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 2015  ottobre 09 Venerdì calendario

QUANDO PALERMO BRUCIAVA


Nell’estate del 1985 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si rifugiarono con le loro famiglie sull’isola dell’Asinara per scrivere le ultime pagine dell’ordinanza del maxi processo alla mafia che si sarebbe svolto mesi dopo. Un esilio necessario per sfuggire al clima di morte che si respirava in quei giorni a Palermo. Il film Era d’estate di Fiorella Infascelli ricostruisce quei 25 giorni di lavoro restituendo un’immagine intima dei due magistrati: «Mentre scrivevo la sceneggiatura» ha detto la regista «mi è stato sempre più chiaro che volevo raccontare l’incontro fra due uomini, due amici che saranno legati dallo stesso destino». Interpretato da Massimo Popolizio (Falcone) e Beppe Fiorello (Borsellino) il 15 ottobre la pellicola sarà l’evento di pre-apertura della Festa del cinema di Roma (16-24 ottobre) e uscirà in sala a metà novembre. In primo piano nel film anche le loro mogli: Francesca Morvillo (Valeria Solarino), che nel 1992 morirà accanto al marito nell’attentato di Capaci, e Agnese Borsellino (Claudia Potenza) che ha incoraggiato la regista a raccontare questa storia.



Attilio Bolzoni

PALERMO. Quella mattina mi ritrovo sotto i bastioni dell’Ucciardone. In una via stretta che costeggia le mura del carcere di Palermo, le ruspe scaricano tonnellate di terra sui cassoni dei camion, nuvole di polvere, saldatori, fiamme ossidriche, pali di acciaio conficcati uno dietro l’altro che formano una cinta luccicante. In fondo ci sono operai che scivolano dentro quella che mi sembra una galleria, un camminamento sotterraneo che esce dalle celle della Settima sezione, una prigione nella prigione dove sono rinchiusi tutti i capi, i boss della Cosa Nostra siciliana. Un amico me l’aveva detto: «Stanno scavando». Al centro della città vedo nascere l’aula bunker. Il maxi processo, fra qualche mese, lo faranno lì.
Torno a casa, fa molto caldo, il mese è luglio, l’anno il 1985.
Sento una voce nel citofono: «Sono Beppe, sto salendo». Otto piani dopo è nel mio appartamento, un piccolo attico nella borgata dell’Acquasanta. È casa mia ma anche il mio luogo di lavoro, la redazione siciliana di Repubblica.
Beppe Montana, capo della Catturandi della squadra mobile – quelli che cercano i latitanti – è la prima volta che viene da me. Di solito ci vediamo da lui, alla Mobile. O alla Taverna di John, calamari ripieni di pan grattato e pinoli che Giovanni, John, infila alla velocità della luce in un grande forno appena scorge qualche avventore sulla soglia del suo locale.
Sono sorpreso di Beppe lì all’Acquasanta, gli apro la porta. Entra e con gli occhi cerca una sedia, un divano. Ne trova uno sotto la finestra e ci sprofonda dentro. Gli preparo un caffè. Non gli chiedo niente, perché è venuto, cosa vuole, tanto ormai è sdraiato sul mio divano, stanco, nervoso, forse anche impaurito. Dopo qualche minuto è lui che comincia a parlare, sottovoce: «Mi sembra di girare a vuoto, qualcuno in Procura non ci fa andare avanti». Intuisco che ha per le mani un’indagine sul riciclaggio, infastidito fa un cenno anche su un «pacco di intercettazioni» sulle partite comprate e vendute del Palermo Calcio. Beve il caffè, mi saluta frettolosamente – come se all’improvviso si fosse ricordato qualcosa – poi scompare nell’ascensore. È l’ultima volta che l’ho visto. Una settimana dopo, il 28 luglio, Beppe Montana è morto. Ucciso da sicari di mafia sul molo di Ponticello.
La mattina del 29 luglio 1985 – sono passati trent’anni e ancora ricordo la paura che ho provato, anche se non sono mai riuscito a dare un volto o un nome a quella paura – ero già a Roma, al giornale. Ci sarei rimasto per diversi mesi.
Beppe non era una «fonte», era un amico. Come un amico era Ciccio Accordino, il capo della Omicidi. E quasi un fratello più grande Ninni, Ninni Cassarà, il capo dell’Investigativa, sofisticato ragionatore, il poliziotto che più di altri portava informazioni e rapporti ad Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, il pool antimafia di Palermo che aveva istruito il maxi processo. L’ultimo dossier consegnato a quei giudici aveva come intestazione «Michele Greco + 161»: era la radiografia della nuova Cosa Nostra, i Corleonesi che avevano cancellato dalla faccia della terra l’aristocrazia criminale dell’isola. Non era ancora arrivato Tommaso Buscetta a svelare tutti i misteri, ma Montana e Cassarà (e un capitano dei carabinieri simpatico e rumoroso, Angiolo Pellegrini) già sapevano quale era l’organigramma mafioso dei Ciaculli, di Santa Maria del Gesù, di Pagliarelli, della Piana dei Colli, le borgate intorno alla città. L’avrei scoperto solo qualche tempo dopo: Ninni era riuscito a far parlare in segreto Totuccio Contorno, un boss che conosceva tutto. Gli aveva dato pure un nome in codice: Prima Luce.
A Roma, mi sistemo in «cronaca». Sono a Roma ma la mia testa è a Palermo. A Beppe. A quello che sta accadendo laggiù. Poi, una mattina – erano passati due o tre giorni appena – Franchino Viviano mi chiama in redazione: «Hai visto l’agenzia?».
Gli rispondo con un’altra domanda:«Quella del cadavere ripescato?». E lui: «Non è un tunisino come dicono, è uno che è uscito dalla Questura, un pescatore di ricci, si chiama Salvatore Marino, l’hanno interrogato l’altra notte alla squadra mobile come uno dei sospetti assassini dell’omicidio di Beppe... Poi l’hanno ritrovato a mare...». La telefonata finisce con un lungo silenzio. Il pescatore di ricci era morto in Questura.
La paura che mi aveva preso il giorno della partenza da Palermo diventa terrore. Vorrei tornare, ma non posso tornare. Vorrei saperne di più, ma non posso saperne di più. Per fortuna c’è Franchino che mi tiene al corrente, telefona tre, quattro, cinque volte al giorno in redazione. Anche di notte, nell’albergo dove dormo. Non ha più la forza di dirmi niente quando, il pomeriggio del 6 agosto, quindici sicari scaricano addosso i proiettili dei loro Kalashnikov a Ninni Cassarà. Con lui muore anche Roberto Antiochia, un agente – era in ferie – che era tornato a Palermo per stare vicino a Cassarà dopo l’uccisione di Montana.
Palermo è in guerra, i poliziotti in rivolta. Anche loro hanno paura. Della mafia e di altri poliziotti, quelli complici, quelli che con la mafia si strusciano e fanno finta di non vederla, quelli comprati, quelli codardi. C’è il sospetto che Ninni Cassarà sia stato tradito da una talpa in Questura, qualcuno che l’ha visto uscire dalla squadra mobile e ha avvertito i killer.
Ci sono funerali di Stato fra le navate della cattedrale normanna di Palermo. Poi, improvvisamente, la città insanguinata sprofonda. Franchino mi avverte che «Falcone non è in Sicilia e nemmeno Borsellino». Pensiamo che siano, da qualche parte, a scrivere le ultime pagine della sentenza-ordinanza del maxi processo. Ma in quei giorni così drammatici e violenti loro, con le famiglie, i figli, le mogli – lo verremo a sapere poi – sono già all’Asinara, deportati nel supercarcere, tutti stipati in una foresteria a Cala d’Oliva. È la seconda settimana di agosto del 1985. Palermo è perduta, Roma è soffocata dallo scirocco che sale dalla Sicilia. Una mattina, quella del 21, alla portineria di Repubblica di piazza Indipendenza si ferma una signora triste. Si presenta: «Sono Saveria Antiochia, la mamma di Roberto».
È secca, curva, prosciugata dal dolore. Dalla borsetta tira fuori una lettera che mi mette fra le mani. La leggo, guardo Saveria, la leggo un’altra volta. Sto accanto a lei tutta la mattina a guardarla e a stringere quei fogli: «Signor ministro degli Interni, ho letto e riletto le sue parole e i suoi giudizi su quanto accade a Palermo e le scrivo per dirle che il mio dolore di madre è diventato anche rabbia, la stessa rabbia dei poliziotti di quella città...». Ogni tanto Saveria si abbandona a un silenzio, poi ripete: «Leggi, leggi». E io leggo: «Mi è pesata la presenza dei soliti coccodrilli di Stato all’ennesima funzione in morte di un poliziotto. Parlo del funerale di mio figlio Roberto. Aveva 23 anni, la sua breve stagione si è conclusa con una raffica di mitra... Per un anno e mezzo a Palermo aveva lavorato con Cassarà e Montana. Le difficoltà, la solitudine, la precarietà della squadra mobile invece di scoraggiarlo avevano aumentato il suo attaccamento al lavoro, ai superiori amici, ai colleghi, molti dei quali erano diventati per lui come fratelli. Sapeva che il suo governo e il suo ministero, come sempre lontani mille miglia, avrebbero prodotto solo parole... Giusto, signor ministro, niente bugie di Stato, e lasciamo anche da parte la retorica sul sacrificio fatto per servire lo Stato. Mio figlio è morto per la squadra mobile di Palermo, per la sua squadra mobile. È morto nel volontario, disperato tentativo di dare al suo superiore e amico Cassarà un po’ di quella protezione che altri avrebbero dovuto dargli, sapendo quanto fosse preziosa la sua opera e in quale tremendo pericolo fosse la sua vita...». E, come una litania, ripete: «Leggi, leggi...». E io continuo a leggere: «Con questo Stato la lotta contro la mafia è davvero impari. Anche lei fa parte di quel potere governativo, signor ministro. Ha fatto bene a non venire da me al Duomo di Palermo, non avrei potuto stringerle la mano e tanto meno lo potrei oggi. Lei ha scoperto solo adesso quello che succede a Palermo: le due Questure, la squadra mobile isolata e con mezzi assolutamente inadeguati, le infiltrazioni mafiose. Ma, mi scusi signor ministro degli Interni, lei dove vive? Di quali Interni si è occupato in questi anni del suo incarico? Come fa a non sapere quello che la maggioranza degli italiani conosce da tanto tempo perché ripetutamente denunciato dai magistrati, dai dirigenti della polizia siciliana? Non legge i giornali, non guarda la tv? Davvero lei adesso si sta informando? Davvero ha ancora bisogno di relazioni ministeriali per sapere?...».
Consegno la lettera al direttore Eugenio Scalfari che la pubblica il giorno dopo in prima pagina a firma di Saveria. Al Viminale – ministro Oscar Luigi Scalfaro – scoppia l’inferno. Quei poliziotti di Palermo danno fastidio anche da morti.
Sono passati trent’anni e quest’estate sono sceso in Sicilia, il 28 di luglio. La mattina in chiesa, la sera con la famiglia Montana.
Attilio Bolzoni