Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 13/09/2015, 13 settembre 2015
CARO BYRON, TI SCRIVO
Lord Byron scriveva con un tratto così ingarbugliato che era quasi impossibile riuscire a leggere i suoi versi. Lo ammetteva lui stesso: «Copiare un poema in bella copia è uno strazio intollerabile. E anche se avessi a disposizione un amanuense sarebbe del tutto inutile, poiché i miei scritti sono troppo difficili da decifrare». Una delle poche persone che riusciva a interpretarne la calligrafia era Mary Shelley. Fu lei a trascrivere quasi tutte le opere di Byron per la pubblicazione. Tra i primi lavori, «Ode a Venezia», nel 1818. Tra gli ultimi, «Werner». In mezzo, la trascrizione del controverso capolavoro «Don Juan», che Mary intraprese, dopo la morte del marito Percy Shelley, nel mare di Lerici, e che le servì come distrazione dal dolore. Lo documenta una lettera che Mary inviò a Byron nel dicembre del 1822, insieme alla bella copia del poema: «Il vostro manoscritto era molto difficile da decifrare, chiedo scusa per errori e omissioni. Ho estremamente apprezzato il canto; ha solo alcuni tocchi del vostro stile poetico più alto ma è molto divertente e piacevole. Mi è di conforto avere qualcosa che possa dorare le nuvole scure, ora che il mio sole è tramontato. A volte, quando sono molto malinconica, ripeto i vostri versi in ‘Il Deforme’ e questo per un po’ mi riporta alla vita». La lettera si può vedere, insieme a una copiosa documentazione sui rapporti tra i due autori, nella mostra «Lord Byron in the hand of Mary Shelley», aperta fino al 6 novembre nella Keats & Shelley House di piazza di Spagna, dove i due autori erano arrivati nel 1817. Un anno prima avevano trascorso l’estate a Villa Diodati in Svizzera, insieme a Percy e alla sorellastra di Mary, Claire Clairmont che da Byron ebbe una figlia. Fu un’estate piovosa e i quattro passarono le giornate davanti al caminetto. Per ingannare il tempo Byron propose di scrivere ciascuno un racconto di fantasmi. Fu così che Mary creò «Frankenstein», lo straordinario romanzo che la rese celebre. Poi continuò a copiare i manoscritti del poeta fino alla morte di lui, nel 1824. Le pagine arruffate di Byron sono ora esposte a fianco di quelle ordinate di Mary. C’è la lettera che Byron inviò da Roma al suo editore, Murray, nel maggio del 1817, in cui sottolinea come sia «particolarmente doloroso rendere le r leggibili». Ci sono le lettere dei personaggi che in Italia fecero parte della cerchia di amici di Byron e di Mary e Percy Shelley, e dipinti e incisioni con i ritratti di molti di loro. Come Edward John Trelawny, aspetto moresco e forme erculee, che aveva lavorato nella marina militare inglese e prestato servizio in Oriente. Grande ammiratore di Byron, modellò il suo comportamento sulla scia del «Corsaro». «Dorme con la poesia sotto il cuscino e tutte le sue avventure passate e gli atteggiamenti del presente puntano alla personificazione del mio pirata», annotò Byron. Ci sono i ricordi delle innumerevoli amanti. Come Teresa Guiccioli, sposata a un anziano conte ravennate, che si cimentò anche lei nella trascrizione delle sue opere. Qui viene presentato il manoscritto di Teresa che contiene la copia di varie poesie da «Ore di ozio», il primo volume di versi di Byron. C’è anche un carnet di ballo in guscio di tartaruga con i ritratti di Percy Shelley e di Byron. E una maschera di carnevale in cera, con i resti di una folta chioma e di una barba, indossata da Byron nel carnevale del febbraio 1820 a Ravenna. E un anello che il poeta in seguito donò alla figlia Ada con un biglietto: «Non ha alcun valore lapidario ma contiene i capelli di un re mio antenato». Gli studiosi suppongono che provengano dalla testa di Carlo I.
Lauretta Colonnelli