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 2015  ottobre 17 Sabato calendario

VOLETE MARCIARE CON ME?


[Alex Schwazer]

Il frullato di rumori di via Nomentana è il contrario dei silenzi di casa sua. Ma è proprio da questa Roma che Alex Schwazer ha deciso di ripartire. Qui i fantasmi del passato sono figure sbiadite. Qui sarai pure il campione olimpico di Pechino o il più conosciuto ex dopato d’Italia, ma la gente è così abituata a macinare tutto e in fretta che quasi non ci fa caso. Qui c’è il quartier generale del suo programma di ritorno alle gare, il “progetto”, una parola che contiene molte storie: prima di tutto quella di Sandro Donati, il suo nuovo allenatore, il tecnico che ha speso un bel po’ della sua vita in una lotta senza tregua contro il doping, e che abita a 200 metri dall’albergo dove Alex vive ormai da aprile. Ci sono volute collezioni di sms e quintali di parole nel vicino Parco delle Valli perché i due stringessero un patto clamoroso che ha spiazzato tutto e tutti.

IL QUARTIERE-MAMMA
Potremmo chiamarla repubblica di Sacco Pastore, dalla via che spacca questa fetta di Montesacro in cui Schwazer è diventato uno di casa. È bastata una domenica di maggio ai giardini, la festa del comitato di quartiere, e l’hanno subito adottato. È stata la passione per i cani a rompere il ghiaccio e da allora l’uomo che marcia s’è conquistato un cognome e soprattutto un nome. Pronunciato e ora strillato nei «forza Alex» e «dai Alex» di questa domenica pomeriggio in cui affronta il suo secondo test: un allenamento e niente più, senza giudici e senza avversari, ma con il cronometro che corre e le bici che proteggono i 15 chilometri (anzi, qualcosa di più) all’ora del marciatore. L’apripista è Leonardo il “volontario”, la vettura-scopa, si fa per dire, la guida Francesco il meccanico. Venti chilometri. E poi stupore, pacche sulle spalle, festa. Compresa quella di compleanno di un bambino e dei suoi amici, inizialmente perplessi, e poi a tifare anche loro. Come Michelangelo Giampietro, che nella squadra di Schwazer “gioca” da nutrizionista.

LE PAROLE CHE CURANO
Il ruolo di Maurizio Coletti, ai bordi della strada con la maglia degli All Blacks, è diverso: fa lo psicologo. «Mi ha detto quelle tre o quattro cose giuste e necessarie», spiega Schwazer. Sono bastate per togliere i due farmaci antidepressivi che prendeva. Anche questo è “progetto”. Ed è “progetto” pure il filo elettrico che porta la corrente da un terrazzo del terzo piano fin giù a quest’inedita partenza/arrivo. Una delle prime cose che Schwazer disse arrivando a Roma riguardava il rammarico di non poter vivere all’Acqua Acetosa, il centro sportivo Giulio Onesti con lo stadio Paolo Rosi davanti: foresteria, strada, pista; una specie di perfetto casa e bottega. Lo vietavano e lo vietano le norme antidoping: soltanto a due mesi dalla fine della squalifica si possono frequentare di nuovo gli impianti sportivi. Ma ora l’argomento è scomparso dai radar della sua vita: «Rimarrò qui anche dopo, non avrebbe senso cambiare, mi sento a mio agio, sarebbe solo rompere un equilibrio».

CORNETTI E CHILOMETRI
Schwazer non ha convinto tutti. Basta farsi un giro su Internet per rendersene conto: “Non ha detto tutta la verità”, “Fra poco lo fanno santo”, “Per me chi si dopa una volta ha chiuso per sempre”. Ma non ci sono soltanto veleni e saracinesche abbassate pregiudizialmente, pure legittimi “non ti credo”. Schwazer lo sa: «Lo penserei anch’io, ma con il tempo le cose stanno cambiando e scegliere questo allenatore, questo staff, la mia disponibilità a essere controllato a qualsiasi ora, erano l’unica strada che avevo davanti per tornare». Nella repubblica di Sacco Pastore, però, queste frasi sono lontane. Sono in tanti a giurare su di lui. Anche all’Art Hotel Noba, il tre stelle che adesso è casa sua. Ma ora deviazione sul tema: sta giocando la Lazio e la Lazio in quel posto è sinonimo di Cristian, che lavora al bar ed è tifosissimo biancoceleste. «Roba che a seconda di come va la partita del giorno dopo, cambia proprio la colazione. Insomma, il caffè rischi di fartelo da solo». Il calcio, ecco un’altra novità. Alex non se lo filava proprio in Alto Adige, ma ora è tutta un’altra storia. «Qui è impossibile non seguirlo, è una specie di rumore di fondo che non smette mai, le battute si inseguono in una partita infinita, fatta tutta di se e di ma, se avessimo comprato questo o quest’altro, ma l’allenatore, se l’arbitro: e neanche il risultato riesce a mettere un punto, ci si ferma un attimo e subito si ricomincia». E così nelle giornate fatte di cornetti (due o tre a colazione) e chilometri, ecco che la serata è appaltata. «Ora qualche partita me la vedo. Mi piace il Napoli, e il suo allenatore, Sarri, è un bel tipo». Cristian e la Lazio se ne facciano una ragione.

NUOVI AMICI
La mattina dopo sveglia presto. È in programma uno dei controlli previsti dal protocollo che l’ematologo Benedetto Ronci e il chimico Dario D’Ottavio hanno predisposto. Si fa dura, Roma è bloccata: Alex guida, ma che fatica. Bisogna raggiungere l’ospedale San Giovanni, dove Ronci è primario. Prelievi a parte, il centro di Roma è un altro pianeta per lui. «Lasciate perdere, l’altro giorno sono andato a prendere un tappeto (che serve per misurare il tempo di sospensione da terra durante i test): che caos, meglio starsene qui». Il prelievo è finito, il ritorno a traffico inverso è più semplice, ma c’è il parcheggio da cercare. Finalmente passeggiata con il nocciolo duro dei suoi amici. Roberto Villani, poliziotto, racconta dell’incontro di Carlo Magno e del Papa sul ponte Nomentano, o del Monte (Sacro, appunto) dove si radunarono i plebei scacciati dai patrizi. A Daniela Brunetta, Schwazer chiede del suo cane. A proposito di progetti, lei segue quello dei Lyons per gli animali che aiutano la vita dei non vedenti. Daniela fa la farmacista ed è alla guida del comitato di quartiere che ha sposato in modo totale la causa del “nuovo” Schwazer. Sulla pagina Facebook del comitato si leggono post di questo tipo: «Una grande sfida. Di un atleta che ha conosciuto il buio della vergogna ed emarginazione sportiva, di un uomo che riconoscendo i propri errori ha riflettuto su di essi e dalla mortificazione e depressione vuole rinascere. Dobbiamo stare accanto a lui. E con lui ri-cominciare. Benvenuto Alex, M.C. (atleta Fidal)». Nel piccolo gruppetto che risale la Nomentana c’è anche la manager Giulia Mancini. Più tardi arriverà anche l’avvocato Gerhard Brandstaetter. «Due persone che mi sono sempre state vicine».

RITORNO ALL’ATLETICA
Ogni tanto viene fuori nei discorsi di Schwazer la parola “atletica”. L’atletica che Schwazer ha odiato. L’oro di Pechino diventato incubo. Non solo le ricerche ossessive su Internet incamminandosi sulla strada maledetta del doping, ma anche l’istinto di contabilizzare tutto, ogni secondo dell’allenamento, ogni battito del cuore, ogni attimo di respiro, quasi per timore di perdersi un pezzo. «A volte, noi che facciamo l’atletica ad alto livello cerchiamo di complicarci la vita, non riusciamo a fare le cose normali. Io sto apprezzando questo. Posso finalmente apprezzare questa vita, e questo è il mio primo obiettivo: non voglio raccontare un
giorno a mio figlio che avevo la nausea dell’atletica». C’è un’immagine, per esempio, che non riusciamo a scacciare dalla testa dell’altro Schwazer, quello di prima: quel dialogo infernale che aveva con il cardiofrequenzimetro, lo sguardo incollato, schiavo di quei numeri. «Ora vogliono convincermi a prenderne uno più moderno, io non ne sento la necessità, ho quello basale. Serve dare i tempi ogni 100 metri? Per quello mi basta. Mi piace percepire delle sensazioni». Si rientra in albergo. C’è il direttore, Donato Formica, che ha seguito Schwazer sin dal primo momento: «Dalla conferenza stampa e dalle lacrime di quel giorno. Già allora ero convinto che ci dovesse essere una seconda chance, poi conoscendo Alex questo pensiero si è fatto più forte». Siamo ai saluti: che fai ora, un po’ di computer? «No, non me lo sono portato a Roma». Un’altra rottura con il passato: meglio così.