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 2015  ottobre 19 Lunedì calendario

PIAZZA AFFARI, TORNA LO STATO PADRONE: LA MANO PUBBLICA SU UN TERZO DELL’INDICE

Lo Stato padrone c’è ancora e sembra essersi trasferito in Borsa. Infatti, ben un terzo del listino delle 40 maggiori aziende italiane quotate a Milano è rappresentato da società controllate o fortemente partecipate da enti pubblici. A2a, Ansaldo, Enel, Green Power, Eni, Finmeccanica, Saipem, Snam, e Terna rappresentano il 30,61% del Ftse Mib. E la situazione non è destinata a migliorare, anzi alla revisione dell’indice del prossimo 2 dicembre, Pirelli dovrebbe uscire per essere sostituita da Poste Italiane, una matricola che dovrebbe rappresentare un altro 1,5% dell’indice tricolore. Per l’ad di Borsa Italiana, Raffaele Jerusalmi, "è un trend diffuso in Europa".
Si chiama Piazza Affari, ma sembra Piazza Colonna, quella su cui affaccia Palazzo Chigi a Roma. Un terzo del listino delle 40 maggiori aziende italiane quotate a Milano è rappresentato da società controllate o fortemente partecipate da enti pubblici. A2a, Ansaldo, Enel, Enel Green Power, Eni, Finmeccanica, Saipem, Snam, e Terna rappresentano il 30,61% del Ftse Mib. E la situazione non è destinata a migliorare, anzi alla revisione dell’indice del prossimo 2 dicembre, Pirelli dovrebbe uscire per essere sostituita da Poste Italiane, una matricola che dovrebbe rappresentare un altro 1,5% dell’indice tricolore. "Insieme a Giuliano Amato ho scritto la legge 35 che dava il via alle privatizzazioni – ricorda Giovanni Tamburi, che con la sua Tip è socio di tante aziende quotate come Moncler, o che pensano all’Ipo come Eataly – e direi che gli enti locali che controllano Acea, A2A, Hera e le ex municipalizzate sono peggio di quelli centrali. Resta che è un peccato che molte belle aziende italiane non vedano nel mercato dei capitali il naturale sbocco per crescere".
Sono tante le grandi industrie nei settori in cui l’Italia è un’eccellenza, come la meccanica, l’alimentare, la moda, che continuano a restare gruppi padronali. "Penso a Ferrero, Barilla, Esselunga, Beretta, Armani, Zegna – ricorda Carlo Gentili di Nextam Partners – è un peccato e una conferma che questo più che un grande mercato liquido, è una pozzanghera per pesci piccoli. Quanto alle privatizzazioni, sono favorevole, ma nel caso di Poste direi che è un servizio pubblico che rimane tale, diventa un’azienda più trasparente e più moderna, ma non la definirei privatizzata...". La colpa, dicono gli esperti, sta nella ricchezza e nel forte individualismo che caratterizza gli imprenditori italiani: non a caso l’economia tricolore è fatta di Pmi.
"Diverse società del made in Italy avrebbero i requisiti per sbarcare sul mercato – spiega Marco Belletti, capo della divisione Retail e Lusso del Corporate Finance di Société Genéralé – ma la maggior parte di queste, soprattutto quelle di grandi dimensioni, non ne sente la necessità in quanto non ha bisogno di ingenti capitali, se deve ottenere un finanziamento riesce ad averlo a tassi agevolati, sono già gruppi internazionali e non hanno necessariamente bisogno di gestire passaggi generazionali attraverso lo sbarco in Borsa".
Ma quello che di solito spaventa gli investitori sono le ingerenze dei fondi sulla governance o sui risultati della società che spesso, essendo a cadenza trimestrale, creano stress immotivati nell’arco degli investimenti che vengono fatti con scadenze di medio termine. Resta che in Francia nel lusso Kering e Lvmh sono riuscite a diventare grandi anche grazie all’acquisizione di marchi italiani, mentre Hermes è diventato un colosso solo grazie alla crescita organica.
"Ma avere solo grandi aziende può essere un difetto – fa notare Gianni Bizzarri ad di Banca Ifigest – in Italia abbiamo 6 mila società che fatturano più di 50 milioni di euro, ma solo 220 di queste sono quotate. In Francia dove il fatturato del settore manifatturiero è simile se non inferiore al nostro, la Borsa capitalizza il triplo. In Italia questo settore rappresenta solo il 12,5% della capitalizzazione di Piazza Affari. Ma avere solo grandi aziende, senza le medie, può essere un freno alla crescita e anche alla dinamicità dell’industria".
Se però nell’industria gli italiani hanno creato dell’eccellenza, nei servizi in pochi sono riusciti a diventare grandi. L’esempio più eclatante è quello delle tlc che vale per l’ex monopolista Telecom Italia, l’unica delle grandi aziende di stato totalmente privata, e per tutte le sue rivali. Colpa, dicono gli esperti della classe dei "vecchi" imprenditori italiani, che rende le aziende tricolori allergiche al mercato dei capitali. "Perché l’individualismo, nel bene e nel male è una delle caratteristiche dell’Italia – spiega Gentili –: gli imprenditori preferiscono avere il 100% di un’azienda piccola che il 3% di un colosso tremila volte più grande". Anche perché se le aziende sane non vanno in Borsa, finisce che Piazza Affari diventa il luogo per quotare quelle società che hanno alcuni problemi da risolvere.
Come in tutte le regole ci sono le eccezioni. "Sono sicuro che nel medio termine l’esempio di Brunello Cucinelli farà da traino ad altre realtà – osserva Tamburi – ma ci vuole tempo, ci sarà bisogno di un ricambio generazionale perché la quotazione venga vista come un’opportunità e non come un vincolo". Gli esperti fanno poi notare, come poche delle società quotate all’Mta negli ultimi vent’anni sia, riuscita a diventare grande. Con l’unica eccezione di Yoox, le medie aziende italiane sono rimaste tali.
"La quotazione si è dimostrata una storia di successo per le aziende italiane del lusso e per alcuni campioni nazionali, penso a Campari e Luxottica, ha rappresentato anche un valido strumento per continuare a crescere tramite acquisizioni – fa notare Belletti – in futuro ci attendiamo lo sbarco in Borsa di altre società del lusso, per lo più tra le aziende di medie dimensioni, e quelle partecipate da fondi di private equity come Versace o Cavalli". Qualcuno fa notare poi, che lo stesso Aim, ha fallito nella sua funzione di acceleratore di aziende, anzi essendo poco liquido e non sufficientemente trasparente fatica ad attrarre gli investimenti dei fondi. Altri invece, rilevano come lo strumento della Spac sia un modo virtuoso per accelerare il processo di quotazione di tante belle aziende tricolori. "La Spac è un meccanismo che funziona – ricorda Bizzari – è il modo di trasferire il denaro di investitori in aziende automaticamente quotate. C’è un grande interesse nel mondo per l’Italia e se il flusso di capitali continua a rimanere alto, speriamo di vedere tante nuove matricole, penso a Eataly e Tecnogym che andranno ad affiancarsi a Poste, Enav, Ferrovie".
Poi però quando alcune eccellenze tricolori, come Indesit Company, Pirelli, Italcementi, vengono rilevati da gruppi esteri. Oltre l’individualismo emerge l’orgoglio tricolore, e spiace a tutti vedere che tecnologie, know how e marchi italiani, rischiano di perdersi all’estero o all’interno di aziende troppo grandi e complesse per valorizzarli. "Mi angoscia da morire vedere belle aziende italiane finire nel radar di colossi stranieri - aggiunge Tamburi - noi siamo l’unico gruppo di famiglie italiane che investe su belle realtà che necessitano di capitali. Abbiamo investito 2,25 miliardi in gruppi tricolori, per avere un canale che dalle famiglie ricche vada alle aziende per mantenere in Italia gruppi come Prysmian. Va detto che anche il sistema bancario, il mondo politico e Confindustria hanno fatto ben poco per difendere alcune belle realtà nazionali".
Sara Bennewitz, Affari&Finanza – la Repubblica 19/10/2015