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 2015  ottobre 08 Giovedì calendario

CI STIAMO CURANDO TROPPO?


Troppa chemioterapia, radiazioni, interventi chirurgici radicali. Nella guerra contro il cancro al seno, che colpisce in media una donna su otto, i dottori non hanno finora risparmiato le munizioni. E forse hanno esagerato, denuncia l’inchiesta shock della rivista americana Time, che ha riaperto il dibattito su questo tema.
I più recenti studi negli Stati Uniti hanno mostrato che, in molti casi, quelli in cui il tumore è ai primissimi stadi (come quello che viene chiamato “carcinoma in situ DCIS”, circoscritto ai dotti galattofori), la soluzione migliore è non far niente: al massimo prescrivere una terapia ormonale, quella che contrasta l’azione degli ormoni, impedendo l’azione proliferativa che avrebbero sul tumore. Secondo gli americani le donne che sono costrette a scegliere la mastectomia, cioè la rimozione del seno, o la lumpectomia, cioè l’asportazione del solo tumore con chemioterapia o radiazioni, non migliorano realmente la loro aspettativa di vita.
«È vero, a volte esageriamo», ammette Virgilio Sacchini, uno dei massimi esperti italiani che lavora dal 2000 come chirurgo nel centro più importante per la ricerca e il trattamento del cancro al seno, il Memorial Sloan Kettering di New York. Sacchini è stato anche il dottore personale della giornalista e scrittrice Oriana Fallaci nei suoi ultimi due anni di vita e ha raccontato il suo rapporto con lei nel libro Dai sempre speranza (Mondadori). «Scopriamo sempre più precocemente i tumori, grazie alle mammografie, ma poi siamo indietro nel distinguere i diversi tipi di cancro», spiega il professore. «Solo lo studio genomico delle mutazioni nel dna delle cellule tumorali ci può indicare se un cancro è “tranquillo”, e dormirà a lungo, o se è aggressivo e rappresenta subito una minaccia mortale».
Per questo in America la nuova e costosa strategia nella lotta contro il cancro al seno è chiamata “precision medicine”, medicina di precisione: «Significa identificare in ogni tumore le sue caratteristiche genetiche per capire come evolverà e a quali trattamenti risponderà meglio», spiega Sacchini.
Il governo americano crede molto nella “precision medicine” e per svilupparla investirà 215 milioni di dollari nel 2016, circa 196 milioni di euro. «Negli ospedali statunitensi i test genomici come l’Oncotype DX, che analizza 21 geni, sono ormai di routine», racconta Sacchini. «E al Memorial Sloan Kettering andiamo oltre: il nostro programma Impact studia 416 mutazioni del dna delle cellule tumorali: ci aiuterà a personalizzare sempre di più i trattamenti, anche se per capire quale sia la cura giusta resta fondamentale il rapporto con la paziente».

Le differenze tra America e Italia nei confronti della lotta ai tumori al seno sono anche di origini culturali. Le americane, ansiose di controllare ogni aspetto della loro vita, tendono a preferire soluzioni radicali per minimizzare i rischi futuri, quindi spesso scelgono la mastectomia. È quello che ha scelto, facendo parlare molto di sé, l’attrice Angelina Jolie: sapendo di avere l’87 per cento di probabilità di sviluppare la malattia nel corso della vita, ha scelto la rimozione di seno e ovaie. Le europee, monitorate con più regolarità, affrontano di frequente la malattia allo stato iniziale e optano per la rimozione del solo tumore.
«Nel nostro Paese l’utilizzo della mammografia ha ridotto del 15-20 per cento la mortalità causata dai tumori al seno», dice Lucia Del Mastro, membro del comitato scientifico della Fondazione Umberto Veronesi (fondazioneveronesi.it) e medico dell’Unità operativa sviluppo e terapie innovative dell’Ospedale San Martino di Genova. «L’Italia è il Paese europeo con la più alta percentuale di sopravvivenza nei casi di tumore al seno: 86 per cento contro una media europea dell’82. Ogni anno, nel nostro Paese, si ammalano 47.900 donne: la stragrande maggioranza guarisce. Grazie alla diagnosi precoce, agli interventi e alle cure».
I dati diffusi dall’Osservatorio Nazionale Screening in ottobre, il mese della prevenzione del tumore al seno, evidenziano però una difformità nel ricorso ai test preventivi: nonostante i risultati incoraggianti, solo il 70 per cento delle italiane ha fatto una mammografia negli ultimi due anni, mentre ancora un terzo di quelle tra i 50 e i 69 anni, non ha mai affrontato il test.

«Anche quando gli esami vengono svolti regolarmente, esistono due problemi legati a questa pratica diagnostica», avverte Del Mastro. «Il primo è la presenza di falsi positivi, cioè il rilevamento di qualcosa che poi si rivela non essere un tumore e che porta alla richiesta di altri accertamenti, come la biopsia, che risultano inutili. Riguarda il 10 per cento dei casi». C’è poi la questione della sovradiagnosi, cioè l’accertamento – di un tumore – con conseguenti operazione, chemio e radioterapia – che, se non rilevato non avrebbe dato segni di presenza di sé. In altri casi i medici consigliano di tenere sotto controllo l’area e di non operare, ma spesso le pazienti non sopportano l’idea di dover vivere con il terrore di avere delle cellule tumorali che possono crescere, seppur lentamente. L’inchiesta di Time ha però denunciato anche l’eccesso di interventi di rimozione della mammella. Sono davvero troppi? Dice Del Mastro: «Chi si sottopone alla mastectomia preventiva lo fa solo perché affetta da una mutazione genetica che può provocare un aumento fino all’80 per cento della possibilità di ammalarsi di cancro. È il caso di Angelina Jolie, un evento mediatico che verosimilmente ha incrementato le richieste. Ma stiamo comunque parlando di pazienti, circa il 5 per cento di quelle già operate, che fanno questa scelta sulla base di un dato scientifico: la presenza di un gene mutato. In molti casi potrebbero scegliere una strada diversa dalla mastectomia, sottoponendosi a controlli precisi e approfonditi».
Ci sono, poi, pazienti che chiedono la mastectomia totale dopo una diagnosi di tumore pur in assenza di mutazione genetica: «C’è chi vuole la rimozione totale del seno malato e, in alcuni casi, anche dell’altro. Si tratta di una richiesta molto invasiva e assolutamente ingiustificata. In questi casi è importante fornire informazioni. Se una donna sa che il 95 per cento dei tumori non ha mutazione genetica, la sua ansia si placa», dice Del Mastro.

Quello che, invece, sembra non esistere più è il sovrautilizzo della chemioterapia. All’inizio degli Anni 90 quasi tutti i tumori venivano trattati con la chemio, ora sappiamo che per molti è sufficiente la terapia ormonale. E lo stesso vale per la radioterapia: la tendenza in Italia è quella di ridurne l’utilizzo dove è possibile.