Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni, Oggi 14/10/2015, 14 ottobre 2015
L’UOMO CHE HA SERVITO 5 PRESIDENTI
[Clint Hill] –
Sentì il primo sparo, poi il secondo; al terzo si era già lanciato verso la macchina presidenziale. L’incubo di un agente segreto: un attentato a cielo aperto. Era il 22 novembre del 1963. John F. Kennedy moriva a Dallas, ucciso dall’ex militare Lee Harvey Oswald. Una foto, che ha fatto il giro del mondo, ritrae Clint Hill saltare sulla limousine per proteggere il presidente e la moglie. Tutto inutile. «Sarebbe bastato arrivare un secondo prima e l’ultimo proiettile avrebbe colpito me, risparmiando Kennedy». Grazie a quella foto Hill divenne un eroe, ma per lui fu l’inizio di un inferno. Il senso di colpa lo tormenta ancora oggi.
Il grande schermo ci ha abituato a immaginare gli agenti segreti come eroi affascinanti, con storie rocambolesche, ma sempre a lieto fine. Se effettivamente c’è molto di vero in questi ritratti di James Bond impeccabili, dai racconti di chi questo mestiere lo fa realmente, emergono vicende umane più complicate e, a volte, dolorose.
In occasione del 150° anniversario dell’istituzione dei servizi segreti americani, abbiamo incontrato a Washington una leggenda vivente. Un mito nazionale che dal 1958 al 1974 ha protetto cinque presidenti: Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon e Ford. A Clint Hill, 83 anni, il James J. Rowley Training Center, la base militare in cui vengono addestrati gli agenti segreti, ha dedicato un intero viale.
Il cinema ha cristallizzato l’immagine dell’agente bellissimo e perfetto. Quanta verità c’è?
«È sicuramente una professione affascinante, la nostra vita è impenetrabile e avventurosa, così come la descrivono. Però non ci definirei “perfetti”. Meglio non ripensare alle occhiaie che avevo dopo lunghe notti senza dormire. È un lavoro meno luccicante di quanto si pensi, perché richiede dedizione assoluta. Non c’è spazio neppure per una relazione affettiva o per una famiglia. Il prezzo da pagare è alto. Avevo moglie e due figli, ma passando fuori casa il 90 per cento del tempo, il rapporto si è spento gradualmente e ci siamo lasciati. I divorzi tra gli agenti segreti sono all’ordine del giorno».
È anche una vita all’insegna di totale segretezza e solitudine.
«Il nostro codice ci impone di non rivelare mai nulla. Ci sono segreti che mi porterò nella tomba, informazioni sensibili delle quali non parlerò mai. Penso al periodo della Guerra fredda, o alle tensioni tra Usa e Cuba, l’invasione della Baia dei Porci, o a tutti i retroscena della guerra in Vietnam durante la presidenza Johnson. In generale, anche gli affari ordinari sono top secret. Della morte del presidente non riuscivo a parlarne con nessuno, nemmeno con uno psicologo. Per anni sentii dentro di me un peso che mi causò anche problemi fisici».
Insomma, una vita misteriosa.
«Misteriosa persino per noi stessi. Può succedere di essere svegliati di notte da una telefonata che intima: “Fai la valigia, metti abiti pesanti e fatti trovare all’aeroporto militare”. Niente dettagli, sai solo che stai andando in una nazione in cui fa freddo. Vietata qualsiasi domanda».
Ha mai avuto paura?
«Se sei un agente segreto, non puoi preoccuparti della paura. La morte in servizio è un’eventualità che bisogna tener presente. L’unico assillo è la vita delle persone di cui sei responsabile».
Ci ha pensato quel giorno, quando è letteralmente volato sulla macchina del presidente?
«Sì, sapevo che sarebbero potuti arrivare altri colpi. Ma questo è il mio lavoro: dovevo proteggere il presidente e sua moglie. C’era sangue dappertutto, addirittura pezzi di cervello. La first lady mi guardava terrorizzata in stato di choc, l’abito rosa coperto dal sangue del marito. Urlai subito all’autista di correre in ospedale. Nessuno disse una parola durante il tragitto».
Sull’uccisione di Kennedy si sono scritti libri. La versione ufficiale è ancora contestata da molti. Lei continua a confermarla?
«Sì, ci furono tre spari, un’arma da fuoco. Non ho elementi per credere che ci siano stati altri assassini oltre a Oswald».
Quel giorno perse un presidente, ma anche una persona cara. Che relazione instaura un agente con la famiglia presidenziale?
«Passando tanto tempo insieme si crea un rapporto affettivo, di confidenza, quasi di amicizia. Io all’epoca trascorrevo più tempo con i piccoli Kennedy che con i miei figli. A loro volevo molto bene».
Quali sono le caratteristiche imprescindibili per un agente?
«Determinazione, lucidità e disposizione al sacrificio sono fondamentali. Poi capacità di sopportare pressione e fatica. Ogni errore può avere conseguenze irreparabili».
Bisogna avere anche un certo physique du rôle.
«Lo sforzo fisico è notevole. Non ci si può preoccupare dei ritmi veglia/sonno. A volte mi capitava di non pensare neppure a dormire».
Ma è vero che avete tutti dei nomi in codice?
«Solo chi svolge incarichi chiave. Il mio era “Dazzle”, bagliore».
Perché ogni agente segreto che si rispetti indossa occhiali da sole?
«Non per essere fashion (sorride). Sono fondamentali per dissimulare la direzione dello sguardo: nessuno deve sapere dove guardiamo».
Come si diventa 007?
«Io sono stato scelto. Dopo il college sono entrato nell’esercito e lì mi hanno selezionato per frequentare una scuola speciale. Mi dissero che avevo un quoziente intellettivo superiore alla media».
Come è cambiato questo lavoro?
«Oggi un corteo presidenziale con una macchina scoperta sarebbe impensabile. Tutto è cambiato dopo Dallas. Soprattutto i numeri. Quando ero in servizio eravamo in 269 di cui solo una quarantina deputati alla protezione del presidente e della sua famiglia. Oggi gli agenti sono migliaia».
Com’era Jacqueline in privato?
«Brillante, ironica. Uno spirito libero, elegante anche quando metteva una tuta. Ma era soprattutto una madre attenta e premurosa. La ricordo sempre con un’agenda, dove scriveva le cose da fare. Qualche volta fumava, ma non doveva saperlo nessuno».
Lei era diventato anche il suo confidente. La volle con sé perfino quando diede l’ultimo saluto al marito.
«Dopo i funerali mi chiese di accompagnarla al cimitero di Arlington a notte fonda; voleva pregare da sola con il cognato Bob. Portò dei fiori e si inginocchiò davanti alla fiamma eterna».
Andò con la first lady anche in Italia, nel 1962.
«Il viaggio che facemmo sulla Costiera Amalfitana fu memorabile. L’accoglienza fu calorosa. Quanti paparazzi! Ci assediavano dappertutto. Alla fine venimmo a patti con i fotografi: in cambio di una foto in costume a Conca de’ Marini, riuscimmo a negoziare un progressivo ritiro dei paparazzi».
Sì, però poi arrivò l’Avvocato. Gli ingredienti dello scoop c’erano tutti.
«Gianni Agnelli le aveva fatto inviare in Costiera due 600 decappottabili. Poi ci raggiunse a bordo dell’Agneta, il suo yacht. Su questa incredibile barca trascorremmo il resto della vacanza. Una sera ci fece assaggiare un liquore: era Campari servito con una fetta d’arancia. La signora Kennedy se ne innamorò, tanto da acquistarne un po’ per il bar della Casa Bianca».
La signora fu avvistata nei night più trendy in compagnia di Agnelli. È vero che a un certo punto il marito ne fu infastidito?
«Beh, arrivò un telegramma che diceva: “Più Caroline, meno Gianni” (Caroline era la figlia, ndr)».