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 2015  ottobre 14 Mercoledì calendario

TORNA A VIVERE COL MARITO CHE LE HA UCCISO IL FIGLIO

«Proviamo a ricominciare insieme», quattro parole che tengono dentro tutta una vita. Un passato da archiviare, il futuro da ricostruire. In mezzo ci sono l’abisso, la follia e l’amore. Patrizia Silvestri ha perdonato suo marito che un anno fa, in una notte di metà luglio, ha ucciso il loro bimbo di cinque anni. Maxim dormiva nel lettino, i capelli biondi sparsi sul cuscino, quando il suo papà gli si è avvicinato e lo ha strangolato. Lo stesso uomo che due anni prima era andato fino in Russia a prenderlo in adozione, era entrato nella sua stanza piena di giochi e gli aveva stretto il collo fino a togliergli l’ultimo respiro.
«Ha agito in preda a un delirio letale, paranoide e persecutorio», dicono le perizie. Massimo Maravalle aveva problemi psichici e in quel periodo aveva sospeso le cure mediche. La notte dell’orrore Patrizia vede il marito aggirarsi in casa e corre nella stanza del piccolo. Maxim ha un’ecchimosi dietro l’orecchio. Patrizia è avvocato, capisce subito che il suo bimbo è stato strangolato. E che il marito è l’assassino di suo figlio.
Quel piccolo che avevano desiderato da sempre e che, dopo anni di speranza, di pratiche burocratiche e colloqui infiniti, erano riusciti ad adottare adesso era un cadavere nella stanza che avevano pensato per lui.
Massimo Maravalle, giudicato incapace di intendere e volere al momento dell’omi-
cidio e quindi non punibile, dopo poco più di un anno passato nella casa di cura e custodia dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, in provincia di Caserta, è tornato a Pescara. La nuova perizia dello psichiatra Renato Ariatti ha stabilito che Maravalle non è socialmente pericoloso a patto che non sospenda i farmaci. Il gip Nicola Colantonio, per essere certo che segua le cure, gli ha imposto la libertà vigilata. Deve presentarsi due volte a settimana al Centro di Salute Mentale di Pescara.
Massimo è tornato a casa sua. Ad aspettarlo c’era Patrizia. «L’ho perdonato, non era lui in quel momento». Patrizia vuole ricominciare la sua seconda vita nella stessa casa dove è finita la prima. Anche il marito di Annamaria Franzoni è rimasto accanto alla sua donna, ma lui nonostante le condanne, è sempre stato certo della sua innocenza. Patrizia no. Patrizia sa che suo marito ha ucciso il loro bimbo. Lo ha visto in quella notte di follia, ha visto il papà amorevole trasformarsi in spietato assassino, il marito premuroso ingoiato dalla forza misteriosa di un raptus omicida, eppure non lo ha mai lasciato solo in mano a giudici, psichiatri e periti. Lei c’è sempre stata e lo ha difeso. «Nessuno ci ha messi davvero in guardia sui rischi della malattia e la sospensione dei farmaci era stata concordata», ha ripetuto più volte.
È stata l’arringa più difficile della sua vita perché ha dovuto difendere Massimo prima di tutto da se stessa e dai suoi pensieri peggiori: «La perdita di Maxim è il dolore più grande che abbiamo. E Massimo è ancor più affranto per non aver compreso che la malattia gli faceva vedere le cose in maniera completamente distorta». Patrizia ha dato tutte le attenuanti a suo marito, ma soprattutto gli ha concesso l’appello che nessun Tribunale prevede: quello dell’amore assoluto. Tanto incondizionato da apparire folle. Ma si può davvero continuare ad amare l’uomo che ha ucciso il tuo bambino? Si può guardarlo negli occhi senza pensare che la follia potrà deflagrare ancora come un fulmine nel silenzio della casa? Poi le mani. Patrizia riuscirà a guardare le mani di suo marito senza pensare che proprio quelle mani che al mattino sollevano la tazza del caffè e che la cercano di notte hanno tolto la vita al suo piccolo Maxim?