Luca Pagni, Affari&Finanza – la Repubblica 19/10/2015, 19 ottobre 2015
IL LENTO DECLINO DEL CARBONE CINA E USA LO RIDUCONO GAS E VENTO PIÙ CONVENIENTI
La Cina l’ha innalzato nel giro di un decennio al rango di “King Coal”, il combustibile più utilizzato al mondo nella produzione di energia. Con un picco toccato nel 2011, quando il carbone con il suo utilizzo è arrivato a coprire il 55 per cento dell’offerta globale di elettricità. E sempre dalla Cina è arrivata la battuta di arresto che ha fatto precipitare il prezzo della materia prima, con tutta la sua scia di fallimenti, chiusure di miniere e crollo dei titoli in Borsa dei grandi colossi delle commodities. E sempre dalla Cina sono arrivate una serie di misure per il rispetto dell’ambiente che avranno il momento di massima esposizione mediatica con il prossimo vertice sul clima organizzato a Parigi dalle Nazione Unite a fine novembre. Con il più che probabile annuncio da parte dei Grandi della terra per la limitazione delle emissioni di Co2, con il carbone che sarà indicato come il colpevole numero uno. Intendiamoci: ci vorrà ancora tempo prima che venga piantato l’ultimo chiodo sulla bara del minerale che più di altri è sinonimo di rivoluzione industriale. Ma gli esperti sottolineano come sarà sempre più difficile invertire la rotta. Una discesa iniziata proprio nel paese suo massimo utilizzatore. Da inizio 2015, la Cina ha ridotto le importazioni del 37%. Ma, fatto ancora più significativo, ha ridotto pure la produzione interna, calata complessivamente del 6%. Nonostante ciò, rimane di gran lunga il primo produttore nonché consumatore al mondo di carbone, visto che garantisce ancora il 65% dei consumi elettrici. Negli stessi mesi in cui Pechino toglieva il piede dall’acceleratore, negli Stati Uniti il presidente Barack Obama ha innestato la retromarcia. Il suo “Clear Power Plan” prevede che il paese riduca entro il 2030 le emissioni di Co2 del 32% rispetto ai valori del 2005. E poco importa se gli esperti fanno notare come l’anno non sia stato scelto a caso, poco prima che iniziasse la rivoluzione dello shale gas che ha contribuito non poco ad abbassare le emissioni negli anni successivi. Così, nello scorso mese di aprile- per la prima volta dal 1973 gli Usa hanno prodotto più energia dal gas rispetto al carbone, per quanto il mese successivo “King Coal” si sia assiso nuovamente al primo posto del podio. Ma non durerà: il declino, iniziato a partire dal 2007, non si ferma. In quella data, il carbone copriva oltre la metà del fabbisogno complessivo di energia, mentre alla fine del 2015 la quota sarà scesa al 36%, dal 39% di dodici mesi fa. Il problema, per i proprietari delle miniere, è che Cina e Stati Uniti messi insieme consumano più carbone del resto del mondo. Inevitabile, pertanto la caduta dei prezzi: il carbone “termico” (utilizzato nelle centrali elettriche) sui mercati europei è ormai scambiato ai minimi degli ultimi 11 anni, in calo di quasi il 15 per cento da inizio 2015: viene pagato sui 55 dollari la tonnellata, quando nel 2011 era a 130 dollari e nel 2008 si era spinto oltre i 200 dollari. Lo stesso vale per il carbone “coke” utilizzato negli impianti siderurgici: dai 330 dollari del 2011 ora siamo scesi attorno ai 90 dollari. Del resto, secondo l’agenzia Moody’s, con gli attuali prezzi, la metà del carbone mondiale non vale nemmeno la pena estrarlo. Negli Stati Uniti, utilizzare il metano è ormai più vantaggioso; mentre entro il 2016 lo diventerà anche produzione da pale eoliche, grazie al progressivo calo dei costi per megawatt. Tra gli avversari del carbone, gli ambientalisti sono ormai in buona compagnia. Nelle istituzioni del nord Europa si moltiplicano le iniziative per mettere la parola fine al suo utilizzo. Il fondo sovrano della Norvegia, il più grande del mondo con i suoi 900 miliardi di dollari gestiti, ha deciso che dal prossimo anno uscirà dal capitale delle società che dal carbone ricavano il 30% del fatturato o dell’energia prodotta. Il governo della Svezia ha appena annunciato la rinuncia totale al carbone, garantendo che la sua energia sarà rinnovabile al 100 per cento entro il 2035. Del carbone in difficoltà cercano di approfittare persino quelle società che, in verità, dovrebbero a loro volta sedere sul banco degli imputati. Invece, proprio in vista della conferenza di Parigi, si è creata la “Gas&Oil Climate Iniziative”, sigla dietro cui si trovano otto big nella produzione di metano e petrolio, con l’italiana Eni alleata di Bp, Shell, Bg, Total, Saudi Aramco, Pemex e Sinopec: assieme rappresentano un sesto della produzione mondiale e presenteranno a loro volta un documento per «evolvere verso un’energia a minor contenuto di carbonio». Le difficoltà dei produttori si riflettono perfettamente nei corsi di Borsa. I titoli del colosso britannico Glencore, il maggior esportatore mondiale di carbone dopo la fusione con Xstrata, sono i peggiori dall’inizio dell’anno sul listino di Londra: dalla quotazione nel 2011 ha perso tre quarti del suo valore, mentre il calo dalla fine dell’anno scorso è stato di quasi il 60 per cento. Così, c’è chi specula considerando che a questi livelli un rimbalzo sarà inevitabile visto che ci vorrà ancora qualche stagione prima che tutte le miniere vengano chiuse. Un qualcuno che risponde al nome di George Soros: il finanziere – secondo quanto riporta il quotidiano Guardian – negli ultimi mesi ha investito oltre 200 milioni di dollari in aziende del settore. E pensare che Soros è uno dei più grandi finanziatori di associazioni che si battono contro il cambiamento climatico. Ma si sa: pecunia non olet, nemmeno quando sa di carbone.
Luca Pagni, Affari&Finanza – la Repubblica 19/10/2015