Enrico Deaglio, GQ ottobre 2015, 20 ottobre 2015
QUANDO ERAVAMO NERI
Dice la favola che, ancora cento anni fa, gli italiani in America erano neri, come gli africani, ma che poi, con il tempo “si sbiancarono”. Oggi sono più bianchi dei messicani, quasi non sono più nemmeno latini. Sono come tutti gli altri, insomma. Per dire: tra i morti delle Twin Towers, quelli con il cognome italiano furono 302, il dieci per cento.
In tutte le favole c’è un fondo di verità e quindi anche in questa. Oggi gli “italoamericani” negli Stati Uniti sono circa il 12 per cento della popolazione, la terza o la quarta generazione di quei milioni di italiani che attraversarono l’Atlantico (in realtà meno pericoloso dell’attuale Canale di Sicilia) per fuggire da un’Italia molto povera e molto ingiusta. La grande massa si mosse tra il 1880 e il 1920 verso gli Stati Uniti, stabilendosi in generale nelle grandi città della costa orientale a scavare metropolitane, estrarre minerali, costruire ponti e case; nelle campagne del Sud a produrre zucchero e cotone o nella nuovissima California a pescare e fare il vino.
Erano circondati da molta ostilità. Gli italiani, e in particolare quelli provenienti dal Sud della penisola, erano considerati, anche dalla legge, una specie di razza inferiore, di pelle scura perché di origine africana (si diceva che fossero i discendenti di Annibale), violenti e passionali, come peraltro sostenevano le teorie di Cesare Lombroso, molto note in America.
Però, col tempo, riuscirono a “sbiancarsi”. Gli storici oggi sostengono che fu la Seconda guerra mondiale a compiere il miracolo. Da quelle comunità chiuse, guardate con sospetto, il giorno dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor circa un milione e duecentomila giovani si recarono ai distretti militari per arruolarsi, una cifra patriottica inaspettata e imponente. Gli italiani divennero soldati, caporali, al massimo sergenti; furono indispensabili per lo sbarco in Sicilia e per tutta la campagna d’Italia. E cosi, mentre i giapponesi-americani vennero internati in 150.000, gli italiani “ostili” da internare furono appena 1.600.
Facciamo un salto di mezzo secolo: la televisione HBO manda in onda per sette anni consecutivi la saga dei Sopranos, piccoli mafiosi borghesi del New Jersey. Dopo la famiglia Corleone, che aveva dominato l’immaginario americano sulla tipica comunità mafiosa siciliana e sulla Sicilia come essenza dell’Italia, ecco a voi Tony e Carmela Soprano (due fantastici attori di origini italiane: James Gandolfini ed Edie Falco) con la loro bella casa: lui va dalla psicanalista perché è depresso, lei è attratta da un prete cattolico giovane, la figlia adolescente scopre su Internet che papà è un boss. Una famiglia come tante, riunita intorno a una cucina-sala da pranzo con un frigorifero enorme, impegnata spesso in una liturgia di preparazione del cibo che faceva andare letteralmente in sollucchero milioni di telespettatori.
Certo, gli italiani sono ancora un po’ troppo violenti, chiassosi, con troppa gelatina nei capelli, però sono buoni vicini di casa, “family men” cui si può affidare la cosa pubblica. Il sindaco di New York Bill de Blasio viene dalla Basilicata; il governatore dello Stato, Andrew Cuomo, è figlio dell’ormai mitico Mario Cuomo, da Salerno, che sfiorò la candidatura alle presidenziali per il Partito democratico negli anni Novanta. Il famoso “sindacato del crimine”, quello del Padrino, è ormai un ricordo del passato e Godfather è diventata una catena di pizzerie. La storica mafia del New Jersey oggi si limita a pretendere il due per cento sulle forniture di cemento e a organizzare lo smaltimento dei rifiuti tossici.
In un caso abbastanza singolare, la conoscenza, l’ironia e infine la simpatia per gli italiani, il loro modo di vivere e i loro difetti, sono venuti da un gruppo di scrittori, registi, cantanti e attori. I libri di Mario Puzo, Gay Talese, Lawrence Ferlinghetti, John Fante; i film di Francis Ford Coppola e Martin Scorsese; le grandi interpretazioni di Robert De Niro e Al Pacino; le canzoni di Frank Sinatra e Dean Martin: tutti coraggiosi e onesti, hanno contribuito a vincere una sorta di scommessa culturale, in un percorso di sbiancamento che si è fatto via via spumeggiante. Senza naturalmente tener conto che già al tempo del cinema muto un pugliese come Rodolfo Valentino era diventato il primo oggetto di desiderio erotico, sia etero sia gay.
Nella configurazione della memoria collettiva americana, il contributo italiano è possente. Gli emigrati italiani di fine Ottocento furono grandi agitatori politici (certe volte, in verità, un po’ troppo amanti della dinamite) e vantarono personaggi leggendari come Carlo Tresca, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Più che in politica, però, gli italiani ascesero come comunità, i cui fondamenti erano le strutture familiari importate dai piccoli paesi di origine: non tanto la chiesa o la mafia, quanto le drogherie, i ristoranti, le gelaterie, dove tutti danno una mano, sono state le basi per la crescita di ragazzi e ragazze che poi sono andati al liceo e all’università.
Tradizionalmente fu il Partito democratico a tenere in considerazione gli italiani come una forte base elettorale. E così la seconda generazione, quella degli Anni Trenta, che assisteva al fascismo trionfante in patria, quando si trattò di far la guerra a Mussolini votò per Roosevelt in proporzioni massicce. Il dopoguerra, così, ci vide in ascesa sociale: il cibo italiano divenne popolare, come il vino (soprattutto da quando non venne più venduto in quegli orribili fiaschi coperti di paglia che ricordavano i tempi della miseria), in tv si vedevano famiglie che mangiavano zucchine e melanzane. La Domino’s, una catena nazionale, ti portava a casa in bicicletta la pizza che ordinavi per telefono. Il più popolare giocatore di baseball, Joe DiMaggio, era figlio di un siciliano nato a Isola delle Femmine. Quando sposò Marilyn Monroe, i bambini sospirarono: «Beata lei!».
Erano i tempi di Dean Martin, Frank Sinatra e persino di Louis Prima, un cantante rozzo che fece amare agli americani un verso come “C’è la luna in mezz’ ‘o mare”. L’Italia diventò di moda con la Dolce vita, la moda, il Vaticano e Quando Quando Quando. Negli Anni 80 vennero tolte le discriminazioni “anticomuniste”, e Sacco e Vanzetti furono addirittura riabilitati. L’italiano più popolare divenne non un mafioso o un anarchico, ma un giovane magazziniere con i capelli cotonati cui interessava solo ballare, il Tony Manero-John Travolta della Febbre del sabato sera.
Gli italoamericani di oggi scoprono le loro radici, vogliono tornare al “paese di pietre e di pecore” da cui partirono i nonni, studiano le proprie origini con i kit che ti raccontano il Dna per soli 99 dollari.
Hanno votato per Obama, ma solo al 55 per cento. Vanno sempre meno in chiesa e sono abbastanza perplessi sulla svolta a sinistra di Papa Francesco. La maggior parte di loro continua a non essere ricca, almeno a guardare un altro popolare show televisivo, Jersey Shore, un reality di ragazzi non proprio beneducati, e continua a vestirsi come fanno i tamarri. Nel mondo del potere, un’eccezione è data da Sergio Marchionne, il Ceo della Fiat che ha comprato la Chrysler. Non era facile, visto che Fiat era sinonimo di “Fix it again, Tony”, ovvero “Tony, si è rotta di nuovo”–. Come ha fatto? Essenzialmente promettendo di portare a Wall Street il simbolo più prestigioso dell’industria meccanica italiana, la Ferrari, per cui gli americani hanno una specie di venerazione.
Per il resto, pochi sanno chi è il nostro primo ministro, ma tutti ricordano il bunga bunga. Che prima li faceva divertire, poi li ha spaventati seriamente quando è comparso il rischio del default. Per i più colti, oggi c’è il boom di Elena Ferrante: le buone librerie mettono i suoi libri su uno scaffale con la scritta a mano: “Ferrante Fever”. Decisamente, non siamo più neri. E sono passati meno di cent’anni.