Massimo Gaggi, Corriere della Sera 20/10/2015, 20 ottobre 2015
VALE LA PENA AFFANNARSI PER QUESTO TRATTATO DI COMMERCIO CON GLI STATI UNITI CHE FARÀ CRESCERE IL PIL DELL’EUROPA DELLO 0,05 IN DIECI ANNI?
Per i suoi sostenitori – dalla Ue a Barack Obama – il Ttip, il Trattato commerciale transatlantico in discussione da oltre due anni e il cui undicesimo round è iniziato ieri a Miami, è necessario: serve a rilanciare commercio e occupazione sulle due sponde dell’oceano e a bilanciare l’altro patto, quello Transpacifico, siglato due settimane fa dagli americani con altri 11 Paesi soprattutto asiatici, dal Giappone al Vietnam.
Non la pensano così le centinaia di migliaia di persone che qualche giorno fa hanno manifestato a Berlino contro questo accordo di libero scambio o i tre milioni di cittadini europei che hanno firmato una petizione per chiedere l’immediata sospensione dei negoziati. Per molti di loro con un simile accordo l’Europa rinuncerebbe alla sua specificità culturale e a molte protezioni dal lato della sicurezza alimentare, della tutela della privacy e della difesa dell’ambiente. Per alcuni l’Europa finirebbe addirittura per americanizzarsi. Ma siccome negli Stati Uniti è molto forte l’opposizione ai nuovi trattati di libero scambio (contrari quasi tutti i democratici compresa Hillary Clinton, i sindacati e perfino Donald Trump), c’è anche chi vede cittadini americani ed europei alla deriva sulla stessa barca: tutti vittima di una congiura delle multinazionali. Una congiura ordita da Obama e dalla Commissione Europea? Tesi che non stanno in piedi ma che guadagnano terreno soprattutto per via di tre connotati di questo negoziato. Il primo riguarda la sua segretezza, propria di tutte le trattative commerciali nelle quali non si possono fornire elementi utili alla concorrenza fino a quando l’accordo non è concluso. Comprensibile, ma nel clima attuale si lascia spazio ai teorici del complotto. C’è, poi, la natura universale di questi accordi che, puntando a eliminare barriere di ogni tipo, vanno a toccare gli interessi di produttori e lavoratori nei campi più disparati: sono in tanti, quindi, a voler bloccare tutto. Ancor più importante il terzo punto: coi dazi medi ormai ridotti al 4%, le barriere da rimuovere per rilanciare i commerci sono soprattutto normative. I cittadini europei ne avranno benefici (più concorrenza, prezzi più bassi) ma temono che saltino anche protezioni a cui tengono: quelle sull’inquinamento, gli Ogm, l’uso di ormoni e antibiotici nel settore alimentare, la tutela della provenienza dei cibi. E, anche se i servizi pubblici sono fuori dal negoziato, c’è chi sospetta che la logica del «free trade» finirà per investire anche la sanità pubblica e la scuola statale dei Paesi europei. Timori eccessivi, ma c’è chi comincia a chiedersi se vale la pena di battersi all’ultimo sangue per un’intesa che, nella migliore delle ipotesi, farà crescere il Pil di Europa e Usa dello 0,5% in 10 anni. Cioè dello 0,05% l’anno.