Antonio Cianciullo, DLui, la Repubblica 17/10/2015, 17 ottobre 2015
QUANTA ACQUA CI RIMANE?
Più 55% entro il 2050. La domanda di acqua è destinata a impennarsi disegnando a metà secolo uno scenario da incubo: nel 2030 avremo un deficit idrico del 40 per cento. Un mondo assetato, percorso da guerre per il controllo delle sorgenti, con due terzi dei 9 miliardi di esseri umani che popoleranno il pianeta confinati in città. È il quadro che emerge dal rapporto 2015 dell’Onu L’acqua per un mondo sostenibile preparato dal World Water Assessment Programme (Wwap) dell’Unesco.
Già oggi 1,2 miliardi di persone vivono in zone in cui si registra una scarsa presenza d’acqua. E l’utilizzo di questa risorsa essenziale aumenta a un tasso due volte più veloce di quello della popolazione. Il risultato di questa doppia pressione – gli 80 milioni di esseri umani che si aggiungono ogni anno al bilancio e l’aumento dei consumi pro capite – è che il 20% delle falde acquifere mondiali viene sovrasfruttato, provocando sulle coste fenomeni di subsidenza (il progressivo abbassamento verticale del fondo di un bacino) e la risalita del cono di acqua salina.
È una situazione che richiederebbe una grande capacità di governance a livello globale, ma l’accordo non si trova neppure tra vicini: «Dei 263 bacini transfrontalieri esistenti al mondo, 158 sono sprovvisti di un quadro di gestione cooperativo e meno del 20% degli accordi stipulati è multilaterale», avverte il rapporto.
La profezia delle guerre per l’acqua che secondo molti esperti segneranno il XXI secolo, rischia di avverarsi. In tutte le aree critiche le tensioni aumentano. La California, nonostante il Pil da settima potenza industriale del pianeta, si sta arrendendo di fronte alla pressione della peggiore siccità della sua storia. I laghi si prosciugano, mentre città e campi si contendono la scarsa acqua disponibile. Dodici milioni di alberi sono morti e l’aridità minaccia i parchi di Yellowstone e Yosemite. I consumi idrici sono stati tagliati di oltre un quarto e i californiani hanno imparato la tecnica della doccia ultrarapida. Ma non basta.
La sete ha rovesciato il senso comune: non sono più le utilities a vendere l’acqua agli agricoltori ma sono gli agricoltori a venderli alle utilities. Chi pensa di non farcela a sostenere il peso economico dell’irrigazione rinuncia in partenza: vende la poca acqua di cui dispone, salta il raccolto e spera che la corsa della sete si allenti. Ma chi coltiva frutteti non può permettersi di far morire la pianta. E per dissetarla ci vuole più acqua di quella disponibile (una singola mandorla richiede 3 litri di acqua per arrivare a maturazione). Anche nell’Australia meridionale la siccità sta trasformando i laghi in saline. Mentre all’altro estremo dello sviluppo i problemi assumono la dimensione di un’ecatombe: entro il 2050 l’Africa subsahariana conterà 2,4 miliardi di persone che pagheranno un prezzo sempre più alto alla mancanza di acqua. I flussi di capitale che dalla Cina muovono le grandi opere per dissetare i campi che Pechino controlla in Etiopia e in Sudan fanno crescere le tensioni con l’Egitto per il controllo del Nilo. E anche i paesi arabi più ricchi continuano a comprare terre in Africa per ottenere il cibo che non riescono a produrre in casa.
Il World Resource Institute calcola che 33 Paesi subiranno uno stress idrico estremamente alto entro il 2040. Ben 14 di questi si trovano nell’area mediorientale: secondo i ricercatori, il calo delle risorse idriche è tra i fattori che hanno costretto 1,5 milioni di persone, in maggioranza agricoltori e pastori, a lasciare le loro terre per trasferirsi nelle città aumentando così la destabilizzazione della Siria. Problemi anche in Cile, Estonia, Namibia e Botswana, mentre lo stress idrico potrebbe aumentare tra il 40 e il 70% in alcune aree delle Cina, come la provincia di Ningxia.
Il cambiamento climatico rischia poi di imprimere uno scossone micidiale al ciclo idrico. Le aree in via di desertificazione si stanno espandendo e l’assalto all’Amazzonia – con i roghi che si moltiplicano per far spazio alle piantagioni di soia, alle miniere e alle strade – rischia di mettere in ginocchio anche il regno dell’abbondanza pluviale: procedendo a questo ritmo la più grande foresta tropicale del mondo sarà erosa dalla savana.
Anche se lo scenario è allarmante, abbiamo ancora la possibilità di limitare i danni mettendo in atto contromisure efficaci, nota il Wwap. Possiamo dare più spazio alle fonti rinnovabili per ridurre la richiesta di acqua in campo energetico, visto che negli Stati Uniti il 20% dei prelievi idrici è destinato al raffreddamento delle centrali elettriche e nucleari o al fracking (la tecnica estrattiva dei gas naturale anche da fonti non convenzionali come le rocce di scisto o depositi profondi di carbone). In campo industriale si stanno registrando successi significativi: tra il 2011 e il 2014, a livello globale, le aziende hanno speso 84 miliardi di dollari per migliorare l’efficienza nella gestione dell’acqua e alcune hanno ridotto i costi del 40%. E possiamo prestare più attenzione all’uso che facciamo dei rubinetti domestici.
Ma nel mondo il 70% della risorsa idrica è assorbito dall’agricoltura. «Il tema su cui la ricerca si sta concentrando è il nesso tra acqua, cibo ed energia», afferma Francesca Greco, del Wwap. «Per produrre alimenti in modo intensivo non basta la terra: ci vogliono molta acqua e molta energia. Per questo parliamo di acqua virtuale, quella che è incorporata nel cibo perché è servita a crearlo: per ottenere la carne di un hamburger ci vogliono 2.400 litri di acqua, per una fiorentina da mezzo chilo quasi 8mila litri e per un chilo di vaniglia si sfiorano i 100mila litri. Comprare cibo vuol dire anche comprare acqua».
E così, di fronte a una richiesta di alimenti che continua a crescere, ogni mezzo diventa buono per forzare i cicli del raccolto, compreso un uso eccessivo dell’irrigazione. Secondo il rapporto Onu, l’utilizzo inefficiente dell’acqua per l’agricoltura ha abbassato il livello delle falde, degradato gli habitat naturali e ha causato la salinizzazione del 20% della superficie dei terreni irrigui a livello globale.
Ridurre questo impatto è però possibile, sia usando sistemi agricoli meno intensivi, sia usando tecnologie più avanzate: l’irrigazione a goccia ha un’efficienza di oltre il 90% contro il 70 del metodo a pioggia e il 25 di quello a sommersione dei campi. «Assieme alle università di Catania e Messina abbiamo messo a punto un sistema che consente di migliorare il recupero delle acque della fìtodepurazione e di passare dalla irrigazione a tempo a quella mirata», spiega Giulia Giuffrè, di Irritec, una delle cinque aziende leader mondiali nell’irrigazione a goccia. «I sensori collocati nei campi permettono di monitorare l’acqua presente nel terreno, la temperatura, l’umidità e la traspirazione. Così si può misurare il bisogno idrico effettivo delle piante e dare solo ciò di cui hanno bisogno abbattendo lo spreco. Se si pensa che sul pianeta meno del 4% dei campi irrigati usa l’irrigazione a goccia, si ha un’idea dell’enorme potenziale di risparmio offerto da questo sistema».
Irrigazione più efficiente vuol dire anche meno energia necessaria a muovere l’acqua, meno fertilizzanti e antiparassitari, perché la minore diluizione riduce l’uso di queste sostanze. È la proposta lanciata da Slow Food con la campagna Orto in Condotta presentata a Expo2015: «Con 62 miliardi di metri cubi l’anno siamo il terzo importatore di acqua virtuale al mondo dopo Giappone e Messico», ricorda Lorenzo Berlendis, vicepresidente di Slow Food. «È un iperconsumo che va frenato con progetto di educazione. Noi abbiamo deciso di cominciare dai bambini regalando un impianto irriguo intelligente alle scuole che fanno parte di Orto in Condotta. Uniremo la parte sperimentale, mostrando come si riesce a far crescere le piante usando poca acqua, e quella informativa: spiegheremo che per produrre uno smartphone servono 13 tonnellate di acqua e che per fare una T-shirt ce ne vogliono 4 tonnellate».