Alessandro D’Urso, Grazia 8/10/2015, 8 ottobre 2015
NEGLI OCCHI DI PINO DANIELE
Da qualche giorno nel centro di Napoli c’è una via intitolata a Pino Daniele. È il vicoletto dove il musicista, scomparso il 4 gennaio, era nato poco più di 60 anni fa. Assistere alla cerimonia d’intitolazione, per me che ero suo amico, è stata un’esperienza surreale. Perché non è facile accettare l’idea che Pino non ci sia più. Ho pensato spesso a lui in queste settimane, mentre sceglievo le 180 fotografie della mostra 20 anni con Pino – Addove (20anniconpino.it), che inaugura il 16 ottobre al Palazzo delle Arti di Napoli. In quelle foto che gli ho scattato c’è un pezzo della sua vita straordinaria, ma anche della mia. Tutto è cominciato nel 1991, avevo 25 anni e dovevo fare un servizio fotografico su di lui. Fu una giornata fortunata, tra tutte le immagini ne scelse una che avrebbe utilizzato per la cover del suo 15° album, Che Dio ti benedica, forse uno dei suoi dischi più importanti.
In quel momento tra noi scattò qualcosa e da allora ho lavorato ad altre otto copertine. Ma, soprattutto, l’ho seguito in tour, l’ho ascoltato quando suonava per se stesso e l’ho osservato lontano dai riflettori. Ed è così che l’ho conosciuto davvero.
Un musicista in tournée sembra sempre un uomo in fuga dai doveri di una vita regolare, da quella vita di padre e di marito presente che è un po’ l’opposto rispetto a quella del divo da palcoscenico. Pino era diverso: «Per me ci sono solo la musica e la famiglia», mi diceva. La sintesi lui l’aveva trovata realizzando uno studio di registrazione vicino a casa sua a Roma, prima ancora di decidere di andare a vivere sulle colline toscane di Magliano con Amanda Bonini, la sua ultima compagna (l’artista era stato sposato con la corista Dorina Giangrande, dalla quale ha avuto due figli, e con Fabiola Sciabbarasi, madre degli altri tre, ndr). Pino ti parlava di ognuno dei suoi cinque figli, ti tirava dentro la sua vita e ti lasciava solo quando era il momento di dedicarsi alla musica.
È così che è andata tra noi negli ultimi 10 anni: lui suonava e io lo osservavo per capire quando avrei potuto scattare. Chi lo conosceva sa quanto poco amasse stare in posa, e infatti quasi tutte le mie foto lo ritraggono nell’attimo perfetto, in cui lui era così concentrato sulla sua musica da non accorgersi nemmeno che io fossi lì. Sono foto che parlano di lui e dei momenti in cui non era sul palco o in pubblico, ma che piuttosto raccontano l’uomo che viveva per suonare. Che Pino fosse una persona riservata credo se ne siano accorti tutti, soprattutto negli ultimi anni, in cui ha fatto pochissima vita mondana. Il suo non era un atteggiamento di chiusura nei confronti delle persone e nemmeno una scelta. Piuttosto uno stile di vita: preferiva stare con la famiglia, con gli amici, e con la sua musica. Era sempre così: arrivavi a casa sua e lo trovavi con la chitarra in mano, o in studio a provare, ad arrangiare, a scrivere. Per tutta la vita ha saputo di avere un cuore fragile, ma non ho mai visto in lui, nemmeno per un momento, un velo di angoscia o il pensiero fisso di una vita troppo breve davanti a sé.
Pino faceva ciò che amava circondato da chi gli voleva bene, ma non si risparmiava. Si gettava a capofitto nei progetti ed era instancabile. Per questo era incredibilmente amato dagli altri musicisti. Inoltre era un grande chitarrista, unico nel suo genere. Non dimenticherò mai quando, in preparazione di un concerto con un altro virtuoso come Pat Metheny, si chiusero per due settimane in uno studio di Milano. Non solo a provare i pezzi per il concerto che dovevano preparare insieme, ma ad arrangiare, andando a ruota libera. E io lì, con loro, mi sentivo la persona più fortunata del mondo.
Pino era unico, ma io e lui avevamo molte cose in comune. L’amore per Napoli, la nostra città, era una di queste. Non sopporto ancora l’idea che qualcuno possa aver davvero creduto che si fosse in qualche modo distaccato dalla sua città. Poche persone hanno cantato Napoli come ha fatto lui, che era napoletano sempre: quando parlava, quando rideva, quando suonava. Il suo modo di essere smentiva qualunque tipo di lontananza emotiva dal posto in cui era nato. A tutti succede, per motivi diversi, di lasciare la propria casa. Ma questo non significa che il cuore cambi. E nel caso di Napoli, forse, uno sguardo distaccato riesce a metterla a fuoco meglio, con le sue contraddizioni e la sua bellezza.
La mostra che gli abbiamo dedicato, porta nel titolo la parola “Addove”, che non vuol dire “dove”. «Era un intercalare che papà usava 200 volte al giorno», mi ha ricordato sua figlia Sara. Si tratta di una parola intraducibile: fa parte della “parlesia”, un antico linguaggio usato dai musicisti napoletani. “Addove” sarà per sempre l’espressione senza significato apparente che ricorderà Pino Daniele a chi lo amava. Mi ci ha fatto pensare proprio Sara, quando ha ripetuto davanti ai giornalisti una frase che suo padre era solito dirle: «Tu capirai chi sono solo quando non ci sarò più». In un certo senso questa mostra è anche per lei, per i suoi fratelli e per chi gli ha voluto bene. Per restituirle suo padre nei momenti in cui era altrove, con l’altro grande amore della sua vita: la musica.