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 2015  ottobre 22 Giovedì calendario

IL MISTERO SVELATO DEI TAGLI SCOMPARSI

Prima erano 20, poi 10 e alla fine sono diventati 5,8. Da quando ad aprile è stato approvato il Documento di economia e finanza, la spending review si è persa per strada 4,2 miliardi di euro di risparmi, un’enormità. All’appello mancano la riduzione delle agevolazioni fiscali e i tagli ai ministeri individuati da Roberto Perotti, il professore dell’Università Bocconi incaricato di ridurre la spesa in tandem con il deputato del Pd, Yoram Gutgeld. Una revisione dei costi che avrebbe fatto risparmiare al bilancio dello Stato oltre sei miliardi: quattro dal fisco e due dai dicasteri. Infatti Matteo Renzi, dopo aver rinunciato ai 4 miliardi che era possibile recuperare grazie alla revisione delle «tax expenditures», il disboscamento dei bonus fiscali a cui Perotti ha lavorato per mesi, ha detto no anche agli interventi individuati dal bocconiano per ridurre di due miliardi le uscite dei ministeri. I tagli in questione, contenuti in dieci dossier top secret, relativi ad altrettanti dicasteri, non erano proporzionali al bilancio dei ministeri e andavano a colpire in particolar modo gli Interni di Angelino Alfano, un alleato troppo prezioso per essere sacrificato sull’altare della spending review. Per questo il premier avrebbe preferito lasciar perdere. Per Perotti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E così dieci giorni fa se ne è andato via da Palazzo Chigi sbattendo la porta. Il commissario alla spending review uscente tuttavia non si è ancora dimesso. Il presidente del Consiglio lo incontrerà all’inizio di novembre. Per tentare di convincerlo a restare, gli prometterà un cambio di passo nel 2016. Ma quando c’è di mezzo la revisione della spesa le promesse di Renzi, si sa, lasciano il tempo che trovano.
È un film visto e rivisto. A Perotti è toccata la stessa fine dei suoi predecessori. A Palazzo Chigi, dove si fa un gran parlare di revisione della spesa pubblica, i commissari alla spending review in realtà sono tutt’altro che benvenuti. Prima li nominano, poi li isolano e infine li scaricano. Al professore della Bocconi, nonostante il rapporto di stima reciproca che lo lega (legava?) al premier, è stato riservato il «trattamento Cottarelli». Anzi, peggio. Perché almeno il lavoro di Carlo Cottarelli, ora al Fondo monetario internazionale, è stato reso pubblico online, dopo che per mesi era stato uno dei segreti meglio custoditi della Repubblica. A Perotti, con ogni probabilità, verrà negata invece anche questa piccola soddisfazione. I dossier contenenti i tagli che aveva proposto difficilmente verranno alla luce. Palazzo Chigi li ha chiusi in un cassetto e ha buttato via la chiave. Secondo fonti del Tesoro, in quel cassetto ci sono dieci dossier dove vengono prese di mira le spese di ciascuno dei ministeri, più un altro dedicato alle uscite della presidenza del Consiglio. Nel complesso i tagli proposti da Perotti in quei fascicoli avrebbero prodotto oltre due miliardi di risparmi. Non una cifra enorme, ma comunque superiore al miliardo previsto in entrata con i tagli semi-lineari del 3 per cento in programma oggi.
Ma cosa c’è scritto nei dossier che il commissario alla spending review uscente ha presentato a Matteo Renzi e che ora Palazzo Chigi vuole tenere nascosti agli italiani? Anziché concentrarsi sull’acquisto di beni e servizi, di cui si è occupato Yoram Gutgeld (l’ex manager McKinsey che ha curato in prima persona l’accorpamento delle centrali di acquisto), Perotti ha proposto una lunga lista di interventi i quali prevedevano una potatura aggressiva dei costi sostenuti dal Viminale e dalla Farnesina. In particolari tagli alla struttura del ministero dell’Interno. Interventi che, oltre a guastare i rapporti tra il premier e Alfano, inevitabilmente avrebbero scontentato una larga schiera di privilegiati. Ma tagli anche per le sedi consolari che avrebbero provocato la sicura reazione del ministero degli Esteri. Doveva derivare da questi due dicasteri il grosso dei due miliardi previsti in entrata con i tagli individuati dal consulente del presidente del Consiglio, che alla fine è stato costretto ad alzare bandiera bianca.
Più modesto invece il risparmio prodotto dalle misure per la riduzione della spesa previste per i ministeri con un budget minore, come l’Ambiente e l’Istruzione.
Nei dossier del professore della Bocconi non si fa riferimento invece alle spese di alcuni ministeri considerati intoccabili: la Difesa, la Giustizia e la Sanità. Fin dall’inizio gli è stato detto chiaramente che non spettava a un tecnico ridurre le uscite di questi tre dicasteri. Un refrain già sentito quando le forbici le aveva in mano Cottarelli. Renzi, che in più di un’occasione ha ribadito che è compito della politica decidere cosa va tagliato e cosa no, ha lasciato intendere che preferiva occuparsi in prima persona dei ministeri strategici.
Risultato: al netto dei 2 miliardi risparmiati sulla sanità, le risorse derivanti dalla spending review si sono fermate quest’anno a quota 3 miliardi. La maggior parte arriverà dall’accorpamento delle centrali di acquisto della Pubblica amministrazione curato da Gutgeld. Per quanto riguarda Palazzo Chigi, la riduzione dei costi nel 2015 deriva già da un’astuta «partita di giro»: alcune spese della Protezione civile (per 1,4 miliardi) passano di competenza dalla presidenza del Consiglio al ministero dell’Economia. E pensare che ad aprile, in occasione della presentazione del Def in conferenza stampa, Renzi non solo aveva annunciato una riduzione della spesa dello 0,6 per cento del Pil, pari quindi a 10 miliardi di euro, ma aveva anche precisato che vi era lo spazio per ottenere un risparmio di 20 miliardi come promesso a inizio mandato.
Parole, parole, parole. Nel disperato tentativo di far quadrare i conti, i fedelissimi del premier in queste ore lavorano alacremente per tirare fuori dal cilindro quei 3,1 miliardi derivanti da non precisate «misure di efficientamento», una voce che ha trovato spazio all’ultimo minuto nella legge di Stabilità e con cui adesso si cerca di mettere una toppa all’ennesimo flop della revisione della spesa pubblica. Mentre al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan spetta convincere l’Ue che a partire dal 2017 l’azione di contenimento della spesa riprenderà slancio. A Bruxelles, dopo l’ennesima promessa mancata sui tagli, vogliono però che alle parole seguano i fatti.