigliari (di cui molto si preoccupava il «Contratto con gli italiani»).
C’è solo una cosa che non va, a mio parere: il racconto. La storia che ci viene raccontata è vera (almeno in parte), ma e gravemente incompleta. Per capire perché dobbiamo mettere in campo un po’ di dati. Nel 2013, ancora regnante Enrico Letta, le entrate totali della pubblica amministrazione ammontarono a 782 miliardi. Nel 2014, un anno in cui i conti pubblici risentono sia delle scelte di Letta sia di quelle di Renzi, le entrate diminuiscono di 4,6 miliardi di euro. Per il 2015, primo anno completamente renziano, la Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, prevede un aumento di 11,5 miliardi. E per l’anno prossimo la Legge di stabilità pianifica, per ora, un ulteriore aumento di circa 9 miliardi.
Come è possibile? Come stanno insieme i 35-40 miliardi di tagli fiscali annunciati, e la realtà di una pubblica amministrazione che in due soli anni, fra il 2014 e il 2016, aumenta il prelievo di 20 miliardi? Le ragioni sono almeno tre. La prima, partendo dalla meno importante, è che la mera esistenza dell’inflazione basta a far aumentare il Pil nominale, e quindi il prelievo fiscale: la gente ha il medesimo potere di acquisto di prima, ma lo Stato drena più tasse ai cittadini perché le aliquote fiscali sono costanti (è il cosiddetto fiscal drag). La seconda ragione è che alcune riduzioni delle tasse, come il congelamento degli aumenti dell’Iva e delle accise previsti per il 2016 e il 2017, non sono vere riduzioni delle imposte, bensì semplici rinunce ad attuare inasprimenti minacciati precedentemente, e inseriti nelle leggi di stabilità come «clausole di salvaguardia» per tranquillizzare le autorità europee.
La terza ragione, la più importante, è che ridurre certe tasse non impedisce di aumentarne altre: le manovre finanziarie di tutti i governi sono zeppe di piccoli e grandi aumenti che sfuggono all’opinione pubblica, o sono percepiti come poco gravi, o addirittura giusti. Pensiamo alla «lotta contro le rendite finanziarie», alle tasse imposte alle odiate banche e assicurazioni, all’aumento
degli acconti dovuti al fisco, alle imposte sul gioco d’azzardo, o alle marche da bollo e agli altri mille balzelli che assediano la nostra vita. Per non parlare dei tagli a Regioni e Comuni, imposti senza alcuna garanzia che gli enti locali non si rivalgano sui cittadini con aumenti delle tasse locali.
Il risultato di tutto ciò è semplice: molte tasse diminuiscono, ma poiché molte altre aumentano nella medesima misura, la pressione fiscale complessiva, nonostante le promesse del governo di portarla dal 44,2 al 42,4 per cento, resta sostanzialmente invariata. Non c’è niente di male, perché mediamente le tasse abolite sono più dannose di quelle introdotte, e anche questo (ridistribuire un carico fiscale che resta invariato) è un modo per ridare fiato all’economia. Ma non ci si dica che da quando c’è Renzi gli italiani pagano meno tasse, perché questo non è vero.