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 2015  ottobre 15 Giovedì calendario

MARINO È VIVO, MA NON LOTTA...

Campidoglio, sede del Comune di Roma. Martedì 13 ottobre, nel day after delle dimissioni «vere» di Ignazio Marino, ci sono ignari turisti giapponesi da una parte, sparuti personaggi di Casa Pound e M5s insieme, Sel dalla parte opposta per non finire nelle foto con i fascisti del terzo millennio e i grillini. Se viene Tim Burton fa un capolavoro. Non c’è neanche una mezza bandiera del Partito democratico. I «Forza Marino», sostenitori del sindaco, stazionano sotto il Nazareno; ultimi disperati tentativi di far vedere che qualcuno nella capitale vuole ancora bene al «marziano». Il (fu) sindaco di Roma non ha ancora liberato il suo ufficio, ma dirigenti e capibastone del Pd sono già riuniti per organizzare il post-Marino, con incontri privati e assemblee pubbliche (lunedì 12 ottobre nel Primo Municipio ce ne sono state ben tre). E già da giovedì 8 ottobre.
Insomma, la macchina delle correnti, ma forse sarebbe più corretto chiamarle «bande», s’è rimessa in moto. «Che cambia se quelli che danno le carte, i soliti quattro che a Roma impongono candidati e risultati, non variano mai?» dice Tommaso Giuntella, ex presidente del Pd capitolino e capogruppo nel Primo Municipio.
A Roma, dunque, è ricominciata la guerra per bande, che riparte regolarmente sotto nuove elezioni. Con divertenti paradossi: di solito, chi ne guida una si scaglia contro il partito romano che è un «ammasso di correnti», come disse persino Goffredo Bettini, deus ex machina e matrice di tutte le altre componenti, come vengono definite con linguaggio politicamente corretto. Una volta il politico-scrittore democratico Antonio Funiciello (che oggi lavora a Palazzo Chigi, al fianco di Luca Lotti) spiegò la loro funzione, sul quotidiano Europa, e invitò a distinguere: «Le correnti servono. Sono indispensabili. E non c’è niente di male se costruiscono protezionie tra i correntisti, purché questi siano legati da un vissuto culturale comune. Le correnti costituiscono naturalmente un sistema di convenienze reciproche fondato su convinzioni condivise. Le filiere, viceversa, costruiscono un sistema di convinzioni fondato su convenienze: come è oggi, per lo più, nel Pd».
Era il 2013, prima del congresso, che non solo poi ha mantenuto intatte le filiere nazionali, a partire da quella del presidente del Consiglio Matteo Renzi, ma ha generato ancor più confusione fra i sottogruppi romani, il più variegato d’Italia. Al prossimo giro, peraltro, potrebbe esserci pure quella dei «mariniani», che vorrebbero presentare una lista civica contro il Pd; probabilmente non vincerebbe, ma toglierebbe voti preziosi, in una sfida delicata nella quale il Movimento 5 stelle potrebbe giocare le sue carte.
Un tempo a Roma le cose erano più semplici; da una parte c’erano gli zingarettiani, amici e seguaci di Nicola Zingaretti, dall’altra i dalemiani. Poi la riproduzione cellulare ha fatto nascere varie sottocorrenti, cui se ne sono aggiunte sempre altre, che oggi si fanno fatica a contare. Sicuramente ci sono gli zingarettiani, i bettiniani, gli orfiniani, i renziani-gentiloniani (che poi sono tutti ex rutelliani), i franceschiniani, i popolari, i gasbarriani (da Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia)...
Alle primarie capitoline del 2013 che consegnarono la vittoria a Marino, la parte del leone la fece, come sempre, Goffredo Bettini. Insieme, naturalmente, a Zingaretti. Da qualche tempo però hanno smesso di difendere il loro prescelto. A fine 2013, al momento dell’approvazione del bilancio, quando l’opposizione rischiava di farlo bocciare, Bettini si mise a twittare come un forsennato in difesa del suo protetto. «Nei confronti di Marino è in atto un tentativo di delegittimazione, anche personale, violenta, che sta affrontando con vigore e dignità»; «Difendo Marino, vogliono colpire il suo progetto»; «Dov’è l’emergenza Marino? Sta approvando un bilancio speso per il 90 per cento da altri, sta cambiando la realtà e questo dà fastidio»; «La verità è che si vuole colpire la sua politica. Lo si faccia con gli strumenti di una battaglia leale»;
Bettini non twitta più dal 12 dicembre scorso («Fossi in lui, di fronte a uno stillicidio di notizie che finirebbe per condizionare tutto, sarei io stesso a dimettermi e poi ricandidarmi»), ma c’è da dire che già un anno dopo l’elezione, nel 2014, aveva cambiato idea prendendo le distanze dal sindaco che aveva fatto eleggere. Adesso l’ex senatore sta preparando un documento sulla vicenda. Spiegano dal suo staff: «Si sta prendendo qualche giorno per riflettere un attimo, vuole pensare bene a quello che deve dire». Niente di più, mentre Panorama va in stampa.
La partita post-mariniana è appena cominciata e c’è chi spera di raccogliere quanto seminato in questi ultimi mesi. Un gruppo che si è molto dato da fare è quello di Matteo Orfini. Il presidente del Pd può contare su tre consiglieri comunali uscenti, Giulia Tempesta, Gianni Paris ed Erica Battaglia, e sui Giovani democratici, quasi tutti con lui, che hanno ricoperto un ruolo fondamentale: sono stati loro a telefonare ai circoli quando è scoppiato il caos di Mafia Capitale per capire il loro stato di salute. Quindi sanno tutto dei numeri, più o meno veri e più o meno finti, del Pd romano passato al setaccio da Fabrizio Barca. E quando Paolo Masini, assessore alla Scuola della giunta Marino, è stato fatto saltare, in Comune è arrivato, anche se non con le stesse deleghe, Stefano Esposito, che appartiene ai Giovani turchi, cioè la corrente di Orfini. L’ex allievo di Massimo D’Alema, che è anche commissario a Roma, è anzitutto interessato a prendersi il partito romano, dove vorrebbe candidare l’attuale capo dei Giovani nazionali, Andrea Baldini, e a mettere qualche suo uomo o donna nel futuro consiglio comunale e nella futura giunta. D’altronde, è ben organizzato e il personale non gli manca. Come il suo fedelissimo Claudio Mancini, ex consigliere regionale nel Lazio.
Molto combattivo è poi il gruppo che fa riferimento a Renzi e a Paolo Gentiloni, ex candidato alle primarie sconfitto da Marino e oggi ministro degli Esteri. Per la corsa a sindaco è stato sondato Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera, e tra i primi renziani insieme a Lorenza Bonaccorsi e Luciano Nobili in una città che è sempre stata ostile al ragazzo di Rignano sull’Arno. Quando Marino, a luglio, ha fatto il rimpasto di giunta, nessuno di loro ha accettato le offerte del sindaco, compresa la giovane Maddalena Messeri, che ha detto no all’assessorato allo Sport. E in futuro che cosa succederà? Giachetti non vuole fare il sindaco e Renzi sta sondando, per scipparlo a Silvio Berlusconi, l’imprenditore Alfio Marchini. In ambienti renziani gira anche la notizia che il segretario non vorrebbe ricandidare gli uscenti; così però, rimarrebbe fuori la moglie di Dario Franceschini, Michela Di Biase, che è presidente della commissione Cultura in Campidoglio. Chissà quanto resteranno in piedi simili tentazioni.
Non tutti i gruppuscoli sono così in salute come orfiniani e renziani; alcuni ne escono con le ossa abbastanza rotte dopo le indagini di Mafia Capitale. Tra i capi dei popolari, prima dell’arresto, c’era Mirko Coratti, ex Forza Italia ed ex Udeur prima di passare al Pd. Tra i marroniani (da Umberto Marroni, ex capogruppo in Campidoglio dal 2008 al 2013) è finito nell’inchiesta Daniele Ozzimo, exassessore alle Politiche sociali ed ex marito della deputata Micaele Campana, già bersaniana e oggi membro della segreteria di Renzie.
Persino il deputato Marco Di Stefano, accusato di aver preso una mazzetta da quasi 2 milioni di euro, aveva a Casalotti il suo feudo. Lui è politicamente decaduto, ma il suo sottogruppo è sempre in piedi nel Tredicesimo Municipio, dove ci sono sua nipote Eleonora De Venuti e il suo clone Roberto Martino. Come tutta Roma, anche quella zona è stata commissariata da parlamentari scelti da Orfini. Il subcommissario di zona è il deputato renziano Andrea Romano, livornese, che ha avuto modo di toccare con mano il caos capitolino, che disorienterebbe chiunque.
Il 27 settembre, in un’azienda agricola fuori Roma, eletti e dirigenti del partito si sono trovati per fare un punto sul Pd. Le dimissioni di Marino ancora non erano all’ordine del giorno ma a Romano è apparso chiaro che la guerra stava per ripartire. «Ci ho messo tutto il mio impegno intellettuale, ma la differenza fra bettiniani e marroniani non l’ho capita....», ha detto Romano, scherzando, durante l’assemblea.