Luca Dini, Vanity Fair 21/10/2015, 21 ottobre 2015
VAN CLEEF
& ARPELS UNO DEI PIÙ IMPORTANTI LABORATORI DI ALTA GIOIELLERIA AL MONDO –
C’era una volta una coppia di innamorati. Si sposarono, e dalla fusione dei loro cognomi nacque il matrimonio tra due famiglie ossessionate da tutto ciò che è leggiadro e raro e prezioso. Generazione dopo generazione, crearono strabilianti fiori di rubini e diamanti, ballerine di zaffiri, fate e libellule e draghi e castelli e fauni e sirene e pavoni e balene di smeraldi e turchesi, perle e coralli, acquamarine e opali. La storia d’amore non è ancora finita.
Parigi, un pomeriggio d’autunno
Due porte blindate sopra il traffico di rue Danielle Casanova, nell’attico luminoso dell’atelier Van Cleef & Arpels, sono appena entrato nel sancta sanctorum di uno dei più importanti laboratori di alta gioielleria al mondo: la stanza del serti mystérieux. Davanti a un signore brizzolato – in questa stanza non si entra senza vent’anni di esperienza – sono disposti in file regolari, a decine e decine sul legno scuro del banco, rubini quadrati dal rosso perfetto, grossi come quadruccini da minestra. Il signore mi mostra il petalo convesso di oro traforato – parte di una grande spilla – in cui li sta montando. Binari mobili in sottilissima lamina, che in sezione hanno la forma di una T, percorrono il petalo. Per riempire totalmente la superficie convessa, ogni rubino deve essere limato in modo da incastrarsi alla perfezione con quello vicino: solo quelli centrali alla fine resteranno davvero quadrati. E nelle sfaccettature del lato inferiore, quello nascosto alla vista, vengono intagliate due scanalature in cui si infileranno i binari. Così le pietre resteranno ferme senza che, da sopra, si veda un singolo puntino d’oro: solo una perfetta, convessa, superficie lastricata di rubini.
È questo il serti mystérieux, la «montatura misteriosa» brevettata negli anni Trenta, e diventata forse il più forte tratto distintivo della maison. Un tratto costoso: ogni pietruzza richiede in media un’ora e mezzo di lavorazione, e ne va perso, tra limature e incidenti di percorso, il 50%. Se ci aggiungete tutto il lavoro che avviene prima e dopo per arrivare al gioiello finito – per raccontarne solo una minuscola parte: l’addetta alla lucidatura, mentre passa e ripassa fettucce di cotone nei minuscoli buchini di una farfalla, mi spiega che ogni pezzo viene lucidato cinque volte – e se considerate che qui si usano solo pietre di qualità altissima, capirete che i pezzi di questo livello prodotti ogni anno sono poche decine, e che non molti di più sono i clienti in grado di comprarseli.
Da questo stesso atelier escono anche i pezzi leggendari, quelli realizzati magari una volta all’anno per sperimentare nuove evoluzioni della tecnica: come l’incredibile fiore della spilla creata anni fa grazie a un’evoluzione del serti mystérieux, con pietre cabochon sopra e sfaccettate sotto, gonfie corolle concentriche sovrapposte dal volume impressionante. Ma da qui, dalle stesse mani e dagli stessi occhi attenti e dalle stesse tecniche di lavorazione, escono anche i gioielli per più comuni mortali, come i quadrifogli di malachite, madreperla, onice corniola e chi più ne ha più ne metta della collezione Alhambra, che è il best seller delle boutique della maison. Prima e mitica, quella della vicinissima place Vendôme. Ultima in ordine di apparizione, sei anni dopo Milano, quella di Roma in via Condotti, che apre il 21 ottobre.
Parigi, la stessa mattina
Nicolas Bos, giovane presidente e ceo di Van Cleef & Arpels – uscito da seri studi di business ma dotato di un evidente spirito creativo che gli ha permesso di brillare da entrambi i lati della barricata, prima in Fondation Cartier (Cartier fa parte dello stesso polo del lusso Richemont) e poi qui –, è seduto davanti a me nella sede di rue du Quatre-Septembre per spiegarmi gli ultimi quindici anni di evoluzione della maison, e la continuità rispetto alla sua storia.
Tutto inizia nel 1896 con quel matrimonio tra Alfred Van Cleef ed Esther Arpels, di ascendenze olandesi e fiamminghe. Dieci anni dopo la boutique a Parigi, e rapido il successo internazionale, specie quando la loro figlia Renée prende le redini creative. Gli anni Trenta sono quelli delle grandi innovazioni: il serti mystérieux, ma anche il collier Passe-Partout di lunghezza regolabile, e la minaudière inventata dal cugino Charles Arpels dopo che ha visto la sua amica, la flamboyante Florence Jay Gould, faticare a infilare in un portasigarette cipria e rossetto. Perché la maison è un affare di famiglia, e ogni cugino apporta il suo contributo. È la passione per i viaggi e l’archeologia di Claude e Pierre Arpels a ispirare, per esempio, le collezioni a tema orientale ed egizio (sono gli anni della scoperta della tomba di Tutankhamon). E sarà l’amore di Louis Arpels per la danza a dar vita alle collezioni di fate e ballerine, e a far nascere, in collaborazione con il leggendario coreografo Balanchine, il balletto Jewels. Tanto importanti quanto i legami familiari sono quelli di amicizia con le muse della casa. La duchessa di Windsor dalla cui idea nasce l’iconico collier Zip, e poi Marlene Dietrich, Grace Kelly, Barbara Hutton, Maria Callas e altre ancora.
Una tradizione di ispirazioni incrociate e di contaminazioni e di fantasia che, dopo la rigidità creativa imperante nel settore negli anni Ottanta e Novanta – riassumibile nel motto «chi fa gioielli pensi solo ai gioielli, e li faccia solo con diamanti rubini zaffiri e smeraldi» –, Monsieur Bos ha voluto far rivivere.
Da uno studio di squadra sulle splendide fate delle spille dell’archivio è nata per esempio nel 2003 la prima collezione di alta gioielleria, una ricerca alle origini della rappresentazione delle fate, attraverso la pittura simbolista e romantica, fino al Sogno di una notte di mezza estate, che è l’atto di nascita delle fate come le conosciamo, e che è stato ricreato in tutti i suoi elementi, compreso il folletto Puck e il re Oberon. E da quel mondo tutto in verde e oro l’idea di inventarne un altro in tutti i blu dello zaffiro del turchese e dell’opale e dell’acquamarina, dedicato ad Atlantide. E da quel mondo sottomarino lo spunto del Capitano Nemo, e la decisione di accantonarlo per un’altra futura collezione ispirata ai fantastici viaggi di Verne. E dall’incontro con Agnès Varda, impegnata nel restauro del film culto di suo marito Jacques Demy, La favolosa storia di Pelle d’asino, l’idea di ricavarne un’altra strabiliante «fiaba in pietre».
Non solo questo. Perché il punto di partenza possono essere, invece che la storia, gli altri due cardini della filosofia della maison: qualità delle gemme – la linea Pierres de Caractère, costruita attorno a pietre eccezionali – e qualità della lavorazione – Trésors Révélés, 11 progetti trovati negli archivi e mai prima realizzati per le difficoltà tecniche che presentavano, come appunto il fiore di cabochon di cui sopra. L’importante è che, parola di Nicolas Bos, «possiamo permetterci di non scendere a compromessi, e questo è il lusso più grande: non essere schiavi dei calendari e dei lanci, dedicare tre anni in media a ogni linea ma poterne impiegare anche uno in più se mancano le pietre giuste, poter spendere più tempo e più materia prima su un pezzo per renderlo ancora migliore e avere una clientela che capisce la differenza ed è disposta a pagarla. E in generale rivolgersi a persone che apprezzano e vogliono un gioiello perfetto anche dove non si vede, anche sul retro, anche dove si appoggia sulla pelle o su un vestito, che vogliono il gioiello più per sé che per gli altri».
Insomma, vada altrove chi cerca il massimo dello sberluccicume per il suo budget: vale, dice Monsieur Bos, anche per le linee più accessibili. E infine, prendete nota mariti: «Meglio una bellissima madreperla che un diamante mediocre».
Parigi, poco più tardi
Su rue Danielle Casanova, sotto l’atelier, c’è l’École Van Cleef & Arpels. Una serie di brevi corsi di introduzione al mondo della gioielleria e dell’orologeria – da «Storia del gioiello» a «Modello in cera e montatura» a «Riconoscere le pietre» – che la maison porta anche in giro per il mondo, che sono aperti a chiunque, dai giornalisti agli appassionati, e che Nicolas Bos ha voluto «per favorire la conoscenza di tutti i gioielli, non solo dei nostri, perché più sai, più capisci e più apprezzi».
Nelle stanze, luminose e silenziosissime, allievi in camice bianco fissano assorti schizzi, modellini e attrezzi. Ho deciso: uno di questi giorni mi iscrivo anche io. Se mi applico, il mio primo serti mystérieux a ottant’anni lo faccio.