Alessandra Parla, Libero 14/10/2015, 14 ottobre 2015
IL TRIVIAL PURSUIT DEGLI OGGETTI-SIMBOLO
«Una storia attraverso gli oggetti sarebbe impossibile senza i poeti». Su questo, il direttore del British Museum, Neil MacGregor, non transige. Ma se è vero che i poeti siamo anche noi che leggiamo, una storia attraverso gli oggetti non solo è possibile, ma la si può pure rivivere. Giocandoci. Con i ricordi, con la fantasia, con degli indovinelli. A Milano, allo spazio Folli 50.0 (zona Lambrate), Francesca Molteni ci ha provato con la mostra Il grande gioco dell’industria, promossa da Museimpresa e visitabile fino al 31 ottobre. E ci è riuscita. In quella che è stata la storica sede dell’azienda farmaceutica Bracco, la giornalista del Sole 24 Ore ha curato un’esposizione iconografica di 50 +1 oggetti che hanno fatto la storia dell’impresa italiana. E il bello è che ci si può anche giocare. Proprio così, giocare. Avete presente le domande trabocchetto del Trivial Pursuit che infiammano gli amici attorno a un tavolo, quegli indovinelli da azzeccare per tirare ancora il dado e portarsi avanti sulle caselle? Ecco, nel «grande gioco dell’industria» funziona esattamente così. In una sorta di macchina del tempo stampata su dei pannelli rettangolari, il visitatore si diverte a viaggiare a ritroso nel tempo tra bottiglie di Campari, Vespe, confezioni di pasta Barilla e magliette Fila indossate da campioni del calibro di Borg. Il “quizzettone” è concepito come un racconto amarcord del made in Italy, come un’esplorazione nel mondo delle invenzioni che hanno segnato il progresso del Belpaese. Si parte dal 1733, con: «La spoletta è il simbolo della Rivoluzione industriale, perché: a) incrementa la tessitura, b) incrementa la filatura, c) incrementa il finissaggio», per arrivare al 1998 con «L’elmetto giallo Aem è stato realizzato in occasione: a) della quotazione in Borsa, b) del cinquantesimo anniversario, c) dell’ottantesimo anniversario». I quesiti continuano via via tessendo il fil rouge della cronologia e poi, attraverso un percorso multidisciplinare e interattivo, si ripercorre la storia, l’arte, il design e la tecnologia di alcuni prodotti più o meno vintage e simbolici. La mostra si guarda e si tocca. Su due tavoli al centro della sala campeggiano le top ten del passato, quelle che riportano alla memoria l’Italia che più Italia non si può. Sono le bottiglie di Martini e Campari, le regine degli aperitivi davanti alle quali sono nate e finite storie d’amore; sono le caffettiere, e come non pensare a De Andrè sulle note di Don Raffae’; sono le «Bionde Peroni», chiamatele e saranno le vostre birre. Sono le prime schedine Sisal, genialata di tre giornalisti e croce e delizia di tutti gli uomini (ma non solo). Sono i sandali brevettati da Ferragamo, le Cenerentole ringraziano: «Una scarpa può cambiarti la vita». E infine c’è la grande protagonista, la pressa Catozzo, la rivoluzione che ha fatto il cinema italiano. Federico Fellini la utilizzò nel montaggio del capolavoro che gli valse un Oscar e una Palma d’oro, La dolce vita. Pensate alla sensuale camminata di Anita Ekberg dentro la Fontana di Trevi: quel «Marcello come here» senza quella pressa non avrebbe girato la storia. Sono tutti figli dell’industria italiana, grandi traguardi raggiunti che racchiudono l’essenza stessa della nostra società: la cultura. Francesca Molteni sostiene che dietro tutti questi oggetti ci sia «qualcosa che ha rappresentato un passo avanti, un salto di qualità». In realtà a comporre i pezzi di questo puzzle hanno contribuito musei, aziende e fondazioni che, sulle pagine de Il Domenicale del Sole 24 Ore, hanno raccolto la sfida lanciata daMuseimpresa e per l’occasione hanno tirato fuori la carta d’identità dei loro manufatti per metterli in mostra.