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 2015  agosto 22 Sabato calendario

PIAZZA VITTORIO, LA LUNGA STORIA DI UN MERCATO

Storie, ricette, curiosità sul mercato multietnico di piazza Vittorio: sono raccolte nel libro «Al di là dei frutti» di Emilia Martinelli e Angela Rossi, edito da Iacobelli. Un lavoro che è nato all’interno del Progetto Mediazione Sociale gestito dalle cooperative Eureka Primo Onlus e Parsec.I ricercatori hanno lavorato per otto anni, dal 2005 al 2013, nel rione Esquilino e nel suo mercato, coinvolgendo commercianti, associazioni, cittadini, artisti. Le interviste si sono trasformate in racconti, illustrati dalle foto di Riccardo Floris. Si sono poi aggiunti brani letterari, a cominciare dalla passeggiata tra le bancarelle descritta nel suo funambolico linguaggio da Carlo Emilio Gadda in «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana»: «Trascorse piano piano davanti alle bancarelle abbacchiare, oltrepassò carote e castagne e attigue montagnole di bianchi-azzurrini finocchi, baffosetti, nunzi rotondissimi d’Ariete: ivi insomma tutta la repubblica erbaria».Nell’immediato dopoguerra, il tempo in cui Gadda scriveva il romanzo, il mercato si svolgeva ancora al centro della piazza Vittorio Emanuele II, la più grande di Roma, con i suoi cinque ettari e mezzo delimitati dai portici e dalle duecentottanta colonne. La piazza fu costruita tra il 1882 e il 1887 secondo i principi dell’urbanistica umbertina. Il mercato nacque spontaneo in seguito all’inaugurazione, nel 1902, dei Mercati generali a viale Manzoni, successivamente spostati a piazza Pepe. Negli anni Settanta si contavano 450 banchi, dislocati secondo il genere delle merci. Il lato orientale era riservato alle gabbie degli animali da cortile: galli e galline, paperi, conigli, che si vendevano vivi e non per compagnia. Le massaie li acquistavano per poche lire, gli tiravano il collo e li buttavano in pentola. In un altro angolo venivano offerti «gli stracci americani». In mezzo, montagne coloratissime di frutta e verdura, coltivata nelle campagne dei Castelli e trasportata con i trenini locali fino alla vicina stazione Termini. I clienti, attratti dall’ottimo rapporto qualità-prezzo, arrivavano da tutta la città, soprattutto il sabato. Finché, nel 1990, il Comune decise che erano diventati troppi i problemi legati alle condizioni igienico-sanitarie e progettò di chiudere il mercato all’aperto e di trasferirlo nell’ex caserma Sani, a due passi dalla piazza. È qui che le autrici del libro hanno setacciato i centottantasei banchi per raccontarne il nuovo volto globale, con prodotti strani che arrivano da ogni angolo del mondo e che cominciano a essere coltivati anche nelle campagne del Lazio. Si scopre così che del banano non si mangiano solo i frutti ma anche i fiori, belle pannocchie violacee che, trifolate in padella, ricordano il sapore del carciofo. Che l’ampalaya è quella verdura bitorzoluta, verde acido, amarissima, che va stemperata con molto latte di cocco per trasformarla in cibo dalle molteplici proprietà terapeutiche. Che la moringa è un albero sempreverde alto fino a otto metri di cui si mangiano foglie e frutti. Che il pak choy, volgarmente detto bietola cinese, ormai si coltiva anche fuori porta. E poi i lab lab, fagiolini piatti, di color viola, usati nella cucina indiana e bengalese. Come il potol, simile a un piccolo cetriolo. In tutto, una cinquantina di alimenti che arrivano da lontano e hanno trasformato il mercato. Imparando a conoscerli e a cucinarli si impara a convivere con il volto multietnico della città.
Lauretta Colonnelli