Malcom Pagani, Vanity Fair 14/10/2015, 14 ottobre 2015
INTERVISTA A ISABEL ROUSSINOVA
Madre di Massimo Boldi irretita da Giorgio Porcaro in Si ringrazia la Regione Puglia per averci fornito i milanesi: «Sei una bella gallinella». Conduttrice di programmi Rai dalla filiazione boncompagnesca: «4 dicembre 1983, per le strade è esplosa la febbre di Natale, tra le vetrine più invitanti c’è anche quella di Discoring». Amante di un finto Craxi in fuga su un’unità della Marina Militare al largo di Favignana nel Commissario Lo Gatto di Dino Risi, con Lino Banfi: Fabio Fazio doppiava un altrettanto finto Papa.
Tre decenni dopo, Maria Isabella Cociani in arte Isabel Russinova, bulgara di ascendenze triestine nata nel ’58, non si aspetta più miracoli: «Quello che doveva arrivare è arrivato, quello che non doveva restare se n’è andato. Avevo vent’anni, ero bionda, dicevano fossi una bella figliola. Recitavo da stereotipo. Una femmina giusta per il ruolo, in Tv come al cinema. Cercavo di dare un’impronta, di evadere dal copione obbligato, di fare dell’amante del capo del Psi una donna diversa dalle classiche bonone di allora. Mi illudevo: “Nuda non mi metto”, dicevo tutta orgogliosa a Risi, e Dino – perché era soprattutto un uomo spiritoso – meditava già di farmi spogliare. Era una lotta impari. Salii sulla giostra, mi divertii, provai a fare di meglio, non sempre ci riuscii, e poi improvvisamente mi stancai e decisi di andare altrove. Il successo in fondo non l’avevo mai inseguito. Non me ne fregò nulla ai tempi in cui arrivò, proprio come oggi non mi importa di invecchiare, non rinnego niente e non considero il rimpianto».
Prepara un caffè. Continua: «Il rimpianto di che? Di chi? Preferisco pensare alle cose che ho imparato, a quelle che potrei raccontare, a quelle a cui penserò da vecchia. A 20 anni puoi parlare del fidanzato che hai scopato e forse anche di quello che non hai scopato. Sei adrenalinico ed egoista. Passi come un rullo su chiunque. A quasi 60 ti chiedi cosa sia vero, cosa falso, e ti dai qualche risposta».
Sugli enigmi dell’ex Jugoslavia e sulle menzogne balcaniche legate alla guerra e alle sue inattese eredità Isabel Russinova non si è fatta domande. Il film, nelle sale dal 22 ottobre, si intitola La bugia bianca. L’ha girato in indipendenza e inaudita economia il catanese Giovanni Virgilio e Russinova si è comportata come Pesce, Vassallo, Spoletini, Paki Meduri, Erica Mou e tutti gli altri professionisti coinvolti a vario titolo per un piatto di lenticchie: «Ho accettato immediatamente».
Per la gloria?
«Giovanni Virgilio è bravo, il progetto è onesto e la storia si confronta con un tema difficile lasciando in un angolo ovvietà e soluzioni semplici. Non è poco».
Basteranno critiche benevole e originalità per far vedere La bugia bianca?
«Lei vuole dire che non lo vedrà nessuno e che La bugia bianca sarà schiacciato dalle dinamiche distributive, dagli incassi del primo fine settimana e dal monopolio dei multisala. È possibile, mi pare un modo un po’ volgare di ragionare e mi dispiacerebbe, ma alla fine non è la cosa più importante».
Qual è la cosa più importante?
«Oggi un film deve costare poco, raccontare tanto e provare a immaginare una sopravvivenza che vada oltre la sala. Il cinema di ieri non esiste più e morirà. Però ci sono il web, il satellite, il passaggio Tv e l’on demand. La vita di un film può essere lunghissima a patto di fare i conti con la realtà di oggi. L’ignoranza è un valore, la cultura è percepita come un lusso e, alla gente sommersa dai problemi, di pagare 7 euro per mettersi in fila non può fregar di meno».
All’epoca di Lino Banfi e Tomas Milian faceva a pugni per entrare.
«Lino mi è sempre parso un padre di famiglia con il corpo e l’aspetto di un italiano medio, ma con un’intelligenza superiore. È stato un grande talento scisso tra quello che avrebbe potuto essere e quello che gli hanno fatto interpretare. Con Tomas invece recitai in Delitto in Formula Uno. Si sistemava il berretto, si preoccupava delle inezie, aveva l’insicurezza dei grandi. La stessa di Risi, che entrava sul set e si avvertiva lo spostamento d’aria: “Li vedi questi?”, diceva guardando la troupe. “Adesso si aspettano che mi dimostri geniale e gli faccia un numero da prestigiatore, che direbbero se sapessero che non ho idea di dove mettere le mani?”».
Scherzava.
«Un po’ sì e un po’ no. Risi soffriva l’aspettativa. Chi ha tutto si chiede spesso cosa manchi».
A lei che cosa è mancato?
«Niente. Ho viaggiato, ho fatto tanti mestieri, ho conosciuto gente straordinaria. Steno, Corbucci, Tessari, Vincenzoni, Rizzoli, Albertazzi. Uomini del ’900 che avevano contribuito a costruire la fabbrica dei sogni e possedevano la capacità di sdrammatizzare. Avevano visto la guerra: il cinema, anche nelle difficoltà, restava un gioco».
In tarda età alcune delle persone citate ebbero il foglio di via dal proprio universo di riferimento.
«Io credo si siano autoesiliate. Prenda Luciano Vincenzoni. Aveva scritto film come La grande guerra, Signore & Signori, Il buono, il brutto e il cattivo. Non meritava di sentirsi trattare dai dirigenti Tv con la sufficienza riservata a un praticante. Invece accadde, e Luciano avvertì una specie di ribrezzo. Tuonava rabbioso contro i mediocri, provava un sincero schifo per i nuovi arrivati: “Queste merdacce non sanno niente, non capiscono un cazzo e si attribuiscono un insopportabile tono di superiorità”».
Come lo conobbe?
«Volevo che Luciano scrivesse un film sulla storia di Iris Versari, una partigiana romagnola. Gliene parlai, mi documentai e poi invasi di documenti il suo appartamento. Un giorno gli presentai Giorgio Albertazzi. Era stata appena pubblicata la sua autobiografia, Un perdente di successo, e Giorgio cercava qualcuno che la traducesse per il cinema: “Ci può riuscire solo Vincenzoni”, gli suggerii. “Devi incontrarlo”».
Si piacquero?
«Da pazzi. Si persero nei loro discorsi e mi tagliarono fuori. Sembrava non ci fossi. Parlavano, ridevano, ricordavano».
Che cosa ricordavano?
«La mignotta di cui si erano innamorati in gioventù a Bologna. Frequentavano i casini, erano in tournée, l’avevano incontrata entrambi. Riflettevano nostalgici: “Pensi mai a quante famiglie ha saputo tenere unite la benemerita istituzione del bordello?”».
Di bordelli più o meno manifesti si occuparono anche i Vanzina. Lei ci lavorò.
«Hanno messo in vetrina il sòla, restituendo uno spaccato cialtronesco più efficace di qualsiasi trattato sociologico. Il loro cinema è un documento che – a differenza delle fumose pippe sul nulla e dei fintissimi pensatoi pseudo intellettuali che si pretendevano colti e illuminati – rimarrà».
Era un postribolo a cielo aperto anche il mondo dello spettacolo?
«Solo per chi voleva fosse tale. Le occasioni c’erano e c’era naturalmente chi era pronto a sfruttarle. La prospettiva non mi ha mai affascinato».
Lei ha lavorato come modella in anni in cui la trinità cocaina-sfilata-passerella era saldissima.
«Era un mondo liquido che conoscevo benissimo. Certe cose le ho viste. Mi sono passate accanto, ma non mi hanno mai sfiorato, e forse si è trattato soltanto di fortuna. Con Gia Carangi, la modella che morì di Aids ed ebbe seri problemi di droga (Angelina Jolie l’ha interpretata in Una donna oltre ogni limite, il film Tv del ’98 che l’ha lanciata, ndr), divisi per qualche giorno letto, stanza e bagno in una parentesi americana. Mi sembrò normale. Non si strafaceva sul letto, non preparava la dose in poltrona».
Una definizione degli anni ’80?
«Ora mi rendo conto che era tutto falso e sopra le righe. Ma giudicare a posteriori è troppo facile. Sarebbe disonesto».
Perché?
«Perché ho 57 anni. Ho le mie consapevolezze, mi sono data delle spiegazioni. All’epoca vedevo solo il bello».
E oggi che cosa vede Isabel Russinova?
«La libertà di non pensare al lato B, al red carpet o all’esteriorità. Johnny Depp non si preoccupa di essere bello o brutto, magro o gonfio. Fa l’attore. Comunica qualcosa. E Meryl Streep che lava i piatti nei panni di Margaret Thatcher è sexy anche quando mostra il doppio mento. Non sarò mai brava come loro, ma guardandoli ho capito qualcosa di me».