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 2015  ottobre 20 Martedì calendario

C’È UN MERCATO DEGLI ATLETI MILITARI E IL RISULTATO È QUESTO: AGLI ULTIMI MONDIALI MEDAGLIE ZERO

C’è un numero, sul fondo del burrone del peggior Mondiale di atletica della nostra storia, che fotografa un ex virtuosismo diventato caso. Pechino 2015, 33 azzurri al via, 26 appartenenti ai gruppi sportivi militari (9 uomini – il marciatore Tontodonati sarebbe entrato in Aeronautica il primo ottobre —, 17 donne): zero medaglie. Lo scontento del presidente Giomi («Problema di mentalità, vanno rivisti i meccanismi di entrata e uscita dai corpi: chi in due anni non fa risultati, trovi un lavoro») ha evidenziato le storture di un fenomeno tutto italiano, con storia e tradizione (a Londra 1908, Giochi della IV Olimpiade, il marinaio cacciatorpediniere Enrico Porro conquistava l’oro nella lotta) ma sfuggito di mano con la legge 31 marzo 2000 n.78, che ha autorizzato l’assunzione diretta di atleti di interesse nazionale, scatenando il mercato degli atleti militari. Premesso che i gruppi sportivi militari – nove, affiliati alle federazioni del Coni, tra Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri) e Forze di Polizia (Polizia, Finanza, Forestale, Penitenziaria, Vigili del Fuoco) – non sono l’unico problema dello sport italiano, è legittimo chiedersi, in tempi di spending review e feudi non più intoccabili, se siano ancora una risorsa o piuttosto non siano diventati un’insostenibile anomalia sociale. Soprattutto perché al loro incremento non corrisponde più una crescita di medaglie (c’è stata una contrazione di risultati anche ai Mondiali Militari: la 6ª edizione si è appena chiusa con l’Italia al 9° posto, a Rio 2011 era 3ª con 51 titoli).
Oggi 1247 atleti corrono, lanciano, saltano, sciano, tirano di scherma, remano, pedalano, nuotano, combattono, cavalcano, sparano, si tuffano a spese dei contribuenti. La quota maggiore (325) è della Polizia, fanalino di coda i Vigili del Fuoco, il cui gruppo sportivo fu istituito il 21 ottobre 2013 con un decreto di Alfano, che ancora stanno aspettando il bando (ma i 100 gruppi provinciali sul territorio hanno espresso atleti olimpici dal 1920 al 2008: le fiamme rosse più celebri sono Jury Chechi e Maurilio De Zolt). Erano il 25% dei medagliati (102 in totale grazie alle discipline di squadra, zeppe di civili) ad Atene 2004, l’82% a Pechino 2008 (40 medagliati, zero squadre sul podio), il 58% a Londra 2012 (63 medagliati). A Sochi 2014, su 110 azzurri 94 appartenevano alle forze armate. A Barcellona ‘92 erano appena il 27%, a Londra tre anni fa il 63% (177 su 281). Hanno in media dai 17 ai 35 anni, guadagnano dai 950 ai 1400 euro al mese (vitto e alloggio spesso inclusi), si allenano nei centri di appartenenza (la Polizia ne ha 9, il rugby come fiore all’occhiello, l’Esercito 6, molti concentrati a Roma), sono il biglietto da visita dei corpi, che si litigano i fuoriclasse come le comari i pettegolezzi. Sembra un retaggio dell’ex Urss, è un business fenomenale. Prima dei Giochi di Londra fece scalpore la campagna acquisti della Penitenziaria: 15 campioni di 11 discipline, inclusi l’ex carabiniere Aldo Montano e l’ex poliziotto Clemente Russo. «L’argomento va approfondito con calma» disse l’allora segretario generale del Coni Pagnozzi. Nacque l’idea del vincolo della richiesta del nullaosta per il trasferimento, da inserire negli statuti. La maionese era definitivamente impazzita.
Il Coni, che con i gruppi sportivi militari ha un rapporto di amore-odio sintetizzato con diplomazia dal presidente Malagò («Rappresentano una risorsa: i risultati sono sotto gli occhi di tutti e noi siamo felici del loro apporto. È chiaro che in un clima generale di grande attenzione verso la cosa pubblica ogni iniziativa e ogni comportamento vanno ricondotti verso un obiettivo comune: occorre maggiore coordinamento che non disperda quanto di buono esiste ma nello stesso tempo elimini il superfluo. Andiamo in questa direzione con la loro piena collaborazione»), quest’anno verserà 2.249.660 euro di contributi (962.870 ai gruppi civili), spartizione decisa in Giunta. Le Finanziarie storicamente privilegiano la Difesa: se le società sportive si barcamenano, ai gruppi armati i soldi non sono mai mancati.
È vero che, calciatori professionisti a parte, senza gruppi militari pochi in Italia potrebbero permettersi di fare gli sportivi di vertice (certe discipline olimpiche, dalla marcia ai lanci, dalla ginnastica alla scherma, dipendono strutturalmente dalle divise al di là dei fuoriclasse assoluti, tipo Federica Pellegrini), però la deriva del sistema non può sfuggire. Per i risultati (innegabili dal mito Tomba al totem Zoeggeler) e l’importanza che hanno assunto, i corpi militari sono diventati centri di potere all’interno delle federazioni: decidono convocazioni, spostano voti e equilibri, condizionano i direttori tecnici. Un costume poco etico è il depredamento delle società nel momento in cui i talenti migliori si affacciano alla ribalta (a Torino 2006 era difficile guardare alla 15enne Arianna Fontana come a una finanziera...) e quando Giomi parla di «problema di mentalità» allude alla demotivante soddisfazione di una chiamata in nazionale (la Fidal annuncia agli atleti le novità in materia oggi a Fiuggi), con lo stipendio a fine mese (e il post-carriera) assicurato.
Per snellire il carrozzone bisogna investire di più sulla scuola ma alla base serve una volontà politica, sennò si rischia di finire a intervistare in tv i cani della Forestale come ai Giochi di Torino. Nati per sostenere lo sport, lo stanno strangolando. E per vincere medaglie, ci vuole ossigeno.