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 2015  ottobre 17 Sabato calendario

IL CASO PEROTTI LO CONFERMA: QUANDO L’ECONOMIA SI SCONTRA CON LA POLITICA (RENZI), L’ECONOMISTA È UN UOMO MORTO

Le lezioni del professor Roberto Perotti alla Bocconi riprenderanno a partire da gennaio 2016. È la conferma delle sue dimissioni da Palazzo Chigi, dove da un anno ricopriva un doppio incarico: consigliere del premier Matteo Renzi e co-responsabile della spending review, insieme al deputato pd Yoram Gutgeld. Dicono che Renzi abbia fatto di tutto per trattenerlo, o quanto meno perché non si dimettesse alla vigilia della legge di Stabilità. Niente da fare. Quando Perotti ha letto le bozze della manovra finanziaria, e non vi ha trovato nulla dei tagli alla spesa pubblica che aveva proposto, ne ha dedotto che non aveva più senso perdere altro tempo a Roma. Agli amici che l’hanno sentito al telefono, non ha nascosto la propria delusione, limitandosi a dire che il suo lavoro è finito, e che la palla ora passa al governo e al Parlamento. Con Renzi, non ci sarebbe stata alcuna polemica diretta. Un’uscita di scena senza clamore, come quella del precedente commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, che giusto un anno fa decise di tornare a Washington, al Fondo monetario, dopo avere constatato che Renzi non aveva alcuna intenzione di tenere conto delle sue proposte.
La manovra finanziaria da 27 miliardi annunciata da Renzi sarà pure, come dice il premier, una «legge di fiducia», ma di certo non sembra godere della fiducia di chi, come Perotti, ripeteva da anni che «è giusto ridurre le tasse, ma prima bisogna tagliare la spesa». Un principio quasi elementare, ma fondamentale, al quale aveva ispirato le ricerche sui vari settori della spesa pubblica, portandone alla luce gli sprechi, e in alcuni casi le follie, con i suoi articoli sul sito bocconiano lavoce.info. Dicono che Renzi abbia molto apprezzato quegli articoli, e che per questo abbia chiamato l’autore al suo fianco. Ma di tutte le proposte avanzate da Perotti, finora soltanto una è andata avanti: la riduzione drastica dei centri pubblici di spesa da 36 mila a soli 35. Una vittoria ancora a metà, per ora, poiché si tratta di un principio enunciato nella riforma Madia della pubblica amministrazione, che per diventare realtà richiede il varo di uno o più decreti delegati. Ovvero uno di quei provvedimenti che di solito hanno una gestazione lunga (ancora pochi mesi fa mancavano all’appello i decreti attuativi di leggi varate dall’ultimo governo Prodi nel 2006-2008), gestazione che diventa ancora più laboriosa e complicata quando sono in gioco i privilegi della stessa burocrazia che li deve redigere.
Renzi è tuttavia ottimista: nei 5,5 miliardi di tagli alla spesa indicati nella legge di stabilità, la somma di 1,5 miliardi dovrebbe venire proprio dai risparmi connessi alla riduzione dei centri di spesa; altri 2 miliardi dal mancato aumento del fondo per la sanità; 1,7 miliardi dal taglio semi-lineare del 3% alle uscite dei ministeri, più 300 milioni da altre misure. In totale, poco più della metà dei 10 miliardi di spending review che Perotti e Gutgeld promettevano da mesi in convegni e interviste, a loro dire in accordo con Renzi.
Ma quali sono i tagli che, al dunque, il premier si è rifiutato di fare? Non è un mistero che Perotti ha calcolato con pignoleria i risparmi possibili in vari settori: riduzione del numero delle società partecipate dagli enti locali, scendendo da 8mila a mille; tagli non lineari nei ministeri, bensì mirati per colpire soprattutto gli alti stipendi e i privilegi dei superburocrati e della diplomazia; idem per gli alti stipendi della burocrazia regionale; ulteriore riduzione dei costi della politica. La misura a cui teneva più di tutte riguardava però lo sfoltimento drastico degli sgravi fiscali, che secondo uno studio di Vieri Ceriani, ex di Bankitalia ed ex sottosegretario con Mario Monti, sono ben 476, con un costo annuo per l’erario di 160 miliardi di euro. Una torta enorme, dalla quale a Perotti non sembrava difficile togliere una fettina di 5 miliardi, incidendo soprattutto sui 10 miliardi di sgravi alle imprese.
Ma a questa proposta Renzi ha risposto picche. «Se riduco gli sgravi, i giornali diranno che aumento le tasse. Mentre il messaggio che voglio lanciare agli italiani con la manovra è che il mio governo riduce le tasse», avrebbe detto ad alcuni collaboratori. Così, ecco spiegate l’abolizione dell’Imu-Tasi sulla prima casa, sui terreni agricoli e sugli imbullonati (5 miliardi) e la riduzione delle tasse sulle imprese, tra superammortamenti e decontribuzioni (1,5 miliardi). Nella speranza che tutto ciò rilanci i consumi, e di riflesso anche la ripresa.
Una manovra elettorale, come accusano i critici? Oppure un primo passo nella giusta direzione, visto che l’Italia ha una pressione fiscale tra le più elevate in Europa? A ben vedere, c’è una parte di verità in entrambe le ipotesi. Renzi è un leader dotato di fiuto politico ed è anche fortunato: non è da escludere che ne esca vincitore anche questa volta. A complicargli la vita, probabilmente, più delle opposizioni in Parlamento, sarà ancora una volta la Commissione di Bruxelles, che deve valutare se la manovra italiana è compatibile con i vincoli Ue dell’austerità e della flessibilità. Quanto a Perotti, sarà presto dimenticato: quando la cultura economica si scontra con la politica (Renzi), l’economista è un uomo morto.
Tino Oldani, ItaliaOggi 17/10/2015