Jay Kirk, GQ 10/2015, 20 ottobre 2015
LA CITTÀ DEI REIETTI
La Città Rifugio di Pahokee, in Florida, è una desolata ex caserma costruita negli anni Sessanta dalla U.S. Sugar per i lavoratori migranti. Sessantuno casupole di cemento su dieci ettari di terreno – con una media annua di centoventi abitanti pregiudicati – e tutto intorno il nulla, a parte un mare di canna da zucchero. Ci vivono anche una trentina scarsa di vecchi giamaicani, ma i colpevoli di reati sessuali si sono stabiliti qui sette anni fa, quando Pat Powers – anche lui pregiudicato – arrivò e reclamò per sé il luogo nel nome di Gesù Cristo. Naturalmente vivono in esilio, perché nessuno è più spregevole di quelli come loro.
Arrivo di domenica, e trovo i miei nuovi amici che hanno appena finito un incontro di touch football. Mi scuso per essere spuntato in anticipo e butto lì che magari mi trovo un motel per la nottata. Ma uno di loro, Ted, mi risponde che non c’è problema e che mi sistemeranno nella loro stanza degli ospiti. Poi mi presenta la moglie, Rose, l’unica donna del villaggio schedata per reati sessuali, che ha dei tatuaggi verdi scoloriti sulle braccia: mi dice scherzando che sono il benvenuto, purché non russi.
Giacché sono quasi tutti in pantaloncini e infradito, si notano subito i braccialetti elettronici che hanno alle caviglie.
C’è un tipo di nome Glenn, faccia da universitario cazzone e cresta bionda, che sputa dentro una bottiglia d’acqua. Vuole raccontarmi della sua vera casa: «Non ci posso abitare», spiega. «Ho una casa a Palm Beach Gardens e non ci posso andare». Mi mostra delle foto sul cellulare: «Piscina. Vasca idromassaggio. Piante di banano...». La proprietà è di un ettaro e mezzo. Gliel’ha comprata suo padre. Glenn doveva andarci a vivere una volta uscito dal carcere, ma lo statuto del comune di Palm Beach Gardens stabilisce che i pregiudicati per reati sessuali non possono vivere a meno di ottocento metri da qualsiasi luogo in cui si possano radunare dei minori. Glenn spiega che c’è una confusione terribile, perché le distanze variano. Lo Stato della Florida stabilisce un limite di trecento metri, ma altri hanno statuti diversi. Per cui sono seicento metri in un posto, e Dio sa quanti in un altro. Lo sceriffo, gli agenti di sorveglianza, nessuno ci si raccapezza. È una delle cose che rende più semplice la vita nella città rifugio: non sei a ottocento metri da nulla.
«Ma dov’è che dovremmo andare? Come dovremmo trovarlo, un lavoro?». Glenn sputa di nuovo nella bottiglia. «Stamattina ho parlato col mio agente di sorveglianza. Ero in lista per un impiego, nell’industria del fast food. Ma siccome avrei avuto intorno dei minorenni, non se ne è fatto niente».
Mi racconta di essere andato in prigione per lo stesso motivo di molti tra i più giovani qui presenti: sesso con minori. Non è che fossero tutti molestatori di bambini. Avevano fidanzatine quindicenni o sedicenni, mentre loro di anni ne avevano diciotto o diciannove. Sì, tanto draconiane sono le leggi. E, sì, è una merda che non sembra esserci molta distinzione fra i loro reati e quelli commessi dagli aggressori sessuali belli e buoni, molti dei quali incontrerò nei prossimi giorni.
Mi sveglio la mattina dopo con l’odore del bacon sfrigolante. A colazione, Ted mi dice che, se mi va, posso assistere a una chiamata per l’ammissione, cioè a una teleconferenza con un potenziale nuovo residente. L’uomo in questione verrà scarcerato fra un mese, e gli servirà un posto dove vivere. Ted dice che qui si è liberato un posto per via di Earl, l’attuale pecora nera del villaggio. Earl è appena stato rispedito in carcere per ventitré anni, per aver tentato di contattare la sua vittima su Facebook. Grosso sbaglio. Ted mi racconta che lui e Pat sono andati alle udienze di Earl, e che quando la sua vittima ha testimoniato, lui si è ricordato di aver creato a sua volta una vittima, e da come mi guarda negli occhi, percepisco davvero che esistono forme di rimpianto più durature di altre.
«Earl era un mitomane», racconta. «Pensava che la sua vittima lo trovasse simpatico. Quindi non ha mai capito la sofferenza che le ha causato. E invece a me ha ricordato proprio il dolore che ho inflitto ad altri. Non voglio mai e poi mai rifare del male a un’altra persona. Credimi. Quando ho assistito all’udienza di Earl ho provato più che altro disgusto all’idea di aver causato una sofferenza simile. Non ho provato disgusto per Earl, ma per me stesso».
Giunta l’ora della chiamata d’ammissione, Ted dà a Rose un bacetto sulla guancia e ci incamminiamo verso l’abitazione di Pat, due casupole più giù. Gli uomini sono riuniti attorno al tavolo della cucina: Pat e Jerry, il responsabile delle ammissioni, e Chad, un tizio più giovane con la frangia ossigenata. Tutti i presenti sono pregiudicati e dipendenti di Matthew 25 Ministries, l’organizzazione no profit fondata ventiquattro anni fa da Dick Witherow: uomo caritatevole e generoso a detta di tutti, conosceva le avversità che toccano ai colpevoli di reati sessuali nel mondo fuori dalla prigione ed era convinto che servisse un luogo da cui ricominciare (specie considerando che molti di loro si ritrovano senza un tetto, cosa che spesso li faceva tornare in carcere). Così si mise a setacciare la Florida, in cerca di una località conforme alle ordinanze statali e comunali, finché nel 2008 non ne trovò una adatta, insieme a Pat Powers. Oggi la Città Rifugio prende in affitto circa un quarto delle abitazioni da una società di gestione immobiliare, e una percentuale dei subaffitti va a pagare il personale.
Alla morte di Witherow, nel 2012, Pat è diventato il Grande Puffo del luogo, insieme a un consiglio di amministrazione con cariche nominali (va detto però che, dopo la mia visita, Pat è stato licenziato proprio dal consiglio di amministrazione, dunque bandito dall’esilio che lui stesso aveva contribuito a creare qui). Si tratta dell’uomo che afferma di aver fondato la Città Rifugio dopo che Dio lo aveva trascinato insieme a Dick Witherow per tutta una serie di strabilianti coincidenze divine. Attacca a narrare una storia secondo la quale, fino al loro arrivo, il luogo era un covo di nefandezze: spacciatori, furti d’auto, sparatorie, omicidi e via dicendo, e quant’è vero Iddio non voleva assolutamente rimanerci, ma non aveva scelta, perché era stato Dio a ordinargli di venire qui a liberare il suo gregge dall’esilio.
Come storia è abbastanza improbabile, specie la parte sui lavoratori migranti che fino all’arrivo dei pregiudicati se ne sarebbero rimasti rintanati in casa per paura degli spacciatori (gli storici abitanti del posto, da me interpellati in seguito, hanno negato il fatto), ma per il resto Pat è simpatico.
«Ci ho messo un sacco di tempo a perdonarmi», dice. Per farla breve, racconta di essersi «invischiato» con delle giocatrici di racquetball. Lui faceva l’allenatore in un circolo privato: «Sono colpevole. Ho fatto del male a delle persone. Ed è questa la cosa più dura da mandare giù. Pensavo che avrebbero dovuto ammazzarmi, capito? Ma dopo un po’ ti dici: oh, aspetta un attimo. C’è gente che ha fatto cose altrettanto brutte delle mie, se non peggiori, ed è stata punita fino a un certo punto. Bene. Perché? Io mi sono fatto dodici anni. Il nostro debito con la società lo abbiamo pagato, quindi adesso lasciateci vivere».
Quando il futuro ex galeotto in cerca d’ospitalità si collega, viene bersagliato di domande su Dio, sull’abuso di stupefacenti, sulle sue aspettative per il futuro, se ammette la sua colpevolezza, se sarà in grado di pagare l’affitto e cose così. L’uomo si chiama Chris. «Cos’hai intenzione di fare per essere sicuro di non commettere lo stesso crimine di nuovo?», gli domanda Pat, sporgendosi sul tavolo. «Insomma, bisogna mettere Dio in cima a tutto, no? Cosa che prima non facevo. E quindi, ecco, ho imparato dal tempo passato in prigione. Sono diventato una persona migliore», risponde lui.
Pat gli chiede se è bravo in qualcosa, e viene fuori che Chris se la cava come idraulico. Poi, dopo un altro po’ di palleggi, gli uomini votano in silenzio. Quelli a favore dell’ammissione annuiscono. Quattro sì.
«Vedi», commenta Pat una volta chiusa la telefonata, «c’è sempre un motivo per cui Dio manda qui una persona. Per ognuno che accettiamo, probabilmente ne rifiutiamo altri venti. Perché non è che prendiamo chiunque sia stato accusato di un reato sessuale. Questa non è mica una discarica».
«Tanto per cominciare, non prendiamo pedofili certificati», sottolinea Ted. «Molti non capiscono la vera definizione».
«La gente classifica molti di noi come pedofili», aggiunge Pat, «ma se sei “certificato” significa che esiste una diagnosi secondo la quale sei attratto da bambini fra i cinque e i nove anni. Ecco, noi quelli non li prendiamo. E non prendiamo neanche gli stupratori seriali».
Il giorno dopo, c’è la seduta di terapia con lo psicologo, uno che ha l’aria di passare molto tempo a fare pesi. A meno di cinque minuti dall’inizio, però, Pat dirotta la riunione per pronunciare una specie di sermone: «Voglio avvisarvi, ragazzi. Avete presente quando vengono gli agenti della contea a controllarvi i documenti e farvi domande e via dicendo? Bene, vi stanno registrando. Signori, io ve lo dico: cominciate a usare il cervello. Abbiamo anche un altro problema. Vengono portate qui delle ragazze. Tossiche. Metti che ne avete una in macchina, che ne avete una in casa. Ha addosso la droga, metti che fanno una retata in quella casa, indovinate un po’, secondo voi chi è che va in prigione? Lei? Col cavolo. Ci andate voi! Non fatevela con le tossiche. Vi chiedo solo di usare la testa. E non parlo così per dire».
Intanto, però, parla eccome. Anzi, riesce pure a occupare l’intera ora. Poi salta fuori che alcuni dei nuovi arrivati hanno problemi con Richard. A quanto ho capito, Richard è l’individuo dall’aspetto minaccioso seduto a due posti da me, vestito di nero, con una punta di freccia appesa al collo e l’aria di un centauro cacciatore di taglie. Sarà lui stesso a raccontarmi in seguito di aver molestato le sue nipotine gemelle. Dice che all’epoca avevano undici anni. Cioè undici anni in due. Lui ne aveva cinquantuno.
Dice di assumersi la responsabilità dell’accaduto, ma dopo otto anni in prigione, quello che lo fa imbestialire è il marchio che viene affibbiato ai colpevoli di reati sessuali, mentre al mondo c’è di molto peggio. «Già», dice, «che cos’è peggio? Ammazzare dei bambini o molestarli soltanto?». Sono frastornato, e non poco, dalla chiacchierata con lui.
Di colpo vengo sopraffatto da un impulso malsano. So che dovrei ignorarlo. Meglio non mettermi nella posizione di conoscere certi dettagli. È impossibile concedere il beneficio del dubbio – impossibile non giudicare – quando hai troppi dettagli. Aspetto di vedere se mi passa. Non mi passa, quindi apro il portatile, inserisco le mie coordinate attuali, codice postale, indirizzo e poi, col sangue viscoso di adrenalina, digito le parole “colpevole di reati sessuali”. Ed eccoli qui. Amici e vicini, gentili ospiti, tutti lì sul registro, per il terrore del cittadino. I giovani che conosco, colpiti dall’accusa di sesso con minori. Atti di libidine. Molestie lascive. Coercizione e adescamento. Un incubo.
Il flash di una foto segnaletica renderebbe inquietante e sospetto chiunque, rifletto. Ma, Cristo, più vado avanti a leggere e più viene a galla tutto il viscidume.
Leggo il verbale dell’arresto di Richard per la storia delle nipotine gemelle e scopro l’inconcepibile: la versione che mi è stata narrata, e che pure già sembrava una mostruosità da rotocalco di cronaca nera, era annacquata. Questa è molto più brutale, da sentirsi male. Forse lui è stato clemente a risparmiarmela, ma la sua versione addolcita non rendeva minimamente la depravazione del fatto. Offeso con me stesso per aver guardato, chiudo il computer, pensando che nessuno dovrebbe vedere queste cose, e che non ne farò parola ad anima viva. Poi vado in bagno a spruzzarmi in faccia dell’acqua fredda, prima di avviarmi alle prove del coro.