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 2015  ottobre 20 Martedì calendario

IL CROLLO DEL BARILE NON È FIGLIO DI UN COMPLOTTO SAUDITA


1. Il 12 MAGGIO 2014, Ali Al-Na‘imi, Ministro
del Petrolio dell’Arabia Saudita, dichiarò alla Reuters: «Cento dollari al barile è un prezzo onesto e buono per tutti – consumatori, produttori, aziende petrolifere». Erano giorni in cui il prezzo del barile (Brent) toccava i 110 dollari, permettendo alla maggior parte dei paesi produttori di guardare al 2015 con grande ottimismo: con quei prezzi si sarebbe potuto far fronte alle pur crescenti esigenze di bilancio pubblico e in più mettere da parte qualche cosa.
C’è la possibilità che una persona indovini sempre l’andamento del prezzo del petrolio, oppure che tutti lo indovinino una volta, ma non è mai successo che tutti lo indovinino sempre. Nel secondo semestre del 2014 è successo qualche cosa di ancora più strano: nessuno lo ha indovinato nemmeno una volta. Nessuno insomma, o quasi, avrebbe immaginato che nello spazio di pochi mesi il Brent sarebbe crollato da 115 a 48 dollari al barile in assenza di un evento particolarmente drammatico.
In molti si sarebbero aspettati un intervento in sede Opec dell’Arabia Saudita, paese che, a giusto titolo, è stato definito la banca centrale del petrolio. Se è vero infatti che l’Opec ha perso molta importanza dal momento che il 70% della produzione mondiale di idrocarburi è ormai in mano a paesi che non vi aderiscono, è altresì evidente che l’Arabia Saudita gioca ancora un ruolo di primissimo piano, se non unico, nello scenario energetico mondiale. È infatti il paese con la quantità di riserve provate di greggio più importante del mondo, quello con le scorte più rilevanti nonché il maggior esportatore.
L’Arabia Saudita può contare su circa 265 miliardi di barili di petrolio, ne produce ogni giorno 10 milioni e ne esporta poco più di 6 milioni, contribuendo non poco al fabbisogno mondiale, che è dell’ordine dei 90 milioni al giorno. Non è tutto: le scorte di cui dispone, le più importanti del mondo, sono un formidabile strumento per mitigare crisi e calmierare prezzi. Grazie ad esse Riyad ha giocato un ruolo importante nelle settimane immediatamente successive all’11 settembre 2001 e durante i primi mesi della rivoluzione in Libia, iniziata il 17 febbraio 2011. Di tanto in tanto, gli sceicchi non hanno esitato a usare le scorte per ridurre l’appetito di altri Stati produttori. È successo nel 1979 e di nuovo nel 1981, quando i sauditi hanno rilasciato parte delle proprie riserve facendo precipitare il prezzo del petrolio. Oggi si ritiene che le scorte detenute da tutti i paesi Opec siano di circa 3 miliardi di barili, detenuti per il 98% dall’Arabia Saudita. Naturalmente, nel momento in cui i sauditi decidessero di ridurre le scorte, anche senza diminuire le vendite, i prezzi aumenterebbero.
Eppure, di fronte al repentino calo del prezzo del greggio nella seconda metà del 2014 l’Arabia Saudita non si è mossa. Sono due le domande che questa strategia, inaspettata dai più, solleva. La prima: perché l’Arabia Saudita non è intervenuta. Ragioni geopolitiche? Esigenze commerciali? La seconda è relativa alle implicazioni geopolitiche ed economiche in caso di perduranti prezzi depressi, almeno se comparati ai picchi del 2014.

2. Non pochi osservatori hanno visto dietro la decisione dell’Arabia Saudita un movente geopolitico. Un basso prezzo del petrolio non è certo gradito alla Russia, all’Iran e ai produttori (e soprattutto agli investitori) statunitensi operanti nei settori dello shale oil e dello shale gas. Altri invece hanno voluto leggere nella scelta di Riyad ragioni meramente commerciali.
Certo, non vi è settore al mondo nel quale aspetti geopolitici ed economici siano così intimamente legati come in quello degli idrocarburi. Dunque si tratta forse di una falsa dicotomia. Possiamo però cercare di capire quali siano le motivazioni principali, anche se sicuramente non uniche, della postura saudita.
I russi paiono particolarmente inclini a credere, almeno stando alle dichiarazioni pubbliche, a una strategia geopolitica dell’Arabia Saudita. Nikolaj Patrušev, ex direttore dell’Fsb (servizi segreti russi), ora segretario del Consiglio di sicurezza nazionale, ha accusato l’Arabia Saudita di spionaggio tramite la Mezzaluna saudita (l’equivalente islamico della Croce Rossa) e altre organizzazioni non governative. E di aver contribuito alla destabilizzazione, fra il 2003 e il 2005, di Georgia, Ucraina e Kirghizistan. L’Istituto russo per gli studi strategici, considerato molto vicino all’intelligence del Cremlino, ha di recente pubblicato uno studio nel quale si afferma che l’Arabia Saudita sta deliberatamente tenendo basso il prezzo del petrolio per danneggiare l’economia russa. Le stesse accuse sono state sollevate da Rosneft’, compagnia statale russa che produce petrolio e gas, che parla di «manipolazione politica» del prezzo del petrolio. Manipolazione che potrebbe essere una ritorsione per il supporto che la Russia sta dando al regime filo-iraniano di al-Asad in Siria.
Vi è poi la questione iraniana. Di recente Thomas Friedman, dalle colonne del New York Times, ha avallato l’idea che l’assenza di reazione dell’Arabia Saudita sia stata decisa per danneggiare e punire sia la Russia sia l’Iran. In effetti, Teheran ha disperato bisogno di vendere il proprio greggio a un prezzo molto più alto degli attuali 65 dollari al barile, avendo un budget statale che raggiunge il pareggio con il greggio a quota 140 dollari, stante l’impatto delle sanzioni internazionali. L’Arabia Saudita punirebbe dunque l’Iran per il suo appoggio al regime siriano, per il ruolo che ha giocato e gioca tuttora in Iraq, per il sostegno alla rivolta huti nello Yemen. Per tacere del crescente protagonismo nello scenario mediorientale cui l’Iran è destinato qualora venisse concluso il negoziato sul nucleare e cadessero le sanzioni internazionali.
La tesi dell’uso geopolitico del greggio nei confronti dell’Iran appare dunque molto verosimile. Ma qualche cosa non quadra perfettamente. In passato, le autorità iraniane hanno cercato a più riprese di stabilire contatti con l’Arabia Saudita anche attraverso la mediazione di altri paesi del Golfo, come l’Oman e il Kuwait, paesi arabi come l’Algeria, o potenze regionali come il Pakistan. Richieste che sono sempre state disattese. Il 13 maggio del 2014 però, l’allora ministro degli Esteri saudita Sa‘ud al-Faysal ha confermato di aver invitato il suo omologo iraniano a Ryad in occasione del primo Forum economico e di cooperazione araba con gli Stati dell’Asia centrale e dell’Azerbaigian. Interessante la dichiarazione del principe Sa‘ud al-Faysal a margine dell’invito: «Le crisi regionali hanno dato alle superpotenze l’occasione di intervenire nei nostri affari. L’Iran è un nostro vicino e noi cerchiamo di risolvere ogni disputa con esso». Come dire: non vogliamo più interferenze esterne nella regione, facciamo da noi.
Un’altra spiegazione geopolitica vede l’atteggiamento dell’Arabia Saudita come diretto a minare le basi economiche della produzione di shale gas e shale oil negli Stati Uniti, paese tra l’altro governato da un’amministrazione colpevole di volere tentare il tutto per tutto per chiudere il negoziato nucleare con l’Iran. Pare che lo storico accordo del 1945 «petrolio in cambio di sicurezza» tra Arabia Saudita e Stati Uniti si stia a poco a poco esaurendo. Gli Usa stanno diventando autosufficienti dal punto di vista energetico e l’Arabia Saudita da quello militare. Nell’aprile 2014 Riyad ha organizzato la più grande esercitazione militare della propria storia, mobilitando più di 130 mila soldati ed esibendo per la prima volta i missili balistici cinesi Css-2 capaci di portare testate nucleari. Vi è chi afferma che l’Arabia Saudita non creda più nell’aiuto militare degli Stati Uniti in caso di crisi nella regione, anche in considerazione di quanto è successo all’Ucraina, paese che aveva negoziato e ottenuto la protezione dell’Occidente a fronte della consegna delle armi nucleari di cui disponeva in seguito alla disintegrazione dell’Urss.
È verosimile che le relazioni tra Washington e Riyad non siano proprio all’apice, ma è molto improbabile che l’Arabia Saudita usi il petrolio come arma. La famiglia Sa‘ud sa bene che non sono poche le produzioni di shale oil e gas americano che sono sostenibili anche con un greggio a 60 dollari al barile.
I calcoli dell’Arabia Saudita sono forse diversi. Per trovare la spiegazione del suo atteggiamento bisogna partire da due fatti: Riyad non ha determinato la caduta dei prezzi del petrolio e non ha agito per rallentarla.
Il barile ha cominciato a scendere drammaticamente nel settembre 2014. In quelle settimane i sauditi producevano la stessa quantità di greggio rispetto al 2013 (circa 9,6 milioni di b/g), quando i prezzi sfioravano i 100 dollari al barile. Nel contempo, gli Stati Uniti hanno aumentato la produzione di circa 1 milione di barili al giorno, dai 7,45 del 2013 agli 8,9 del settembre 2014. La discesa è stata determinata da questo aumento, salvo poi essere amplificata dalla previsione che ben presto si sarebbe determinato un eccesso di offerta (oversupply). In mercati caratterizzati da un grado più o meno elevato di fenomeni speculativi, le oscillazioni sono sempre esagerate. A ciò si aggiunga che malgrado nei paesi arabi e del Golfo non manchino tensioni geopolitiche e imperversino guerriglie, la produzione non sembra soffrirne in modo sensibile. Per non parlare delle dichiarazioni di alcuni esponenti iraniani che si sono detti pronti a raddoppiare la produzione di greggio, e dunque le esportazioni, nel momento in cui le sanzioni internazionali venissero meno.
Veniamo allora al secondo aspetto. Cosa avrebbero potuto fare i sauditi?
Ben poco, nell’immediato. Certo, negli anni Settanta una parola del ministro del Petrolio saudita aveva gli stessi effetti sui mercati energetici che oggi ha sui mercati finanziari una dichiarazione di Mario Draghi o di Janet Yellen, presidente della Federal Reserve. Ma i sauditi ben ricordano la lezione della metà degli anni Ottanta, quando l’Opec decise di ridurre drasticamente la produzione nel tentativo di abbassare i prezzi. L’Arabia Saudita tagliò la produzione di due terzi ma nessun altro produttore la seguì, sicché Riyad si svenò azzerando quasi completamente le proprie riserve. Nel 1986, l’Arabia Saudita decise che era tempo di cambiare rotta. Triplicò la produzione per riacquistare le quote di mercato perse, con il risultato però che il prezzo del barile precipitò a meno di 10 dollari.
Da allora la strategia dei sauditi è cambiata e riecheggia nelle parole pronunciate nel 2013 dal presidente della Saudi Aramco: «Io non credo che i produttori, siano o no membri dell’Opec, debbano tentare di influenzare l’andamento dei prezzi petroliferi, che devono essere invece pilotati dal mercato. Né l’Arabia Saudita prenderà in considerazione di tagliare la produzione in risposta all’aumento dell’offerta da parte di altri paesi Opec come Libia e Angola».
Dunque non vi è nessuna geopolitica nella decisione saudita? Probabilmente c’è. Ma forse non come atto ostile nei confronti della Russia e dell’Iran. Semmai, una strategia per riaffermare il ruolo fondamentale che l’Arabia Saudita svolge sulla scena internazionale, così intimamente e inestricabilmente legata alle partite dell’energia. Paradossalmente, questa situazione potrebbe allentare le tensioni geopolitiche dal momento che Iran e Russia hanno tutto l’interesse a sedersi al tavolo con il loro omologo energetico.

3. Queste considerazioni suggeriscono qualche riflessione sull’impatto del calo del prezzo del petrolio sui paesi produttori. Nell’ottobre 2014, in un editoriale sul Financial Times, Ed Morse, uno dei più importanti esperti di energia degli Stati Uniti, scrisse: «Con il Brent a 80 dollari, i paesi Opec perderebbero circa 200 miliardi di dollari sui recenti incassi da un trilione. Ciò colpirebbe non solo la loro capacità di incassare abbastanza in modo da sostenere i bilanci in espansione resi necessari dalle primavere arabe, ma anche la possibilità di servire i loro debiti senza finire in bancarotta».
Scenario catastrofico, al quale si aggiunge la previsione di chi pensa che se i governi dei paesi del Golfo e del Nordafrica non saranno in grado di garantirsi la pace sociale attraverso il pagamento degli stipendi e dei sussidi alla benzina e ad alcuni generi alimentari, andranno incontro a un periodo di gravi turbolenze.
È vero che tutti i paesi produttori, dall’Arabia Saudita al Qatar, dall’Algeria alla Libia, devono affrontare, chi più chi meno, un dilemma di fondo. Le aspettative della gente crescono, così come i consumi interni di petrolio e gas. Le aspettative hanno un impatto sul bilancio statale dal momento che implicano maggiori investimenti per infrastrutture e servizi pubblici migliori, come pure la crescita dei consumi, in quanto sovvenzionati. Ma maggiore consumo vuol dire anche minore capacità di esportare, dunque minore introito dalle vendite sui mercati internazionali. Una spirale potenzialmente fatale per alcuni Stati. Ciò è particolarmente vero per i paesi del Nordafrica, molto meno per quelli del Golfo, anche se il disagio economico e sociale non sempre suscita un effetto politico. In uno studio apparso alcuni anni fa negli Stati Uniti si evidenziava come non vi sia correlazione tra prezzi petroliferi bassi e instabilità politica. E se ci pensiamo bene la «primavera araba», come usavamo chiamarla, è cominciata in un periodo di alti prezzi del greggio. Certo è che i governi della regione sono chiamati a fare di più con meno.
In questo contesto, l’Arabia Saudita appare in condizioni relativamente migliori rispetto ad altri paesi, anche se alcuni esperti predicono che tra 2015 e 2019 gli investimenti vi saranno ridotti dai 175 miliardi di dollari preventivati a poco meno di 130 miliardi. Nel 2015 l’Arabia Saudita avrà un deficit di circa 39 miliardi. Ma la monarchia dei Sa‘ud dispone di riserve finanziarie (quasi 700 miliardi) che le consentono di andare avanti con questo ritmo per i prossimi 19 anni. L’Iran ha invece una prospettiva di 12 anni, per effetto di un deficit di 10 miliardi a fronte di riserve per 127 miliardi. L’Iraq per soli 3 anni e mezzo, avendo un deficit di circa 18 miliardi e disponendo in cassa di 69 miliardi.
Proprio per prevenire o comunque circoscrivere l’esplodere del disagio sociale, nel febbraio di quest’anno il nuovo re saudita ha pagato due mesi extra di stipendio a tutti gli impiegati statali, oltre a varare sussidi che sono costati al bilancio statale circa 30 miliardi di dollari.
Vi sono poi altri fattori che garantiscono ai sauditi una posizione di relativa serenità e di privilegio anche in uno scenario durevole di bassi prezzi: a) costi di estrazione del greggio estremamente bassi; b) un’industria petrolifera sofisticata ed efficiente, a cominciare dalla capofila, la società governativa Saudi Aramco; c) un greggio di grande qualità; d) la possibilità di modulare la spesa pubblica in funzione dei proventi delle vendite di greggio.
Nessun altro Stato produttore condivide tutti questi fattori. Tutto lascia quindi pensare che l’Arabia Saudita riuscirà meglio degli altri a muoversi nel dinamico scenario attuale, rafforzando il proprio ruolo geopolitico nella regione e nel mondo.
Ne possiamo concludere che anche se le motivazioni geopolitiche non sono state il detonatore della discesa del petrolio, le conseguenze che sta provocando sono molteplici e importanti.