Paola Jacobbi, Vanity Fair 14/10/2015, 14 ottobre 2015
Paolo Villaggio e il libro di sua figlia («che non ho letto»)
I labrador si chiamano Phil e Ruby e bastano due frammenti di biscotti a comprarne i favori, ovvero indurli a entrare nell’inquadratura con Paolo Villaggio, loro padrone e monarca assoluto di questa casa a Roma: appartamento con terrazzo, tanti libri, una moglie, Maura, con i capelli perfetti, un figlio, Pierfrancesco, che affettuoso ci aiuta nell’organizzare lo spazio per le fotografie, una figlia, Elisabetta, momentaneamente assente ma il cui libro (Una vita bizzarra) troneggia sul tavolino.
«L’ha messo lì mia moglie, fa sempre così quando viene gente. Io non l’ho letto».
Ma se ha scritto la prefazione, dico io sfogliandolo. L’avrà letto sì.
Villaggio mugugna. È fedelissimo al ruolo che si è scelto: per sempre caustico, pur di non diventare un trombone compiaciuto.
Gli chiedo se si sia mai commosso al ricevere premi o riconoscimenti, se pensa che si commuoverà alla Festa del Cinema di Roma quando saranno celebrati i 40 anni del primo Fantozzi. Mi risponde che no, lui non si è mai commosso.
Proprio un cuore di pietra, faccio io.
E lui, bugiardissimo: «Sì».
Prima che inizi l’intervista, mi sottopone a un lungo interrogatorio su Vanity Fair, sugli articoli che pubblichiamo, la storia della testata. Conclude, non capisco secondo quale filo logico, che «quando uno sta per morire arriva Vanity Fair: una bella intervista celebrativa e poi, sbang, stecchito».
Vanity Fair, in realtà, è arrivata perché Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi, i due film di Luciano Salce che lanciarono al cinema il personaggio creato da Paolo Villaggio, tornano – restaurati – per due eventi di pochi giorni. Fantozzi sarà in sala il 26-27-28 ottobre e Il secondo tragico Fantozzi il 2-3-4 novembre.
Villaggio è atteso anche sul red carpet dell’Auditorium alla Festa del Cinema. Al momento della nostra intervista sta ancora ragionando su chi potrebbe essere la «spalla» adatta per il previsto incontro con il pubblico. Esclude Roberto Benigni («Figuriamoci se viene, non venne nemmeno a vedermi ricevere il David di Donatello per La voce della Luna, che avevamo girato insieme»), prende in considerazione Checco Zalone («Anche se non so chi sia», sottolinea), alla fine dice che vorrebbe Bernardo Bertolucci, Marco Pannella o Maria Elena Boschi «perché è bellissima». Mi permetto di suggerire l’amico Renato Pozzetto e lui risponde: «Sì, andrebbe bene ma Pozzetto è pigro, non ci viene a Roma. Non possono fare la Festa del Cinema di Roma a Milano?».
Anche a 82 anni, l’amor di paradosso è più forte di tutto, forse persino più del giustificato orgoglio per l’incontrovertibile successo della sua migliore invenzione: il ragionier Ugo Fantozzi, sfigato tra gli sfigati, figura dolente dal destino squallido, circondato da familiari mostruosi, che si immagina crocifisso in sala mensa ed è perennemente perseguitato da una nuvoletta di pioggia ogni volta che si avventura fuori dall’ufficio, suo personale inferno.
A 40 anni di distanza, le espressioni fantozziane sono ancora nel linguaggio comune. Il megadirettore galattico, la poltrona di pelle umana, il caffè a tremila gradi Fahrenheit... Come se lo spiega?
«Con il fatto che siamo tutti Fantozzi. La mediocrità e la non riuscita nella vita riguarda il 90 per cento degli italiani. Fantozzi ci spiega che non per questo siamo spregevoli, che non per questo dobbiamo vergognarci».
La comicità di Fantozzi ha eredi nel nostro cinema?
«No. Fantozzi parlava italiano. Oggi i comici si appoggiano tutti al dialetto, il che rende le cose molto più facili».
È vero che l’interprete di Fantozzi avrebbe dovuto essere Ugo Tognazzi?
«Non è vero. Anche se in qualche intervista l’ho detto».
E perché?
«Perché le biografie inventate sono migliori di quelle vere».
Veramente, come andò?
«Avevo una rubrica sull’Europeo, il settimanale diretto da Tommaso Giglio. Raccontava le storie di Fantozzi, era molto seguita. Un giorno Nicola Carraro (attuale marito di Mara Venier, ndr), allora a capo dei periodici Rizzoli, mi propone di raccogliere la rubrica in un libro. Vendette un milione e mezzo di copie, cose incredibili, a ripensarci oggi, visto che nessuno compra più libri. Da questo, l’idea del film è stata quasi ovvia».
La regia venne affidata a Luciano Salce. Vi conoscevate già?
«No, ci incontrammo in quell’occasione. Diventammo amici, era un uomo di grande cultura. La sa la storia della moglie?».
Sì. Vittorio Gassman gli portò via la moglie, Diletta D’Andrea.
«Già. E da allora lui non si riprese mai, non ebbe un’altra compagna. Fu una botta mortale. A volte uscivamo in tre, io, mia moglie Maura e Salce. Appena Maura si allontanava, lui diceva: “Vedi, questa è la tua fortuna. Avere lei”».
È d’accordo? Maura è stata la sua fortuna?
«Neanche per sogno. Però ci vivo da 60 anni, è la persona cui voglio più bene al mondo, più che ai miei figli. Ma non era la donna giusta».
In che senso?
«Molti sensi, ma non mi va di spiegarglielo».
È vero che ha conosciuto Berlusconi su una nave da crociera, dove eravate entrambi intrattenitori?
«Biografia inventata anche questa. Berlusconi l’ho conosciuto in aereo, su un volo Los Angeles-Milano. Mi ha detto che stava aprendo una televisione in un garage e che avrebbe voluto farmi lavorare. Lo trattai con sufficienza. Ma poi lui mi fece lavorare lo stesso. Berlusconi è un uomo molto intelligente».
Ha mai conosciuto dei geni?
«Federico Fellini. Genio e bugiardo».
Possibile che credesse ai maghi e agli astrologi?
«Faceva finta. Raccontava che il mago Rol passava attraverso i muri solo per stupire gli interlocutori».
Però lo frequentava davvero, il mago Rol.
«Sì, ma solo per far piacere a Giulietta, che era una mediocre e che a queste stupidaggini credeva davvero».
La storia di Nanni Moretti che le offre la parte del politico nel Portaborse è biografia vera o finta?
«Vera. Venne a casa mia, ne parlammo ma io non potevo accettare perché avevo un contratto in esclusiva con Cecchi Gori. Moretti, che non è simpaticissimo, non deve averla digerita. Una volta l’ho incontrato, gli ho chiesto “come va?”, e lui ha fatto un gesto tipo “lasciami stare”».
La corazzata Potëmkin è veramente, come urla Fantozzi, una cagata pazzesca?
«No. Però io facevo parte di una élite di repressi di sinistra che passavano ore nei cineclub. E quel film l’abbiamo subìto milioni di volte. È un film vecchissimo, lo era già allora, pesante. Da vedere una volta e basta. La battuta di Fantozzi, comunque, fa ridere gli intellettuali».
Segue il cinema, oggi?
«L’ultimo film che ho visto dev’essere I sette samurai».
Mah!
«Il cinema di oggi mi piace, ma mi fa rabbia vedere quanto è migliorato, e io tragicamente sento di appartenere a un’altra era. Basta guardare gli spot pubblicitari e paragonarli al cinema, lentissimo, degli anni Cinquanta. Anche gli attori di oggi sono tutti più bravi rispetto a una volta».
Davvero? A me sembrano tutti cani. E ho nostalgia di gente tipo Ugo Tognazzi.
«Ah, Tognazzi era il più bravo di sempre. Questo non si discute».
Che cosa pensa della parabola di Beppe Grillo?
«Come comico aveva fallito, allora si è messo a fare le serate. Nelle serate usava urlacchiare contro tutti, è andato avanti così per quindici anni, e lì ha capito quali sono le cose che funzionano di più: parlare male dei potenti. Ha riapplicato il metodo nei comizi, fondando un movimento che rappresenta alla perfezione il tono dei sudditi italiani. Non si ribellano mai, ma gli piace urlare che sono tutti ladroni».
Segue la politica, legge i giornali?
«No. I giornali sono illeggibili, gli articoli di fondo sono puro sanscrito. Quando vedo il nome di Scalfari, poi, scappo».
Chi sono i suoi amici, oggi?
«Paolo Fresco (ex amministratore delegato della Fiat, ndr), amico dai tempi del liceo. Era compagno di banco di mio fratello Piero. Solo con gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza ci sono veri rapporti di affetto, solo per loro so che proverò dolore se dovessero morire. Per il resto, ho avuto tanti amici, tutti falsi, nel momento del grande successo. Tutti scomparsi alla prima difficoltà».
Il segno tangibile del successo?
«I soldi, tanti soldi. Ho comprato una casa a Cortina, una in Corsica, una a Los Angeles. Ho avuto una barca con cui ho fatto due volte il giro del mondo. Ho avuto una vita straordinaria».
Adesso che cosa fa tutto il giorno?
«Guardo la televisione, mi faccio portare dall’autista al ristorante russo o al ristorante indiano. Poi torno e chiamo un mio amico, al quale detto il libro che sto scrivendo».
La sera ogni tanto interviene alla trasmissione radiofonica La zanzara. Perché? A che cosa le serve?
«Così, per vanità».
È molto vanitoso?
«Cerco di mascherarlo».
È sempre ateo o, con l’avanzare dell’età, ha cambiato idea? Càpita a molti.
«E’ una baggianata. Io non cambio idea».