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 2015  ottobre 11 Domenica calendario

INNAMORATI DEI PRIMITIVI

Tra i motivi romantici che la modernità decadente ha più estenuato, incanalandovi la sua tendenza estetizzante e regressiva, c’è il mito della vitalità incorrotta, magari venato di populismo. Si finge di tornare alle origini, o d’immergersi in una plebe primitiva: ma al posto delle conversioni religiose o dei progetti politici resta solo una Poesia travestita da mistica e azione. L’atteggiamento emerge con D’Annunzio, che però rimase per metà un vate classicista: molto del suo vino decadente finiva infatti in otri vecchi, o meglio in aulici dogli. Così gli esteti e i populisti successivi, Malaparte compreso, l’hanno rinnegato, contrabbandando la sua eredità (e quella di Pascoli) sotto maschere novecentesche. Da un certo punto in poi il mito primitivistico – che nell’arretrata Italia sembrava un fatto – è stato anzi avvolto in una crosta ideologica di sinistra, da autori vicini al Pci e tuttavia refrattari al rigore del marxismo.
Nel 2015 cadono quattro anniversari attraverso cui possiamo leggere le tappe decisive di questa parabola. Tre date sono di morte – quella di Carlo Levi (1902-1975), di Elsa Morante (1912-1985) e di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – e una invece segna la nascita pubblica del Cristo si è fermato a Eboli (1945), dove Levi racconta il confino in un villaggio lucano e mette a punto il suo tipico reportage lirico-narrativo-saggistico. Il Cristo, sospeso tra prosa d’arte e neorealismo, si fonda su un contrasto tra due civiltà. Da una parte c’è quella del narratore: cristiana, moderna e industriale; dall’altra quella contadina e pagana, immersa in un tempo ciclico. Ma anche a Gagliano, l’immobilità è compromessa dal nuovo Stato, ossia da una piccola borghesia burocratica «lontana dalla vita, idolatrica e astratta», che non avendo né i mezzi delle classi elevate né la concretezza dei cafoni si aggrappa alla retorica. Nulla la rappresenta meglio del pisciatoio di cemento (Ditta Renzi) che il podestà don Luigino installa come un assurdo meteorite nella piazza di un paese senz’acqua. La sua perfetta descrizione mostra che l’acume sociologico di Levi è inscindibile dal bozzetto. Con la sua versatilità di novecentesco D’Azeglio, lo scrittore-pittore-politico riduce qui a una misura da terzapagina di lusso le suggestioni delle avanguardie: i contadini lucani sono le sue esotiche maschere negre. Ma appunto per questo, sono più simboli che realtà specifiche. Lo conferma l’Orologio, dove Levi mette i cafoni in un unico gruppo “autonomista” non solo con gli operai, ma perfino con imprenditori e baroni, tutti produttori (poco importa se storditi di fatica o “creativi”) da opporre ai ceti impiegatizi, parassitari e «ameboidi».
Questa concezione, che fa un unico privilegiato fascio delle élites intellettuali e di un sottosuolo zingaresco, è stata ripresa da Morante e Pasolini. Ma forse perché dalla piccola borghesia provengono, e perché vedono i gogoliani don Luigino mutarsi nell’aggressiva classe media del benessere, il loro tono è più tragico: il conformismo dei ceti ameboidi appare a entrambi la fonte del nazismo, dell’incubo atomico e del «genocidio» consumista, davanti a cui Pasolini mitizzerà perfino il regime, che coi troppi pisciatoi monumentali non ha comunque scalfito la vita arcaica cancellata invece dal boom.
I suoi lucani il poeta di Casarsa li trova nelle borgate di Roma, a lungo quasi estranee al progresso. Ma è pur questo progresso che auspica da comunista: e la contraddizione si riflette nei continui ossimori delle Ceneri di Gramsci. Da un lato c’è il pathos della Storia, dall’altro la convinzione viscerale secondo cui «Più è sacro dov’è più animale/il mondo», cioè dove vive una specie preistorica «esclusa alle vicende (…) della luce cristiana». Come Levi, Pasolini finge che l’Artista e il Reietto possano stabilire un’immediata familiarità ai margini della società di massa: familiarità illusoria, perché l’Artista dipende dall’industria culturale e dal pubblico dell’odiata classe media. Franco Fortini indicò questa falsa coscienza nel poemetto Una disperata vitalità, dove P.P.P. si ritrae inerme di fronte a una giornalista «cretina». Le domande banali di lei servono solo a far risaltare l’eccezionalità del poeta, dice Fortini: che perciò simpatizza con l’alienata «schiava» della macchina mediatica, derisa da chi intanto si compiace di giocare a calcio coi sottoproletari.
Ma l’equivoco scambio tra poesia e stile di vita si rivela ancora meglio nel piglio contestatorio della Morante anni Sessanta. Prendiamo ad esempio, da Il mondo salvato dai ragazzini, la Canzone degli F.P. e degli I.M. I Felici Pochi sono esseri dotati di una grazia principesca, e insieme di un’allegra vocazione scugnizza che li induce a dilapidare senza calcoli la vita. Gli Infelici Molti sono tutti gli altri: un gregge di burocrati contagiati dall’ansia del possesso che li priva dell’autentica «REALTÀ» e li rende violenti e paurosi. Con questo schema, la Morante tiene un piede nel mito e l’altro nella protesta. Solo che nel mondo reale la divisione non è così netta: nessuno è sempre randagio, un po’ di prosaicità borghese tocca a tutti. Perciò se la favola si erge a programma diventa demagogica. Ma soprattutto, la lotta in nome della giocosa gratuità non è essa stessa giocosa e gratuita. I Felici Pochi non hanno infatti nessun bisogno di protestare: mentre molto ne ha la Morante, consapevole di essere per metà una I.M. che chiede alla poesia di risarcire la vita e cede quindi all’«IRREALTÀ», il vero «oppio dei popoli». Non c’è scampo: se si vuole lottare o incarnare un modello, bisogna lasciare la scrittura per la prassi. Altrimenti si dimentica che i propri lettori non sono gli analfabeti ma i detestati piccoli borghesi, il proletariato dell’industria di cui si vive.
Però si può essere più radicali anche restando nella letteratura, e celebrare la vita “primaria” con un’arte più vitale e più raffinata, senza velleità tribunizie. Ma per farlo occorre imboccare la via senza ritorno di chi lascia cadere di bocca la poesia come il frutto spontaneo di un’esistenza interamente persa nel mondo anonimo e animale dei sensi. È la via di Penna, che non ha mai pensato di cambiare il mondo né di esaltare una sua parte contro un’altra. Lui ha eseguito su D’Annunzio un gioco di prestigio irripetibile: l’ha assorbito totalmente, e così l’ha fatto totalmente sparire in una serie di folgoranti oracoli, che sono costruiti coi brandelli del più liso classicismo ma sembrano venire da un altro pianeta.
Matteo Marchesini, Domenicale – Il Sole 24 Ore 11/10/2015