Giovanni Fontana, Limes: Tra Euro e Neuro 7/2015, 15 ottobre 2015
I GRECI, IL TEDESCO E LA NAVE PIRATA
1. «Quale sarà il giorno più bello della mia vita? E se fosse già passato?». È la domanda che tutti ci siamo posti da bambini, quando è improbabile che quel giorno sia già alle spalle. Poi, col passare degli anni e l’accumularsi dei giorni, diventa sempre più possibile; fino a quando ti rendi conto che quel giorno potrebbe davvero essere passato. Per fortuna non se ne è mai certi, non si può mai sapere: il giorno più bello potrebbe sempre essere domani.
La Grecia calcistica, invece, lo sa. Il giorno più bello è stato ieri, quando – contro ogni logica e ogni pronostico – ha vinto l’Europeo del 2004. Dopo aver vinto la finale Otto Rehhagel, commissario tecnico della Grecia, dichiarò: «Ci sono sempre delle sorprese. Pensate a quando la Corea del Nord ha battuto l’Italia ai Mondiali del 1966 in Inghilterra. Questa volta la sorpresa siamo noi» [1]. Sembra una frase autocelebrativa, ma è poco meno di un eufemismo: la solidità e la costanza di quella Grecia pone tale vittoria su un altro livello rispetto a qualunque successo estemporaneo.
Il calcio è uno sport in cui si fanno pochi goal e in cui il controllo del gioco non garantisce la vittoria. Questo permette, ogni tanto, qualche risultato sorprendente: così la Corea del Nord, o più recentemente il Pontedera, può battere la Nazionale italiana, o il Senegal alla sua prima partita a un Mondiale può vincere con la Francia campione uscente. Ma si tratta di una sola partita, in cui il caso incide più facilmente. In un intero torneo, giocando diverse gare contro squadre nettamente più forti, il caso cede il passo alla tecnica. Tutti ricordiamo quella volta che l’ultima in classifica ha battuto la prima, ma non è mai successo che quella che doveva essere l’ultima in classifica vincesse il campionato. È per questo che la vittoria greca all’Europeo del 2004 è la più grande sorpresa della storia del calcio.
Il cammino di quella squadra verso il Campionato europeo cominciò con due sconfitte: la Spagna vinse 2-0 ad Atene, sconfitta che fu replicata in Ucraina il mese successivo. Spagna e Ucraina erano le due squadre considerate più forti della Grecia nel girone di qualificazione e le favorite per accedere all’Europeo: la prima si qualificava direttamente, la seconda si sarebbe scontrata contro un’altra seconda di un altro girone. Per ottenere la qualificazione la Grecia doveva fare più punti di entrambe le nazionali oppure di almeno una e disputare lo spareggio. E il torneo di qualificazione era cominciato con due sconfitte, entrambe per 2-0, proprio contro queste due squadre. In questo momento chiunque avesse scommesso mille euro non soltanto sulla qualificazione della Grecia, ma sulla sua vittoria dell’Europeo, sarebbe diventato multimilionario.
Dopo quelle due sconfitte, la Grecia non solo vinse tutte le restanti sei partite, ma riuscì a non subire più goal: 2-0, 2-0, 1-0, 1-0, 1-0, 1-0. Il primo 1-0 fu la vittoria in casa della Spagna, quando la reputazione della Grecia come squadra difensivista e cinica cominciò ad affermarsi. La settimana successiva la Grecia vinse ancora per 1-0, questa volta con l’Ucraina, e superò la Spagna in classifica. Segnando il doppio dei goal della Grecia (16 contro 8), la Spagna fu costretta allo spareggio. Era la prima volta dal 1980 che la Grecia guadagnava l’accesso al Campionato europeo, e la seconda volta in assoluto. La squadra non si era neppure qualificata al Mondiale precedente. Invero l’unico Mondiale al quale la Grecia aveva partecipato – in diciassette edizioni – era stato quello del 1994, in cui fu eliminata con tre sconfitte, senza segnare goal e subendone dieci. Qualificarsi all’Europeo fu un successo inaspettato. Il tedesco Otto Rehhagel venne in televisione a cantare l’inno greco, per certificarne la grecità, e lui acconsentì.
Nonostante l’ottimo girone di qualificazione, i numeri dicevano che la Grecia era la peggiore squadra del torneo, a eccezione della Lettonia. Il coefficiente Uefa, usato per determinare le teste di serie, la relegava al penultimo posto e il sorteggio dei gironi fu conseguentemente spietato: la Grecia capitò con il Portogallo padrone di casa, con la Spagna e con la Russia. Un pareggio con la Russia era probabilmente il massimo a cui i greci potevano aspirare. Le quote dei bookmakers davano la vittoria della Grecia nel torneo 150 a 1.
2. L’organizzazione dell’Europeo prevedeva che la prima partita fosse quella fra il Portogallo, che ospitava la manifestazione, e la peggiore Nazionale del suo girone, quella pescata dall’ultima urna. Portogallo-Grecia si tenne al termine della cerimonia d’apertura dell’Europeo, durante la quale una barca che simboleggiava le spedizioni degli esploratori portoghesi cavalcava le onde formate dalle bandiere di tutti i paesi partecipanti. Commentando questa coreografia il radiocronista greco Georgios Helakis chiosò: «Dato che i portoghesi si sono presentati con quella nave, è il momento di trasformarci in pirati e rubargli la vittoria». Lo stile di gioco «di rapina» – cioè attento a concretizzare le proprie poche sortite offensive per poi richiudersi in difesa – e la permanente condizione di sfavorita che la Grecia fronteggiava a ogni partita, fecero sì che la metafora della scorribanda attecchisse. Piratiko, la nave pirata, diventò il soprannome della Nazionale greca.
Il primo goal lo fece Giorgos Karagounis, il giocatore più conosciuto della squadra, al sesto minuto con un gran tiro da fuori area. Il secondo goal lo segnò Angelos Basinas su calcio di rigore, assegnato per un fallo di un giovanissimo Cristiano Ronaldo. Nei minuti di recupero proprio Ronaldo accorciò le distanze: finì 1-2 per i greci. Quella fu la prima vittoria in una competizione internazionale per la Nazionale greca. Fu anche l’unica volta in tutto il torneo in cui la Grecia realizzò due reti. Il risultato fu celebrato come una notevole sorpresa, ma anche come l’evento estemporaneo che capita ogni tanto in una manifestazione simile. Tanto più che la partita successiva avrebbe visto la Grecia scontrarsi contro un’altra squadra ben più quotata, la Spagna.
La Grecia si ritrovò nuovamente a giocare con la Spagna dopo averla incontrata due volte nelle qualificazioni. Lì era stata chiara la schiacciante superiorità tecnica spagnola, ma le squadre erano finite a dividersi la posta. Successe la stessa cosa anche all’Europeo: la Spagna andò in vantaggio nel primo tempo, ma a metà del secondo Angelos Charisteas pareggiò. A conferma di come la strategia greca fosse quella di aspettare gli avversari e provare a segnare in contropiede, quella fu l’unica volta – fra qualificazioni ed Europeo – che la Grecia riuscì a recuperare uno svantaggio. Alla fine della partita, terminata 1-1, Rehhagel e tutta la panchina greca si abbracciarono esultando come per una vittoria.
Nell’ultima partita del girone, contro la Russia, sarebbe però mancato Karagounis: era il giocatore più tecnico della Grecia, nonostante facesse il panchinaro in Italia all’Inter, ed era noto per le sue continue proteste nei confronti degli arbitri, per cui veniva spesso ammonito. In Portogallo era stato ammonito in entrambe le prime partite, venendo così squalificato per quella con la Russia. Nell’ultimo Europeo, quello del 2012, Karagounis ha avuto un riscatto a metà, segnando proprio contro la Russia un bel goal che ha dato alla Nazionale greca quella che, al di fuori della miracolosa spedizione del 2004, è l’unica vittoria in un Europeo. Fu un riscatto a metà perché anche in quel caso fu ammonito per proteste, e saltò la successiva partita, nella quale la Grecia fu eliminata.In ogni caso, anche senza Karagounis, alla Grecia bastava pareggiare contro una Russia già eliminata dopo due sconfitte. Senza preoccuparsi di dare riposo a chi avrebbe giocato quattro partite in meno di due settimane, Rehhagel schierò la formazione titolare quasi per intero. Dopo due minuti la Grecia stava già perdendo, dopo diciassette minuti era 2-0 per la Russia. Per fortuna dei greci Vryzas – che veniva anche lui dall’Italia, dove aveva giocato in serie B con la Fiorentina – raccolse una sponda in area e fece il 2-1. La Russia continuò ad attaccare e negli ultimi minuti Kirichenko mancò di poco il goal che avrebbe eliminato i greci. Russia-Grecia finì 2-1.
Nell’altra partita il Portogallo superò la Spagna e finì primo nel girone, nonostante la sconfitta nella partita inaugurale. Con questi risultati, per stabilire il secondo posto, c’era bisogno di prendere in mano il regolamento. Le regole del torneo stabilivano che la classifica venisse determinata in primis dai punti, e Grecia e Spagna erano pari. In caso di parità di punti nel gruppo, avrebbe passato il turno chi aveva fatto più punti negli scontri diretti. Lo scontro diretto era stato pareggiato, quindi Grecia e Spagna erano di nuovo pari. Poi il regolamento prevedeva che si contassero la differenza reti e i goal realizzati negli scontri diretti. Ma per la stessa ragione le due squadre erano pari anche in queste due voci. Il criterio successivo, il quinto, era la differenza reti complessiva. La Grecia aveva fatto 4 goal e ne aveva subiti 4, la Spagna ne aveva fatti 2 e subiti 2. Anche in questo caso Grecia e Spagna erano pari. Il sesto criterio, quello del maggior numero di goal fatti, premiò la Grecia. È un paradosso che il sottilissimo ago della bilancia che permise di qualificarsi a quella Grecia – passata alla storia per il suo calcio difensivo – sia stato un criterio introdotto per favorire le squadre più offensive: quello che a parità di tutto il resto privilegia il maggior numero di goal fatti (e quindi subiti).
3. C’è uno spassoso sketch dei Monty Python in cui la Grecia vince un Campionato del mondo di calcio giocato dai filosofi. Dopo l’eliminazione in semifinale dell’Inghilterra del «celebre trio di centrocampo Bentham-Locke-Hobbes», la finale è fra la Grecia di Socrate, Platone e Aristotele e la Germania di Kant, Hegel e Nietzsche. Durante l’intera partita non succede assolutamente nulla, ma all’ultimo minuto Socrate regala alla Grecia il goal vittoria, 1-0 e Coppa del mondo ai greci.
Nella fase a eliminazione diretta la Grecia cercò di ricalcare le dinamiche di quello sketch: ovvero tentò di far sì che in ciascuna partita non succedesse nulla per poi segnare un goal negli ultimi minuti. Sarà la glorificazione dell’1-0, punteggio con il quale la Nazionale di Rehhagel vinse le restanti partite dell’Europeo. Infatti, da questo momento in poi la porta della Grecia rimase inviolata, portando all’estremo più impeccabile il concetto che l’aveva fatta arrivare fino alle eliminatorie: l’avversaria è più forte, quindi è suo dovere provare a vincere. A noi lo 0-0 va bene e lo difendiamo; se riusciamo a fare un goal, 1’1-0 ci andrà ancora meglio e lo difenderemo ancor di più.
Perdere il primo posto nel girone significa incontrare una delle prime classificate: alla Grecia capitò la Francia campione in carica. La partita andò come forse aveva previsto soltanto Rehhagel: la Grecia mantenne sempre un uomo in più della Francia sia sulla linea difensiva greca che sulla trequarti francese e la Francia non riuscì a superare questo muro. A metà del secondo tempo un cross dalla destra di Theodoros Zagorakis, il capitano della squadra, incocciò la testa di Charisteas per l’l-0 greco. La Francia provò a reagire, ma il fortino greco resistette. La Grecia diventò la prima squadra a battere la Nazionale padrona di casa e quella campione in carica nello stesso torneo.
In semifinale la Grecia incontrò la squadra che tutti identificavano come la più in forma dell’Europeo, oltre che la favorita per i bookmakers: la Repubblica Ceca. Aveva giocatori come Nedvěd [2], Rosick e Poborsk, oltre che il capocannoniere e il miglior portiere del torneo: rispettivamente Milan Baroš e Petr Čech. I cechi avevano dominato il proprio girone, battendo prima l’Olanda e poi, già qualificata e con undici panchinari in campo, la Germania. Era l’unica squadra del torneo ad aver vinto tutte le partite giocate. Aveva fatto dodici goal in quattro partite, non segnandone mai meno di due.
Il canovaccio della partita fu il medesimo: la Grecia che prova a non far segnare i cechi, e questi che arrembano nell’area avversaria. Nei primi minuti della partita Rosick colpì una traversa dal limite dell’area e il portiere greco Nikopolidis fece diverse parate sugli attaccanti cechi. Nel secondo tempo la partita rallentò il ritmo e si arrivò ai supplementari. Nel recupero del primo tempo supplementare un cross dalla destra su corner di Tsiartas incontrò la testa di Traianos Dellas – anche lui panchinaro in Italia, alla Roma – che portò in vantaggio la Grecia. Quell’anno la Uefa aveva deciso di sperimentare il cosiddetto silver goal, che decretava la fine di una partita al termine del primo tempo supplementare se una delle squadre fosse andata in vantaggio. Dellas segnò addirittura nel recupero del primo tempo supplementare, quindi non ci fu neanche il tempo di ricominciare a giocare. Dopo quel torneo, il silver goal fu abolito e la Grecia rimane a oggi l’unica squadra ad aver vinto una partita grazie ad esso.
Contro la Francia e contro la Repubblica Ceca Karagounis fu di nuovo ammonito. Così fu ancora squalificato, questa volta per la finale, ottenendo il particolare record di essere l’unico giocatore a essere stato squalificato due volte nella competizione, prendendo un cartellino giallo in ciascuna delle partite giocate. In finale la Grecia si trovò nuovamente di fronte i padroni di casa del Portogallo, che dopo la sconfitta nella prima partita avevano vinto tutte quelle successive. Era la prima volta che la finale di un torneo ripeteva l’incontro inaugurale.
Senza il suo giocatore più tecnico, Rehhagel inserì un altro centrocampista di contenimento e impostò un’altra partita alla ricerca della supremazia difensiva. Le cose andarono ancora una volta come Rehhagel avrebbe voluto e dopo un primo tempo chiuso sullo 0-0, al 57’ Charisteas colpì di testa in rete un altro cross dalla destra su calcio d’angolo. Il Portogallo si riversò in avanti, ma senza che la Grecia si scomponesse. Le conclusioni di Ronaldo, Figo e Carvalho finirono fuori o parate da Nikopolidis, e la Grecia si laureò campione d’Europa.
4. Durante i festeggiamenti per la vittoria la folla greca cantò più volte il coro «Dio è tedesco», in onore a Re Otto (l’appellativo di Ottone, primo re di Grecia), come venne chiamato Otto Rehhagel. Gli fu offerta la cittadinanza greca e fu il primo straniero a essere nominato personaggio greco dell’anno. Il suo ruolo di comandante della nave pirata fu esaltato da tutti. In questo momento storico dire che un tedesco ha guidato la Grecia alla conquista dell’Europa attraverso la disciplina, la concretezza e il rigore sembra una battuta [3]. Eppure è esattamente quel che è successo.
Il commento a caldo di Rehhagel dopo la vittoria fu: «Abbiamo sfruttato le nostre occasioni. L’avversario era tecnicamente più forte, ma abbiamo sfruttato le nostre occasioni. Dovevamo vincere 2-0» [4], una dichiarazione che dà la perfetta misura di quali fossero le aspettative che Rehhagel aveva nei confronti dei suoi calciatori. Stiamo parlando di una partita in cui il Portogallo ha dominato il possesso palla, ha fatto diciassette tiri contro i quattro della Grecia, di cui nello specchio 5 a 1 (l’unico, con cui la Grecia ha vinto) e nella quale il Portogallo ha battuto dieci calci d’angolo, mentre la Grecia uno (quello sul quale ha segnato il goal della vittoria). Dire che una partita simile bisognava vincerla 2-0 significa avere in testa una precisa idea di parossistica concretezza calcistica, una concezione quasi economica di massimo rendimento con il minimo sforzo, nella quale la propria squadra non può mai fallire un’occasione, mentre gli avversari devono fallirle tutte.
Come ha scritto il cronista croato Ozren Podnar, «i giocatori di cui [Rehhagel] assunse la guida nel 2001 non erano fuoriclasse e qualunque allenatore o scrittore di calcio lo sa bene. Il tedesco prese un gruppo di calciatori tecnicamente validi, ma imprevedibili e per nulla professionali, ne sfruttò l’enorme ardore patriottico, gli impartì una formazione quasi militare e li preparò per la conquista dell’equivalente calcistico di Troia». Rehhagel riuscì a sopperire con l’organizzazione e la disciplina (la «parola magica», come disse prima dell’Europeo) ai limiti tecnici della sua squadra. Rimpinzò la squadra di giocatori affidabili a cui era assegnato un compito preciso che svolgevano ossessivamente. A chi, a posteriori, gli chiese come aveva fatto a rivoluzionare la Nazionale greca, rispose: «Prima facevano quello che volevano, ora fanno quello che possono» [6]. Si concentrò sempre sul limitare i punti di forza della squadra avversaria, preparando religiosamente le situazioni più estemporanee come i calci piazzati, e creando così l’archetipo del calcio difensivo.
Il calcio di Rehhagel prevedeva delle strettissime marcature a uomo, oramai considerate da tutti un metodo di gioco anacronistico, e da lui rivendicate anche istrionicamente. Una volta, per spiegare che voleva delle marcature a uomo molto strette, disse: «Voglio sapere il tipo di dopobarba usato da ogni giocatore d’Europa» [7]. Prima della partita dei quarti di finale contro la Francia, parlando del campione avversario Thierry Henry, sul quale aveva evidentemente preparato molto intensamente i suoi giocatori, raccontò: «Ho detto ai ragazzi: non vi prendete troppa paura se Thierry Henry vi appare in sogno stanotte» [8].
Naturalmente questo difensivismo attirò le antipatie di più di un tifoso: la Grecia non era soltanto brutta da vedere, ma il suo obiettivo era rendere brutta anche l’altra squadra, anestetizzare ogni partita. Neanche la reputazione di outsider; di cenerentola in mezzo alle grandi corazzate europee, valse alla Grecia molte simpatie. L’inviato del Guardian Barry Glendenning scrisse durante la finale che la Grecia era «l’unica sfavorita della storia che tutti vogliono vedere battuta» [9]. In molti consideravano questo modo di giocare un’offesa al calcio, sottolineando che è meglio perdere una partita che vincere giocando questo calcio estremamente speculativo. Se tutti facessero così il calcio diventerebbe uno sport noiosissimo.
In realtà fare tutti così non era per niente facile. Rehhagel diede una sistematicità non soltanto strategica, ma anche tattica alla propria preparazione delle partite, declinando un atteggiamento coerente in molti modi diversi a seconda dell’avversario che doveva incontrare. Più di tutto introiettò il ruolo di outsider nella maniera più organica: dato che la Grecia era la squadra sfavorita in tutte le partite, era lei a doversi adattare al gioco degli altri. Così Rehhagel batté la squadra campione in carica, la squadra più forte del torneo e la squadra ospitante adottando una formazione che si plasmava su quella dell’avversario.
Rehhagel voleva sempre avere un difensore in più degli attaccanti avversari e un centrocampista difensivo in più dei trequartisti avversari, così da avere sempre un uomo a coprire nel caso una delle marcature a uomo saltasse. Contro la Francia, che metteva in campo una formazione asimmetrica con una punta e mezzo (Trezeguet e il già citato Henry), giocò anche lui con una difesa asimmetrica, che passava dall’essere una difesa a quattro (quindi con due centrali) a una difesa a 3/5 (con tre centrali), con il terzino Seitaridis che si accentrava nel ruolo di difensore centrale quando Henry si avvicinava alla porta. L’altro terzino, Fyssas (che aveva rimandato il matrimonio previsto inizialmente per i giorni della finale), teneva a bada l’unica ala francese, Pirès, lasciando così Trezeguet in mezzo a due difensori, Dellas e Kapsis, e il trequartista Zidane in mezzo a due centrocampisti difensivi, Basinas e Katsouranis.
La Repubblica Ceca giocava un classico 4-4-2, con due punte e due ali, quindi Rehhagel confermò una difesa a cinque anche più statica, tenendo sempre un difensore in più rispetto agli attaccanti avversari. Nella finale con il Portogallo, si trovò di fronte una squadra che giocava in modo completamente diverso: un 4-2-3-1 con una sola punta e tre trequartisti alle sue spalle. Anziché seguire il detto «squadra che vince non si cambia», Rehhagel modificò la squadra che aveva battuto Francia e Repubblica Ceca, comportandosi ancora da sfavorito e cucendo una squadra su misura dell’avversario. Questa volta giocò con una vera difesa a quattro – lasciando perciò la punta e le due ali portoghesi in inferiorità numerica – aiutata da tre centrocampisti di contenimento a coprire gli inserimenti dei centrocampisti centrali. Dopo il goal di Charistesas, per l’ultimo quarto d’ora, tolse l’esterno d’attacco Giannakopoulos per mettere un altro terzino, Venetidis, e concluse l’Europeo con otto giocatori difensivi in campo oltre al portiere.
L’eclettismo e l’adattabilità della fase difensiva avevano complemento nella coerenza e nella concretezza della fase offensiva. La sua squadra non aveva molte opzioni e quelle poche andavano sfruttate. La Grecia vinse quelle tre partite con lo stesso risultato, 1-0, giocando allo stesso modo, di rimessa sugli esterni, segnando sempre lo stesso goal, di testa su cross dalla destra. Non succede per caso.
5. Quando, durante la seconda guerra mondiale, i greci resistettero strenuamente all’invasione fascista, Winston Churchill pronunciò il celebre aforisma: «D’ora in poi non diremo che i greci hanno combattuto come eroi, ma che gli eroi hanno combattuto come greci». Era una frase sufficientemente retorica perché fosse ripetuta più volte dopo la vittoria all’Europeo. C’è dentro tutto: il successo contro un nemico molto più attrezzato, le vestigia di un passato glorioso, ma soprattutto l’eroismo.
A chi gli contestava il proprio calcio troppo difensivo e una nomea di provincialismo che si portava dietro dalla Germania, Rehhagel rispondeva che «nessuno deve dimenticare che un allenatore adatta la tattica alle caratteristiche dei giocatori a disposizione». In effetti, il suo Werder Brema – con qualità così diverse da quella Grecia – era stata una squadra che giocava un bel calcio offensivo. Ma quella frase non va intesa in senso prettamente tattico, ha un marcato significato umano: le «caratteristiche dei giocatori a disposizione» sono anche quelle caratteriali e Rehhagel è riuscito magistralmente a capitalizzare la «grande abnegazione e lo spirito di sacrifico» [10] dei giocatori che si è trovato ad allenare. Quelle erano le loro migliori qualità e il suo compito è stato valorizzarle.
Per questo «eroica» è stato l’aggettivo più associato a quella squadra: proprio perché quella vittoria è stata tutt’altro che schiacciante. Nell’ultimo Europeo la finale è stata vinta 4-0 dalla Spagna contro l’Italia. Una vittoria grandiosa, solenne, quasi annichilente, ma non eroica. E non poteva esserlo, perché quello era l’esito che tutti si aspettavano, che rifletteva i valori in campo. Per essere eroici bisogna combattere su ogni pallone che può valere la difesa dell’1-0 ottenuto con enorme fatica. Non a caso l’uomo simbolo della squadra, quello eletto come giocatore del torneo dall’Uefa, non è stato quello che ha fatto più goal, Charisteas (il capocannoniere della squadra nel senso che è l’unico ad aver fatto più di un goal), ma quello che ha fatto più tackle dell’intero Europeo, il capitano Zagorakis, perfetta incarnazione della grinta della squadra (oggi fa il parlamentare europeo).
C’è un’altra cosa ovvia: quando ci si scontra con degli avversari più forti la gran parte delle volte si perde. Per questo l’eroismo è dato anche dalla rarità dell’impresa, dalla sua irripetibilità, ben esemplificata dalla peculiarità di quel cammino europeo pieno di prime volte, di record, di coincidenze: dalle qualificazioni alla finale la Grecia non è mai stata raggiunta dopo essere andata in vantaggio; in tutto il torneo non ha mai vinto o perso con più di un goal di scarto; nella fase a eliminazione diretta non ha mai subito goal, ha sempre vinto 1-0 segnando sempre un goal di testa; ha sempre avuto diversi ammoniti (18 in tutta la competizione), ma mai un espulso. Se il torneo si fosse giocato con un’altra formula, la Grecia avrebbe probabilmente perso: basta pensare che, nell’arco dei 90 minuti delle partite giocate, ha fatto meno punti del Portogallo, nonostante l’abbia battuto due volte, e della Repubblica Ceca. Ma la Grecia ha fatto sempre l’indispensabile con precisione – per quella formula, per quel torneo, per quelle partite – con un grado di perfezione semplicemente estraneo al calcio.
Tanto estraneo e tanto peculiare da essere irripetibile, com’è dimostrato dai contraltari di quei record e di quelle prime volte. Un anno dopo, alla Confederations Cup del 2005, la Grecia arrivò ultima nel proprio girone, unica squadra campione d’Europa nella storia della competizione a fare così male. Neppure si qualificò ai Mondiali del 2006. All’Europeo successivo, quello del 2008, dov’era qualificata di diritto, perse tre partite su tre, uscendo al primo turno, unica squadra campione in carica a non aver fatto neanche un punto nell’edizione successiva.
Rimane aperta la domanda più antipatica, quella che si è costretti a fronteggiare date tutte le evidenze di improbabilità di quel percorso trionfale: quanto ha contato la fortuna? Può una squadra fare un exploit simile e perdere tutte le sue caratteristiche migliori nel giro di un paio d’anni? Può un tale livello di precisione ed efficienza anche soltanto esistere, indipendentemente dal caso? Qualunque tattica che preveda di vincere sempre con il minimo scarto è inevitabilmente fallibile, per i mille eventi fortuiti che possono tradire le aspettative e far andare storto quanto pianificato: la perfezione non è di questo mondo.
Sull’argomento Rehhagel è sempre stato reticente, ma è difficile che un motivatore così convinto dell’efficacia dei propri princìpi possa accettare integralmente questa spiegazione. Probabilmente la migliore risposta è quella che diede Alan Ball, campione del mondo con l’Inghilterra nel 1966: «Non credo nella fortuna. Ma credo che ce ne sia bisogno!» [11]. Se l’avesse detta Rehhagel sarebbe stata una risposta perfetta, ma la perfezione non è di questo mondo.
1. «Greeks Hail Historic Triumph», Bbc, 5/7/2004.
2. Pallone d’oro in carica (n.d.r.).
3. Un paio d’anni fa Angela Merkel nominò Rehhagel «ambasciatore delle buone intenzioni» e lo spedì ad Atene per risollevare la pessima immagine della Germania in Grecia. Anni prima, spiegando il suo intricato rapporto con i due paesi, Rehhagel disse: «Io ho tre cuori: due sono tedeschi, ma uno è greco».
4. «Greeks Hail Historic Triumph», cit.
5. «Rehhagel: “Discipline Key to Greek Success”», Reuters, 25/5/2004
6. «They Said It: Otto Rehhagel», Fifa, 3/4/2009.
7. Ibidem.
8. Ibidem.
9. B. Glendenning, «Portugal 0-1 Greece», The Guardian, 4/7/2004.
10. Dalla definizione di «eroe» del vocabolario Treccani.
11. O. BLAIR, «Football: Spaghetti, Baths, Boots and Waddle’s Underpants; on the Wacky Ways Footballers Try to Be Lucky Stars», The Independent, 31/1/1998, p. 22.