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 2015  ottobre 14 Mercoledì calendario

LA STORIA DEI FRATELLI ANGULO

E poi un giorno i sei fratelli Angulo hanno finalmente cominciato a uscire tutti insieme dalla casa dove erano stati imprigionati per 14 anni della loro giovane vita. Camminavano in fila, l’uno vicino all’altro, sulle strade del Lower East Side di New York: tutti con indosso gli abiti neri e le cravatte dei protagonisti del film Le iene, uno dei loro favoriti, tutti con gli stessi occhiali scuri e i capelli lunghi fino a metà schiena.
«Ci siamo avventurati all’esterno gradualmente, perché avevamo paura di non ritrovare la strada di casa: ogni volta facevamo due o tre isolati in più e poi tornavamo a casa», mi dice Govinda, che ora ha 22 anni. «Una ragazza ci ha fermati chiedendo di fare un selfie, e noi le abbiamo domandato che cos’era».
Narayana, il gemello, ricorda che era un po’ come essere alieni che scoprivano per la prima volta la Terra: «Mi sorprendeva vedere che la gente si abbracciava, che tutti erano così gentili mentre nostro padre ci aveva sempre detto di non fidarci degli altri. La prima volta che abbiamo visto da vicino l’East River la luce era così forte, sembrava che tutto fosse in 3D. Fu una bellissima giornata».
Dicono che ci siano otto milioni di storie nella città che non dorme mai, ma quella dei sei fratelli Angulo è una delle più strane che siano mai state narrate. A Crystal Moselle, che l’ha raccontata per prima nel documentario The Wolfpack, c’è voluto un anno per entrare in confidenza con quello strano gruppo di ragazzi in cui si era imbattuta per la prima volta per strada. Ma poi piano piano loro hanno cominciato a raccontare dell’appartamento al sedicesimo piano in cui il padre Oscar li ha tenuti chiusi insieme con la sorella Visnu per paura che New York facesse loro del male.
Quattro camere da letto di un palazzo popolare, la porta d’ingresso bloccata da una scala di legno, una sola finestra per guardare dall’alto le strade a loro proibite dalla paranoia del padre. E una collezione di 5 mila film in dvd, che per anni è stata il loro unico contatto con la realtà.
«Quello che sappiamo della vita lo abbiamo imparato dai film che avevamo in casa, e che studiavamo e rimettevamo in scena in salotto. Abbiamo imparato a distinguere i valori morali dal Padrino. La bellezza di far parte di un gruppo unito dai film di Scorsese e Tarantino. La storia americana da Jfk e Apocalypse Now. Le emozioni dal cinema neorealista di De Sica e Fellini, specialmente La strada che è il primo film che ci ha fatti piangere. La bellezza dal Gattopardo di Visconti e da Vittorio Storaro, il mio direttore della fotografia preferito, un grande pittore. Se siamo sopravvissuti è tutto merito della mamma e del cinema: eravamo imprigionati, ma lei ci ha sempre lasciati liberi di usare la nostra immaginazione».
Siamo a fare colazione in un caffè poco lontano da quell’appartamento e da un momento all’altro mi aspetto uno sbotto di rabbia nei confronti del padre. Invece sento solo parole di comprensione: «Non auguro a nessuno di vivere quello che è successo a noi, ma credo che mio padre pensasse in buona fede che chiuderci in casa fosse il modo migliore di educarci», dice Govinda. «Di solito ci portava fuori quattro o cinque volte l’anno, ma c’è stato anche un anno in cui non siamo usciti mai. Non siamo mai andati a scuola: abbiamo finito il liceo con le lezioni che ci ha dato la mamma in casa». Poiché il padre non lavorava, ma passava le giornate chiuso nella sua camera spesso ubriaco, gli Angulo sopravvivevano con i rimborsi del Dipartimento dell’educazione per l’insegnamento casalingo.
Mamma Susanne è un’americana del Midwest che ha incontrato il peruviano Oscar, di religione Hare Krishna, durante un trekking verso il Machu Picchu. Insieme hanno vissuto in West Virginia e California prima di trovare quella casa prigione dove si sono chiusi con i figli, a cui avevano dato nomi in sanscrito. Chiedo a Narayana se è religioso: «No, la nostra unica religione sono i film».
Solo quando hanno cominciato a uscire i fratelli hanno scoperto Internet e la possibilità di trovare online le sceneggiature: «Ancora adesso però preferiamo le nostre, scritte a mano mettendo in pausa i dvd: sono più precise, perché spesso gli attori improvvisano o cambiano le loro battute». Dei film preferiti i sei fratelli annotavano regista, autore, sceneggiatore, direttore della fotografia, come era nata l’idea attingendo da due enormi libri sul cinema. E poi cominciavano a creare i costumi di scena con pezzi di cartone presi dalle scatole dei cereali, materassini da yoga, lattine.
Nel documentario li vediamo recitare Pulp Fiction, Le iene e Il cavaliere oscuro: «Ma abbiamo anche ricreato l’intera trilogia del Signore degli Anelli, Braveheart, Il Padrino I e II, Pirati dei Caraibi, Full Metal Jacket, Taxi Driver. Per lo più film con attori maschi, perché non avevamo ragazze intorno». E le scene di sesso? «Quello che non ci sentivamo di recitare lo sostituivamo con la registrazione della scena dal film», spiega Mukunda. I loro registi preferiti erano gli unici amici che avevano: per il compleanno di Scorsese o di Tarantino organizzavano feste vedendo uno dopo l’altro tutti i loro film.
Mentre parliamo dallo stereo del locale parte Johnny B. Goode, e i tre ragazzi cominciano tutti insieme a tenere il ritmo muovendo la testa: «È la versione originale di Chuck Berry», dice Govinda. «Siamo cresciuti ascoltando le cassette di mio padre: conosciamo Billie Holiday, i Mamas & Papas, Bob Dylan e Jimi Hendrix, ma quasi niente della musica contemporanea», racconta Mukunda.
Il primo a uscire dall’appartamento-prigione è stato lui, quando aveva 15 anni: «Era un po’ che ci pensavo, perché la situazione era veramente claustrofobica, e un giorno mentre mio padre era fuori a fare la spesa sono scappato». Per non farsi riconoscere indossava una maschera di Michael Myers, il protagonista di Halloween, il suo film preferito. Impauriti, alcuni passanti hanno chiamato dei poliziotti che hanno portato Mukunda in un ospedale psichiatrico da cui è stato dimesso una settimana dopo. «Da quel giorno in casa è cambiato tutto».
Govinda è andato a vivere da solo, e lo stesso sta per fare Narayana: entrambi lavorano nel cinema, come Mukunda. I due fratelli minori Krsna, 18 anni, e Jagadesh, 17, hanno cambiato nome: il primo si chiama Glenn in onore del fondatore degli Eagles Glenn Frey e di Glenn Tipton, chitarrista dei Judas Priest; il secondo si chiama Eddie, un riferimento al film La banda di Eddie e al rocker Eddie Van Halen. Entrambi hanno anche adottato il cognome da nubile della madre, Reisenbichler, e anche lei ha deciso di non chiamarsi più Angulo. «Di fatto il potere è passato a lei», mi dice Narayana. «È un cambiamento radicale dai tempi in cui decideva tutto mio padre: ora lui non ha l’ultima parola quasi su niente».
Nessuno dei fratelli parla con il padre: «Ci vorrà tempo», dice Govinda, che come Narayana non ha ancora avuto la forza di vedere il documentario. «Non l’ho visto perché l’ho vissuto: è troppo presto, credo che lo guarderò quando compirò i 30 anni».
Chiedo se hanno mai pensato di avere bisogno di un qualche aiuto terapeutico per metabolizzare quello che è successo: «No. Perché non abbiamo nessun problema di rapporto con gli altri», dice Govinda, che ora ha anche una fidanzata. «Nessuno di quelli che ci incontrano può capire solo dal nostro comportamento che cosa abbiamo vissuto», spiega Narayana. «Ha ragione l’autore del film Le vite degli altri, quando dice che il regista è lo psicanalista del pubblico: la nostra terapia è stata il cinema».