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 2015  ottobre 19 Lunedì calendario

IL FATTORE GEOPOLITICO: L’ASCESA CINESE


Il concetto di arte, in Cina, è culturalmente differente da quello europeo e l’arte contemporanea rappresenta un universo ancora più complesso, risultato di secoli di comunicazione sotterranea fra Oriente e Occidente. Negli ultimi vent’anni, con l’apertura all’economia globale, è emersa una forte interrelazione fra la sfera pubblica e quella privata che punta a imporre la Cina come luogo “culturale” internazionale, rivendicando un’eccezionalità artistico-culturale legata alla sua storia millenaria.

In cinese il termine con cui correntemente si definisce l’arte, è yishu: un termine ibrido e complesso più legato all’idea di craftsmanship che a quella di arte come espressione artistica. In questo senso quando si parla di arte in Cina ci si trova sempre davanti a un concetto che è culturalmente differente da quello europeo e che include al suo interno non solo arte “elevata” ma anche design, oggetti e artigianato. In questo senso l’arte in Cina ha sempre una connotazione oggettiva, di mezzo e fine anche commerciale e quindi collezionabile.
Il termine, poi, di arte contemporanea (xiandaiyishu) è ancora più complesso, legato a una forzatura, nella lingua cinese, di un concetto di derivazioni moderniste che lega lo sviluppo dell’arte contemporanea a una sfera esterna a quella propriamente cinese, rifacendosi a correnti e influenze precomuniste. In questo senso l’arte contemporanea in Cina ha a che fare, nelle sue manifestazioni moderniste e post moderniste, con l’Occidente e – passando per il periodo comunista dove l’Arte rossa ha sostituito pubblicamente altre possibilità espressive – con tecniche, influenze e diramazioni di derivazione occidentale sia per la pittura a olio che per quelle più propriamente cinesi, cioè la pittura su carta e alcuni tipologie di calligrafia.
L’arte contemporanea è quindi il risultato complesso di secoli di comunicazione più o meno sotterranea tra Occidente e Oriente; un percorso cominciato in tempi remoti (per esempio il periodo Tang, che ha visto la Cina aprirsi a influenze centroasiatiche e classiche importando e trasformando il Buddismo con tutte le sue manifestazioni artistico-religiose) e proseguito in tempi più recenti da Matteo Ricci e Giuseppe Castiglione fino alle avanguardie moderniste in Europa all’inizio del XXI secolo. In questo lungo processo, tecniche, sensibilità e influenze hanno creato un ibridismo e delle complicazioni concettuali ed estetiche difficilmente classificabili.
Questa premessa è utile, nella dimensione contemporanea, per far comprendere come il mondo dell’arte in Cina sia frutto di una complessa storia ed evoluzione da cui la Cina postcomunista ha sicuramente attinto, nella formulazione e nello sviluppo del sistema arte, idee, concetti e sistemi ibridi. È così difficile categorizzare cosa sta succedendo in Cina e come si sta formando, modificando e irrobustendo il sistema dell’arte, in questi ultimi anni, soprattutto perché l’apertura della Cina all’economia globale a partire dai primi anni Ottanta ha sì accelerato questo processo, ma lo ha anche in qualche modo sclerotizzato e sincopato, creando momenti di stasi, revisione e accelerazioni improvvise. Il sistema dell’arte si è dovuto creare attraverso, e nonostante, una liberalizzazione economica progressiva “di stampo cinese”, vorticosa e irrefrenabile, in cui l’arte (come definita all’inizio di questo scritto) aveva una funzionalità particolarmente semplice, essendo oggetto di scambio commerciale e oggetto culturale allo stesso tempo.

UNA REAZIONE ALLA MASSIFICAZIONE. Non è un caso che da fenomeno underground (nei suoi aspetti più “culturali” e di “riflessione sociale”) l’arte nella Cina post Deng Xiaoping si sia formata in ondate e scuole alla ricerca di un posizionamento nuovo e critico nei confronti della Nuova Cina, in risposta cioè al periodo comunista e a quella che è stata una massificazione dell’arte e un suo utilizzo politico più che “sociale” fatto dal regime.
Con l’apertura degli anni Ottanta – periodo in cui anche le scuole d’arte riprendono attività curricolari regolari, dopo anni di sospensione dovute alla rivoluzione culturale e ai suoi effetti – si passa a una fagocitazione dell’“esterno” (ovvero libri, riviste, film, musica) con appropriazioni di stili, risorse e sensibilità del mondo occidentale (tutti gli artisti che hanno cominciato a essere tali a quel tempo condividono questo bisogno di recupero e appropriazione della storia perduta durante gli anni pre Deng Xiaoping); nei primi anni Novanta si arriva a movimenti più direzionati al posizionamento dell’arte come strumento critico sociale; verso la fine del decennio allo svecchiamento di questo parossismo tra Occidente e Cina; negli anni Duemila all’entrata e al riposizionamento globale con la costruzione di un sistema dell’arte tra pubblico e privato, improntato a una coesistenza complessa tra arte come oggetto e come mezzo culturale di comprensione ed espansione dell’egemonia cinese nel mondo.
In questo senso, l’arte in Cina negli ultimi vent’anni si è delineata secondo due filoni contemporanei e interrelati, tra la sfera del privato e quella del pubblico. Dove il deterioramento del controllo della produzione artistica e culturale da una parte ha permesso al sistema comunista di evolvere uno stile “cinese accademico” di rappresentanza e dall’altro ha favorito l’apertura e l’osservazione di fenomeni artistici indipendenti – siano questi artisti, gruppi artistici organizzati o gallerie. È interessante notare come in questo senso ci sia stata una ibridizzazione di stili tra quelli accademici europei di derivazione sovietica o classica e quelli più tradizionalmente “cinesi” (pittura su carta, carving and etching, calligrafia) fino a raggiungere parossismi stilistici di derivazione post modernista e pop. Questo fenomeno è avvenuto sia in ambienti più vicini alla sensibilità di sistema o di regime sia in quelli più propriamente indipendenti, creando una serie di difficili correnti interpretative che hanno dato adito a superficiali categorizzazioni e giudizi.

UNA SCENA ARTISTICA VIBRANTE. È un dato di fatto che dalla fine degli anni Novanta, si sia creata una situazione politica ed economica favorevole alla creazione di infrastrutture moderne di diffusione dell’arte in tutte le sue forme. Sia nel pubblico – dove le istituzioni si sono lanciate in operazioni immobiliari faraoniche per quanto riguarda luoghi per l’arte (in tutte le sue categorie, da quelle visuali a quelle musicali e performative) – sia grazie ad aggregazioni artistiche più o meno commerciali, le zone di sviluppo artistico si sono posizionate come polmoni vitali per lo sviluppo dell’arte in Cina. Fenomeni come 798 a Pechino o M50 a Shanghai, ma anche realtà meno conosciute in altre parti della Cina, si sono formate in tandem con la costruzione di centinaia di musei, teatri, cinema e strutture di formazione e di diffusione dell’arte. L’idea di distretti creativi su modello di quelli citati è ormai onnipervasiva ed è stata trasferita anche in città minori come modello di sviluppo artistico-creativo. La maggior parte di queste grandi operazioni, lontane da essere solo operazioni immobiliari pubbliche, si sono appoggiate a gruppi immobiliari ibridi (tra pubblico e privato) o completamente privati, creando un’ulteriore complessità di comprensione circa la coerenza e la missione culturale intrapresa su così grande scala. Inoltre, fenomeno abbastanza frequente, strutture spontanee di aggregazione artistica sono state assimilate e trasformate in organizzazioni gestite direttamente da organizzazioni parastatali o affiliate a organizzazioni pubbliche.
Nonostante ci siano stati, come detto in precedenza, momenti di rallentamento e ripensamento dovuti a cambiamenti politici e a situazioni economiche di fragilità, questo processo ha portato alla creazione di un sistema ibrido tra pubblico e privato che risponde a un desiderio sempre più preciso della Cina di imporsi come luogo “culturale” internazionale, rivendicando un’eccezionalità artistico-culturale propria legata a una storia millenaria di eccellenza. Il tema della Via della Seta tanto caro alle istituzioni cinesi nell’ultimo decennio risponde al desiderio non solo di uscire da un isolamento culturale, ma anche di rendere “comprensibile” l’universo cinese al mondo, in una necessaria conflittualità con il modello americano o filoamericano di quest’ultimo secolo.
In sintesi, e prendendo come esempio Shanghai (città dove vivo da vent’anni) come luogo eccezionale di sperimentazione economica e culturale cinese, ci si trova in questi ultimi anni ad avere un panorama artistico e culturale complesso e di difficile interpretazione, dove musei privati di aziende (creati come “espansione” delle collezioni di queste ultime, come il Long Museum, Yuz, Hvmalaya, Aurora e altri ancora), musei pubblici (PSA, Liu Haisu, Dolan Museum), un piccolo gruppo di gallerie commerciali e un ancora più piccolo numero di progetti indipendenti si dividono una scena artistica vibrante. Nell’ultimo decennio l’eccezionale successo economico dell’arte sia tradizionale che contemporanea come investimento, ha visto la Cina – e, nel mio caso particolare, Shanghai – diventare un luogo in cui l’aspetto commerciale dello yishu di cui sopra, ha creato un ambiente favorevole alla diffusione di produzioni artistiche che coprono bisogni culturali ma anche, come accennato prima, politici ed economici forti. Non è un caso che il governo di Shanghai operi e sostenga fiere come Westbund, alla seconda edizione, o inciti gruppi immobiliari a investire in “prodotti culturali” come nel caso di K11, diventato da quest’anno un museo che presenta arte contemporanea ma anche progetti blue chip come Monet o Dalí.

L’APERTURA AL MONDO. Il concetto di luogo commerciale (mall) come luogo sociale di fruizione artistica nel senso di yishu (cioè design, fashion, arte visiva e così via) è fortemente alimentato e sostenuto dalle istituzioni pubbliche. Gruppi come Value Retail o Lane Crawford o Xintiandi rispondono a questo bisogno costruendo progetti artistici e culturali importanti. Allo stesso tempo è interessante notare come negli ultimi anni ci sia da parte del governo locale (parlo di Shanghai, ma non solo) il desiderio di alzare il tiro e di procedere progressivamente a una presentazione di progetti artistici in loco, o all’estero, maggiormente curati capaci di rispondere in maniera più precisa ai bisogni locali che di generazione in generazione (e qui una generazione cambia ogni 3/5 anni) diventano sempre più sofisticati; dall’altro lato aumenta l’attenzione verso progetti per l’estero che non solo propongano un’immagine più articolata della Cina contemporanea ma soppiantino anche l’idea esotica cinese presentata all’estero da organizzazioni, come per esempio l’Istituto Confucio, più legate a un’idea accademico-educativa che alla volontà di presentare una Cina dinamicamente contemporanea ed evoluta.
Questi ultimi anni si presentano come interessantissimi anche per sinologi come il sottoscritto che vengono sempre più coinvolti in operazioni artistiche e culturali prestigiose in una dimensione transculturale difficile da realizzare solo alcuni anni fa. Mi sembra, e azzardo, di credere e vedere che personalità ibride – dopo aver costruito la propria professionalità nel contesto complesso della Cina degli ultimi trent’anni e aver non solo attinto da essa ma anche contribuito a creare questa ibridizzazione culturale che è la Cina di oggi – hanno sempre maggior rilevanza in questa operazione non solo di traduzione e traslazione, ma anche di interpretazione e sostegno al fine di mostrare come la Cina abbia le potenzialità per essere artisticamente e culturalmente un luogo di innovazione; un aspetto che, se valorizzato come dovrebbe, potrebbe contribuire allo sviluppo artistico e culturale globale in maniera sostanziale.
Del resto la fase postimperialista del mondo moderno sarà realmente realizzata quando finalmente il mondo occidentale si renderà conto – con fatica e con studio – che non si può ignorare e relegare a culture e a manifestazioni culturali marginali quello che è il mondo del prossimo futuro e che, aprendosi a interpretazioni e spiegazioni alternative e complesse, potrà realmente occuparsi dei problemi politico-sociali a cui assistiamo giornalmente. Aprirsi, comprendere, limitare a tratti, ascoltare e interpretare secondo idee multiformi è, credo, uno degli strumenti più adatti per, se non risolvere, almeno spiegare demagogie irrazionali dettate dalla paura e dall’ignoranza.


Davide Quadrio è fondatore e direttore di BizArt, il primo laboratorio artistico senza scopo di lucro a Shanghai. Nel 2007 ha fondato Arthub, una piattaforma per promuovere l’arte contemporanea in e dall’Asia.