Stefano Lorenzetto, L’Arena 18/10/2015, 18 ottobre 2015
LA CHIESA DI SAN GIUSEPPE FUORI LE MURA COMPIE 100 ANNI
La chiesa di San Giuseppe Fuori le Mura, in Borgo Venezia, compie 100 anni. Un po’ dei macigni di cui è fatta li portò in cantiere mio nonno, carrettiere, all’epoca diciottenne. Si può dire che sia stata costruita due volte: nel 1915 gli anticlericali, assai numerosi nel quartiere operaio, distruggevano di notte ciò che i muratori avevano tirato su di giorno.
Di don Pietro Fritz, parroco pioniere, la gente diceva: «L’è un bon omo, anca se l’è un prete». Al suo arrivo il reverendo era stato accolto da un cartello piuttosto esplicito: «Prima di entrare in questo borgo dimenticato, ti raccomanda l’anima, per non più tornare».
Fuori le mura di Verona, 130 anni fa, vi era una sola casa, quella di Gioacchino Colosio, un bergamasco, erede dei contadini che per tre secoli e mezzo la Serenissima aveva reclutato nelle terre di confine bagnate dall’Adda. Sorgeva lungo il Fiumicello, sul quale si faceva arrembare da pirati immaginari il bambino Riccardo Chiarelli, che da adulto avrebbe raccolto la penna spezzata da Emilio Salgari, diventando autore di romanzi d’avventura.
Non si può dire che la chiesa centenaria sia un capolavoro, anzi. Fanno eccezione l’abside, nella quale Pino Casarini affrescò l’agonia di San Giuseppe, e l’organo Tamburini inaugurato nel 1941 da Fernando Germani, il concertista che ha fatto conoscere Bach agli italiani con la colonna sonora dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Se ne parlo, dunque, è solo perché avverto un debito di riconoscenza verso questo tempio così dimesso nella sua linda dignitosità e mi è sembrato che saldarlo sulle pagine dell’Arena fosse un modo per renderne partecipi le migliaia di veronesi che si trovano nelle mie stesse condizioni, cioè insolventi verso la chiesa - sì, anche quella di mattoni - che gli fu madre e maestra.
Non sarei diventato né marito, né padre, né proiezionista, né tipografo, né giornalista, e non sarei neppure vivo, se qualcuno non avesse posto sulla mia strada la parrocchia di San Giuseppe Fuori le Mura, dove al fioretto di un maggio lontano incontrai per la prima volta quella che sarebbe diventata mia moglie. Nato di mercoledì, vi fui battezzato in tutta fretta la domenica successiva, perché i miei genitori non sapevano se sarei sopravvissuto. L’indomani il dottor Pietro Orlandi, un santo pediatra al quale la mia madrina era andata a suonare il campanello a Quinto di Valpantena dopo aver visto in che condizioni versavo, raggiunse a piedi la casa dov’ero venuto al mondo e centrò in pieno, salvandomi, la diagnosi che non era riuscita ai suoi colleghi: meningite.
Ciò che so di editoria lo imparai da autodidatta usando in parrocchia i ciclostili ad alcol dalle matrici a colori e quelli Gestetner a inchiostro, con i quali stampavo il giornalino San Giuseppe Express. L’iperbolica testata era stata disegnata da don Franco Pasini, prima di andare a schiantarsi di fatica nella missione brasiliana di Porto Mourtinho, nel Pantanal, due toponimi che da soli sarebbero bastati a prefigurare il suo tragico destino. Non dissimile da quello di padre Giovanni Trivella, comboniano di Borgo Venezia espulso dal Sudan nel 1963, che veniva a parlarci alla scuola elementare Carducci. Era contorto come un ulivo per le bastonate ricevute nelle prigioni costruite dal Mahdi, dove restò rinchiuso per 71 giorni, in un buco di 3 metri per 5, con altri 14 condannati a morte. Due riuscì a battezzarli prima dell’esecuzione.
Dal San Giuseppe Express ai volantini, composti nella tipografia di Montorio dei fratelli Baschera, il passo fu breve. In seguito venni ammesso nella stamperia Zendrini di via San Marco, che sfornava L’Informatore Agrario e Gialloblù. Lì imparai a impaginare un altro Informatore, quello parrocchiale, e a correggerne le bozze. Fu su tale foglio, nel giugno del 1970, che il parroco, monsignor Amedeo Piccoli, decise di pubblicare il mio primo articolo firmato. Sembrava impossibile che l’avesse scritto un quattordicenne. Era dedicato a don Luciano Foletto, il curato che qualche volta mi aveva cacciato a scarpate nel sedere dalle lezioni di catechismo perché facevo il buffone. Ad aprile l’avevo visto crollare sull’altare durante la messa vespertina, fulminato da un’emorragia cerebrale.
Due mesi prima, una domenica, era toccato a me correre in sacrestia per avvisare che la perpetua di un altro curato stava urlando in lacrime dal balcone del patronato parrocchiale: «È morto el me prete!». Si chiamava Carmelo Martini, un don Camillo ante litteram. Fascista, ma amatissimo dai comunisti e dalla povera gente. Era il confessore di mio padre. Largo di manica nelle questioni afferenti alla continenza coniugale (l’ho dedotto da certe allusioni di mia madre, riferite alle sue sei gravidanze, l’ultima delle quali finita male), don Carmelo diventava inflessibile sulla mancata astinenza dalle carni nei venerdì di quaresima.
Le salme marmoree di questi due preti furono il mio primo incontro con il mistero della morte. Don Luciano aveva appena 40 anni. Era un uomo colto, mite, saggio. Stetti male per settimane dopo la sua dipartita. A volte lo vado a trovare nel cimitero di Caldierino e riprovo lo stesso dolore di allora. Don Rino Breoni, che gli fu molto amico, mi ha confidato: «Lo vidi piangere perché temeva di non credere abbastanza in Dio». Anche a lui, a don Rino, ho servito messa nella chiesa di San Giuseppe. Ricordo che già allora era così perfezionista da celebrare solo con pianeta, calice e patena personali. Non sopportava i paramenti sdruciti. A distanza di mezzo secolo, nei suoi gesti domenicali sull’altare della chiesa di San Lorenzo rivedo immodificato quell’ardore liturgico, lo stesso espresso dal salmista: «Mi divora lo zelo per la tua casa».
Mi scopro a essere ciò che sono soltanto perché ho avuto la grazia di crescere all’ombra di questa chiesa e mi rattrista pensare che i miei figli, così come i figli di tanti altri genitori, non possano dire altrettanto. Non riascoltano nella loro mente la fulgida capacità interpretativa del maestro Adriano Faccioli, organista della Cattedrale, che con un guizzo del capo m’ingiungeva di voltargli la pagina dello spartito quando veniva a suonare nella nostra chiesa parrocchiale. Non si accostano ai segreti della sessualità avendo per maestro il medico Sinibaldo Nocini, il quale nella sala San Pio X disegnò alla lavagna l’apparato genitale maschile e indicò con l’unica parola nota ai ragazzi di borgata quegli organi che Giacomo Leopardi, ostile a Niccolò Tommaseo, chiamava i tommasei: «E questi i è i coióni». Non rivedono Per grazia ricevuta con Nino Manfredi dalla feritoia della cabina di proiezione del cinema Aurora, il cui direttore, Raffaello Bonente, era così industrioso da arrischiarsi a mettere una Fedi con lanterna a carboni nelle mani di un ragazzo di appena 15 anni.
Non crediate che sia nostalgia. È stretta attualità. Se oggi navigo in Internet, se saltabecco da un sito all’altro cliccando sui link, se uso il pc per scrivere questo articolo e se voi potete leggerlo, lo devo - lo dobbiamo - alla chiesa di San Giuseppe Fuori le Mura, dove un ragazzo chiamato al sacerdozio, Roberto Busa, fu ordinato prete nel 1940 e ammesso nella Compagnia di Gesù. Ho fatto in tempo a intervistarlo pochi mesi prima che morisse, all’età di 97 anni. Era stato lui a dare al computer, concepito per fare calcoli, il dono della parola. Studioso di San Tommaso, padre Busa nel 1949 cercava un modo per confrontare le opere dell’Aquinate con altre fonti. Chiese aiuto a Thomas Watson, fondatore dell’Ibm. Il magnate lo ricevette a New York ma fu sbrigativo: «Non è possibile far eseguire alle macchine quello che mi sta chiedendo». Il prete insistette. «E va bene, padre, ci proveremo», si arrese Watson. «Ma a una condizione: mi prometta che lei non cambierà Ibm, acronimo di International business machines, in International Busa machines».
Spiegai al venerando gesuita che ero nato nella sua stessa parrocchia. Forse fu per quello che alla fine del colloquio mi disse: «Guardi che la aspetto in paradiso, sa?». Poi si girò verso il fotografo, pure lui cresciuto in Borgo Venezia: «Aspetto anche lei, mi raccomando. E se tardate, come mi auguro, mi troverete seduto sulla porta così». Congiunse le mani, cominciò a girarsi i pollici e sospirò: «Non arrivano mai, quei macachi...».
LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Ultimi libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio).
LORENZETTO Stefano. 59 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Panorama, Arbiter e L’Arena. Quindici libri: Buoni e cattivi con Vittorio Feltri e L’Italia che vorrei (entrambi Marsilio) i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.