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 2015  ottobre 17 Sabato calendario

BERNARD-HENRI LÉVI – [IL PIÙ FAMOSO DEI FILOSOFI FRANCESI CI SPIEGA PERCHÉ INTERNET È LA COSA PIÙ DI SINISTRA CHE CI SIA]


L’iPhone di Bernard-Henri Lévy ha una di quelle suonerie che non sai bene se sono cristalli che tintinnano o si frantumano rovinosamente: celestiale o infernale. E il suo rapporto col telefonino è esattamente così, racconta lui. «La cosa che mi disturba è la trappola della reperibilità illimitata, essere raggiungibili, in qualsiasi momento, da chiunque. E detesto gli appel masqué; le chiamate da numero sconosciuto: assomigliano a tentativi di agguato». Pur scusandosi molto, BHL sente il dovere morale di rispondere quasi sempre: potrebbe essere un presidente. Ora Hollande, ma anche Sarkozy ai tempi dell’intervento militare anti-Gheddafi in Libia di cui Lévy fu una specie di testimonial. Il più famoso filosofo francese, scrittore di bestseller, reporter di guerra assolutamente not embedded (fino alle recenti foto su Instagram dal fronte kurdo), filmaker e produttore, nonché l’intellettuale preferito da talk show e rotocalchi nazionali – ha incluso da subito le nuove tecnologie nella sua vita e opere. La commedia Hotel Europa (presentata e interpretata al festival di Spoleto, dove lo incontriamo) è il dialogo tra il filosofo e Google sulle origini della prima guerra mondiale, disturbato dai dlin! del cellulare accanto al pc, dove lui digita il nome dell’ambasciatrice Usa e gli appare il sito di tresche sentimentali tra celebrities Who’s Dated Who?. Ma non è affatto un detrattore del googling. «Il web ci ha regalato l’illusione (il “fantasma hegeliano”, lo definisce tecnicamente lui, ndr) del sapere assoluto, a portata di clic. Ci avevano già provato con l’Encyclopédie di Diderot, eppure credo che quel fantasma stia prendendo corpo solo adesso con Google, non certo con Wikipedia che è una vera schifezza. Non sarà tutto lo scibile umano, ma non è male, e nei prossimi 10 anni migliorerà, se non lo fermano», dice uno per cui la privacy è l’ultima delle preoccupazioni. E da leader dei Nouveaux Philosophes anni 70 (movimento contro il socialismo totalitario sovietico e Marx) è convinto che la new economy sia la cosa più di sinistra che ci potesse capitare. «La politica è ovunque, il brutto è non riconoscerla».

UBER-MONDIALISMO
BHL non sa guidare, come è noto sin dai tempi del suo reportage negli Usa per il New Atlantic che diventò il volume American Vertigo, dove era accompagnato da uno chauffer: «Perché non ho mai avuto il tempo di imparare, a Parigi cammino, anche per distanze lunghissime». E se l’amico scrittore Adam Gopnik ha preso la patente a 59 anni, raccontandolo sul New Yorker, Levy tra i libri e l’eredità del padre imprenditore (l’azienda di legname pregiato venduta a François Pinault) fa intuire di avere un autista. Senonché, proprio nei giorni in cui lui è in Italia, arrivano gli Instagram di Courtney Love «ostaggio dei tassisti» durante una manifestazione anti-Uber, con commento: «Parigi è peggio che Baghdad». E qui il filosofo attacca a tessere le lodi dell’«uberizzazione» del mondo. Ci vede la realizzazione del sogno sessantottino di società senza padroni, o giù di lì. «Non userei la parola guerra per definire lo scontro tra tassisti e Uber, perché guerra è una parola pesante. Piuttosto, mi ricorda di quando gli intellettuali hanno cominciato a parlare di auto-organizzazione della società negli anni 70. Con i rapporti orizzontali tra gente che offre servizi e gente che li richiede in modo da portare a un cortocircuito del sistema. Sta succedendo, un pezzetto dopo l’altro». Gli fai notare che quello della Silicon Valley è pur sempre capitalismo. «Ma i vantaggi superano gli svantaggi e almeno questo terzo capitalismo – dell’innovazione e non solo del profitto o della speculazione che è la sua deriva isterica – vuole cambiare il mondo». Cita l’intellettuale André Malraux: «Sottovalutato. Già lui diceva che gli ingegneri devono innovare, ora è il mantra degli informatici. E anticipò che le guerre d’oggi sarebbero state di religione». Da ebreo impegnato, ma ateo assoluto, Lévy aggiunge: «Meglio il fanatismo del new tech».
C’è poi un’altra cosa che lo diverte della conversione al digitale: adesso a prendere droghe per il cervello sono i tech-workers, per reggere i ritmi della Silicon. E l’iperproduttività è diventata un mito di massa. Lévy stesso è un multitasking prolifico (dai suoi 38 libri a tutto il resto) e ha sempre preso anfetamine per lavorare di più, come hanno fatto scoprire il romanzo semi-autobiografico Niente di grave di sua figlia Justine e le interviste a Paris Match della terza moglie, la cantante Arielle Dombasle (folle passione nata alla Scala di Milano dove lei era in scena con Mozart, matrimonio a Saint-Paul-de-Vence volando via, da Sarajevo invasa, su un air force di Mitterrand: «Non dovevo sposarla?», rispose al giornalista che glielo ricordò. Poi la tradì, ma lei lo riprese). «Prendere sostanze per dare il massimo è una tradizione che va da Michaux a Baudelaire», aveva risposto alle critiche. «Però ho smesso. Dopo tanti anni. Troppo. Troppo rischioso», aggiunge.
Internet, poi, è anche il luogo dove puoi creare e inventarti un business o puoi criticare ferocemente e sentirti realizzato. E dell’essere criticati. BHL ne sa parecchio: dalle torte in faccia ricevute negli anni dall’agitatore belga Noël Godin, ai suoi troll sui social: “Perché BHL è l’uomo più odiato del web”, ha titolato Les Inrockuptibles (risposte: i vestiti, i capelli, il moralismo, la ricchezza, l’ego). «Non sono più su Twitter», aggiunge. «Ho chi lo fa per me», come per i papi o per i marchi: è il @BHL “mantenuto” da Liliane, sua serissima fan docente della Hofstra University che difende, dibatte, retwitta, a nome suo. Da non confondere con il ©JeSuisBhl, suo fake che twitta da «Parigi, Marrakech, tout le Monde». Di cui Lévy non è minimamente dispiaciuto. «Lo disse bene Freud, il narcisismo è la fonte della violenza. E il luogo dove può liberarsi al meglio è il web. I social network non sono per niente sociali, sono individual solo ego»: il lato infernale della rete. «Però ho assistito alla prima manifestazione di protesta via sms, a Vienna, contro Jörg Haider. Un buon uso del digitale c’è. Ma nel momento in cui il social serve a dire: “Io penso”, il pensare è già passato, completamente inutile».
E i politici ai tempi di Twitter? Dei suoi tre “meme”, imitatori involontari per via della camicia bianca, dice: «Mi interessa Renzi da quando l’ho visto mettere insieme Dante, Husserl e Vaclav Havel come non avrei saputo fare io. Per Tsipras, le aspettative sono crollate quando ha minacciato di gettare la Grecia in mano a Putin». Quanto a Piketty, l’«economista rockstar in camicia alla Lévy», lo ha definito il Financial Times: «Non l’ho studiato. Ma l’ultima rockstar è stata David Bowie. Non lo sono i nuovi economisti, tantomeno gli chef». È invece disgustato da Marine Le Pen, che per sputare i suoi veleni si è creata l’account @enimar68 su Twitter, dove 68 sta per l’anno di nascita: «Finirà nella pattumiera della storia».
BHL è editorialista di Huffington Post, Daily Beast e della sua rivista Online La Regle du Jeu: «Che però ha anche una versione cartacea, e una orale la domenica mattina al cinema St. Germain», precisa lui. Che non legge ebook. «Perché la penso come il profeta Ezechiele che parlava di “mangiare il libro”. Quello con la lettura non è un rapporto cerebrale ma fisico. Un ebook assomiglia troppo a uno specchio. Il contatto reale batte tutto, vale per libri e persone».

UOMO DI CONTATTI
L’importanza dei contatti è un’altra regola in stile LinkedIn che lui ha anticipato. Lo scrittore Michel Houellebecq, dopo essersi autodefinito «nichilista, misogino, razzista», descrive provocatoriamente Lévy nel loro libro a due mani Nemici Pubblici: «Un filosofo senza un’idea originale ma con contatti eccellenti». E quest’ultima parte è indiscutibile: «Chiacchiero regolarmente con il mio amico Gopnik, lui mi chiede cosa penso dell’America e io gli chiedo cosa pensa della Francia, ero amico di Christopher Hitchens per cui contava il messaggio: sarebbe stato grandioso su qualsiasi social». Collaborano al suo giornale anche l’emulo Beigbeder e Jonathan Safran Foer. Aggiunge, scandendo le sillabe «il 19enne Baptiste Rossi e il 15enne Lyvann Vatè» di cui non esistono immagini sul web, stile Elena Ferrante. Quindi è attratto o un po’ invidioso delle nuove generazioni? «Io non ho mai ragionato per età. Ci siamo solo io, lei, e Husserl, generazione unica».
Si allontana sul prato di un hotel che poi chiederà di cambiare, radioso 66enne coi pantaloni a vita incredibilmente alta e la camicia (Charvet) incredibilmente aperta, accenna a un sorriso (sua figlia, pur non condividendone tante idee, dice che è un padre marrant, divertente). Vestito allo stesso identico modo, la sua immagine sul fronte curdo ha generato decine di fotomontaggi sul web: ma il fatto che nessuna batta l’improbabile naturalezza dell’originale fa sospettare che abbia vinto lui.