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 2015  ottobre 13 Martedì calendario

IO FACCIO LA MIA STRADA


È un ignorante sano Martín Castrogiovanni. Nel senso che è un sincero, non conosce limiti al sacrificio, all’impegno, alla generosità. Dà tutto se stesso. E si prende in cambio la gioia della vita: un abbraccio collettivo dai 170 bambini che hanno partecipato alla Castro Rugby Academy, per esempio.
«I bimbi sono l’amore vero. Costruire insieme a loro delle giornate di lavoro e di divertimento e vedere che alla fine ti corrono incontro per abbracciarti è l’emozione più grande che si possa provare. Cerco di trasmettere a tutti loro quello che sono e lo faccio con il sorriso sulle labbra: sacrificio e lavoro duro, ma lo sport deve rimanere un divertimento». Però, per divertirsi davvero, bisogna anche vincere. Non è che il rugby sia uno sport poco adatto alla nostra mentalità? Non è che siamo troppo individualisti noi italiani? «In Italia siamo solo troppo legati al risultato. L’unico valore assoluto è quello. Dimentichiamo che noi rugbisti giochiamo contro la storia profonda di questo sport. Gli anglosassoni il rugby lo hanno inventato. È una sfida che va affrontata con la consapevolezza dei propri limiti, sempre. E quando sbagliamo, sbagliamo tutti, nessuno escluso. Ci fermiamo, cerchiamo di capire gli errori, mangiamo questa merda tutti insieme e andiamo avanti per migliorare. Ma se è la federazione stessa a partire dal presupposto che prima vinci e poi parliamo dei tuoi diritti, capisci da solo che qui un’altra regola che vale è quella di puntare il dito, di lanciare accuse».
Castro si riferisce alla recente diatriba che ha contrapposto i giocatori della Nazionale alla Federazione rugbistica italiana nei primi giorni del raduno premondiale. «Hanno fatto intendere che noi giocatori volevamo solo più soldi ma le cose stanno un po’ diversamente. Mi sarebbe piaciuto rispondere di persona, avrei voluto farlo ma è stato giusto che a parlare sia stato Sergio Parisse, il capitano. In quel momento, lui rappresentava tutti noi, tutto il gruppo dei giocatori selezionati per il raduno mondiale ma in un certo senso era anche la voce di un movimento. I problemi sono tanti, certo ci sono questioni di premi non pagati, ma ci sono anche problemi di coperture assicurative. Potremmo chiacchierarne fino a domattina, credimi».
Be’, chiacchierare con Castro fino a mattina: cazzo, nella vita può capitarti solo di peggio. Lui è uno di quegli uomini che riempiono lo spazio che li circonda. Ma non è una questione di volume, per niente. È la gestualità, il modo di proporsi, l’atmosfera che sa creare attorno a sé. Il senso di sicurezza che solo un fratello più grande è in grado di darti. Martín Castrogiovanni è questa roba qua. E quando ce l’hai davanti, ti sembra di averlo sempre conosciuto. «Il giorno prima del ritiro ero in moto, da Tolone a L’Aquila l’ho fatta sulla mia Harley Breakout. Sbaglio strada e all’Autogrill si avvicina un altro harleysta chiedendomi se anch’io stavo andando al raduno. Lui parlava di moto, in realtà, e non si riferiva ovviamente al rugby. Ho risposto che non sapevo niente di questo raduno e mi sono fatto spiegare meglio la strada che avrei dovuto fare per andare a L’Aquila. Quando è ripartito ho pensato che si vive una volta sola e che questo raduno dovevo vederlo con i miei occhi. Quella notte ho dormito in tenda con i Black Scorpions, a San Severino Marche, mi sono divertito un sacco e occasioni così ce ne saranno altre, stai sicuro!». Mi mostra la foto della Breakout da uno smartphone che deve essere finito troppe volte sotto ai tacchetti della mischia azzurra, si intravede lui vicino al recente acquisto: «Già adesso le modifiche sono tante ma sto aspettando i due cerchi nuovi dall’America, dietro ci va un gommone da 280. Serbatoio via, non mi piace, sarà da cambiare. Motore uguale, monterò un kit di evoluzione Stage 4». Tanta roba Castro, hai le idee chiare in fatto di moto: «Non so neanche usare un cacciavite ma so cosa voglio dalla mia moto. Io faccio la mia strada, vado veloce, sorpasso e non mi preoccupo del vento addosso. Può essere che il fisico mi aiuti e che con queste braccia e la schiena allenata riesca a tenere botta meglio di altri».
Lo immagino e penso che no, non si potrebbe vedere Castro su una moto diversa, non sarebbe lui. «Me vedresti vestito come un power ranger a me?». Si alza e con l’imperdibile accento argentino fa il verso agli emuli di Valentino, ingobbiti dentro alle tute in pelle. «E poi quando ero a Calvisano ho avuto una Ducati 749. Sembravo el gorilla de Super Mario Kart, la moto non se bedeva neanche! Metto il mio giubbotto in pelle senza maniche sopra alla maglietta, un paio di jeans e basta. Non mi serve altro. Sono un coatto vero io, abbronzatura a strati compressa!».
La moto gli piace così, un po’ come il rugby che gioca. «Come le moto, così il rugby mi piace ignorante. Mi piace il rugby di contatto fisico, la partita dura nella quale la mischia si guadagna metro su metro». Si spiega poche volte che voi della mischia non siete solo forti fisicamente ma anche dinamici e sempre presenti lì dove c’è il pallone. Voi macinate chilometri su chilometri in campo. «Gli uomini della mischia sono votati al sacrificio. Quasi ogni punto segnato dalla squadra è frutto della fatica e del lavoro portato avanti dalla mischia. E il pilone ancora di più è uomo di sacrificio. Continuo, incessante. Un po’ stupido se vuoi per infilare la testa lì dentro. Soprattutto quello destro, che è il mio ruolo. Io ficco la testa tra due in mischia.
E ho 800 chili che spingono contro di me e altri 800 che spingono dietro di me. Non è uno scherzo. Non è un caso che nel rugby moderno il regolamento dice che tra campo e panchina dobbiamo essere in 23. Non ci si improvvisa più piloni come una volta. Ci vuole tanto allenamento perché il rischio di farsi male è alto. Giocare lì è quasi uno sport dentro allo sport del rugby. In Italia il pubblico riconosce lo sforzo che produciamo in campo. Anche negli altri sport è così, anche nel calcio, nonostante quello che si crede, a parte qualche cattivo esempio, i giocatori danno il massimo. Sempre. Però nel rugby è più evidente questo impegno e gli italiani, negli ultimi anni, hanno scoperto che si può apprezzare uno sport anche in un modo diverso, stando tutti assieme allo stadio. Una cosa nuova per lo sport italiano, tanto da averne fatto quasi una moda. È cresciuto l’interesse, sono arrivati gli sponsor, c’è più esposizione mediatica ma il sistema, anche per questioni fiscali, è rimasto dilettantistico. Attorno a una struttura così è facile sparare a zero da una tastiera del computer o dalla tribuna senza mai aver toccato un pallone. Sono arrivati dal mondo del calcio un po’ di giornalisti (e anche qualche tifoso) che neanche quello da calcio hanno mai toccato e sono cominciate le critiche alla Nazionale che fatica a imporsi. Ci vorrebbe più rispetto invece, credimi. Sai cosa ti dico? I calciatori che fanno gli stronzi fanno bene.
Io faccio sacrifici, mi faccio un culo così e il diritto di stare in campo a difendere i colori della tua bandiera è guadagnato con la fatica e il sudore. E tu, perché hai pagato un biglietto, pensi di potermi offendere come e quanto vuoi senza che io possa rispondere? Io prima di essere un giocatore di rugby sono una persona e se tu mi attacchi ho il diritto di rispondere! Ma questo mondo è fatto così, qualcuno si è inventato questa faccenda dell’etica per farsi i propri interessi. Forse qualche volta dovremmo comportarci più da stronzi, tutto qua».
Mi viene in mente Eric Cantona, che in quanto a difendere i propri diritti non è uno che abbia usato proprio delle mezze misure. «Sai che te dico? Cantona è il numero uno!». I moralisti avrebbero qualcosa da ridire, non trovi? «Tutti sono moralisti, fino a quando non tocca a loro». Voi avete un contatto fisico con il vostro avversario che diventa quasi un rapporto intimo, pesate a vicenda forza ed energia uno dell’altro. È questo che definisce il rispetto tra di voi? «Sai che la partita dura ottanta minuti. Tu mi dai un pugno adesso? Lo sappiamo tutti e due, la partita è lunga e prima o poi te lo restituisco. Vince chi picchia per ultimo, non per primo. Però, con questa faccenda degli interessi economici, ci sono giocatori che si prendono un pugno in campo, fanno scrivere la lettera da un avvocato e ti chiedono i danni! Sai quante volte mi hanno suggerito di farlo? Per me quel che succede in campo fa parte del gioco, finisce là. E se uno fa il figlio di puttana e nasconde il pallone, potete passargli sopra. Una volta era così, oggi non più, troppe telecamere, troppi interessi, tutto quello che ha costruito il mito di uno sport non esiste quasi più. Oggi i veri valori del rugby si trovano nei campionati minori, dove i ragazzi di giorno vanno a lavorare e la sera si allenano. Nel campionato inglese o francese, il terzo tempo per esempio non esiste quasi più. C’è chi deve prendere l’aereo». Anche nel Sei Nazioni è così? «Nel Sei Nazioni il terzo tempo si fa, ma solo perché la propaganda sui valori del rugby è forte!».
Arrivano due bimbi, gli chiedono degli autografi, una anche per un amico. Castro antepone i piccoli giocatori del campus a tutto il resto. «Non sarò mai allenatore. Cosa puoi insegnare a un ragazzo di 21 anni? Se a quell’età non ha capito ancora cosa deve fare, non lo imparerà più. Con i bimbi sì, con loro è diverso. E se lo sport è formativo, il rugby per un bambino lo è ancora di più. Fatichi, viaggi, condividi. E stai insieme alla squadra, imparando che la squadra è lì per salvarti il culo». Castro, dimmi perché un lettore di Riders dovrebbe guardare i prossimi mondiali di rugby. «Perché il rugby è adrenalina, lotta, velocità, tensione. A volte il rugby non è intuitivo, ci sono molte regole da imparare e il mondiale è un’occasione unica per conoscerlo meglio. E poi un altro motivo è che ci sono io, che sono bellissimo!».