La Gazzetta dello Sport 13/10/2015, 13 ottobre 2015
CINICO BLANC: «VINCERE: AL PSG SOLO PER QUESTO»
Verrebbe da pensare che il Psg sia solo il mezzo per appagare la sua ossessione di sempre. La stessa di quando faceva il difensore, col gusto del gol, a Barcellona come all’Inter, allo United o nella Francia campione di tutto tra il 1998 e il 2000. Cioè vincere. E in nome del bel gioco. Laurent Blanc, 49 anni, ha il contratto in scadenza a Parigi, ma la cosa non lo preoccupa nonostante i rumor lo diano già per spacciato se non arriva almeno in semifinale di Champions. Serenità legata forse alla sensazione che potrebbe essere l’anno giusto in Europa per Ibrahimovic e soci.
Più difficile vincere da esordiente col Bordeaux o con uno spogliatoio pieno di ego come al Psg?
«A Bordeaux fu difficile ottenere il posto e compensare le inevitabili lacune dell’inesperienza. Al Psg c’è un livello di pressione altissimo».
Allenare il Psg significa fare il mediatore tra grandi giocatori?
«Significa federarli sull’obiettivo sapendo che ci viene chiesto di vincere tutto e subito. Ma è un vero piacere lavorare in condizioni simili».
In che senso?
«Non mi vedo alla guida di progetti dove magari ti danno il tempo, ma poi non hai mezzi. C’è chi fa l’allenatore per vocazione, per formare, per costruire. Io lo faccio solo per vincere. Il Psg è il top, ha tutto per vincere, la pressione quindi non mi dà fastidio».
E già si parla di Mourinho per il prossimo anno al suo posto.
«Non mi tocca. Fa parte del mestiere. È il prezzo da pagare se vuoi allenare a questi livelli».
Eppure lei cita spesso Ferguson tra i suoi modelli.
«Ma è un’eccezione, come Wenger, sempre più rara nel calcio di oggi».
Altri esempi che ammira?
«Molti e non solo per il gioco. Lippi è un riferimento nella gestione del rapporto con i giocatori. Con lui avevo un dialogo che andava ben oltre il calcio. Così ho imparato l’importanza di dire sempre la verità, almeno la mia. Non vuol dire essere amici perché deve essere chiaro che chi decide alla fine è l’allenatore».
L’ha capito bene pure Sirigu, ormai panchinaro per far posto a Trapp.
«Salvatore è un ottimo portiere e ha fatto bene anche l’anno scorso, ma ci siamo chiesti come potevamo migliorare la squadra in funzione della nostra filosofia. Così è emersa l’idea di Trapp che ha altre caratteristiche, per esempio nell’anticipare il gioco».
Sirigu deve trovarsi un club a gennaio?
«Nell’anno dell’Europeo è normale che aspiri a giocare di più, ma potrebbe succedere a Parigi, indipendentemente dagli infortuni. Kevin non è un portiere affermato e se non dovesse dare garanzie rimetterei comunque Sirigu. Si chiama concorrenza, lo sanno entrambi».
Com’è cambiato il Psg da quando c’è lei?
«Spero di aver trasmesso la mia filosofia che si ispira al calcio di Cruijff. Ma rispetto chi preferisce difendersi per vincere 1-0. Uno come Capello ha un palmarès impressionante».
Di Maria le impone un cambio di modulo?
«È più importante l’idea di gestire palla, giocare alti, attaccare. Poi c’è chi dice che così ti esponi ai contropiedi, ma in 70 metri hai tempo e modo per rimediare. Il modulo è relativo: il 4-3-3 diventa 4-2-3-1 o 4-1-4-1 spostando un giocatore. Poi dipende da come gestisci il gioco».
Ibra è più presente in costruzione.
«Ma resta un vero bomber, come dimostrano record e statistiche. Ho 6 punte con caratteristiche diverse. Ibra è compatibile con Cavani e Di Maria, ma l’importante è mantenere l’equilibrio. Possiamo fare meglio, per questo il centrocampo è fondamentale».
Ibra arriva a scadenza, potrebbe diventare un problema se non rinnova?
«Il rischio c’è anche perché il suo futuro stuzzica voi giornalisti, tra Milan, Mls, etc. L’importante è che la situazione sia chiara tra lui e il club. Ibra è stato fondamentale al progetto Psg, ma a 34 anni forse pure lui ha voglia di nuovi orizzonti. Decideremo più in là sul da farsi».
Invece Motta ha rinnovato e sembra un allenatore in campo.
«In parte lo è perché ha la grande responsabilità, valorizzante, di garantire la nostra filosofia di gioco. Ha 33 anni, va gestito, ma è fondamentale. Lo vedo bene allenatore, ma dovrà limare un po’ quel caratteraccio (ride, ndr)».
Verratti ormai non si fa più ammonire.
«Grandissimo talento, sicuro di sé, non teme responsabilità, cosa rara alla sua età. Deve essere più efficace in recupero e costruzione. Se vuole arrivare in alto dovrà imparare a rinunciare a volte alla bellezza del gesto».
Quest’anno i suoi danno l’impressione di credere di poter vincere la Champions.
«È un vero miglioramento psicologico dovuto anche all’esperienza accumulata dal gruppo, sommata a quella di giocatori arrivati dopo come David Luiz e Di Maria».
E lei ci crede?
«Esperienza e qualità vanno tradotte in campo e poi dipenderà anche dai sorteggi e dall’indispensabile pizzico di fortuna».
Lei è in scadenza, per cosa cambierebbe?
«Per un progetto altrettanto ambizioso che mi metta nelle condizioni ideali per vincere come a Parigi. In Francia o all’estero».
E in Italia, dove ha sfiorato Inter e Roma?
«Dell’Italia mi piace tutto, dal calcio alla cultura. La serie A sta uscendo dal tunnel con progetti seri. Lo dimostra la finale meritata della Juve in Champions. Bianconeri e Roma possono fare ancora da guastafeste. E osservo con piacere la crescita di Inter e Napoli. E mi piace la Spagna».
Tempo fa disse che non avrebbe fatto questo mestiere a lungo.
«È un lavoro duro, faticoso, snervante, ma mi sono prefissato di vincere un po’ prima di lasciare. Non mi vedo tecnico a 70 anni, salvo se mi renderò conto di aver ancora voglia di vincere».