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 2015  ottobre 10 Sabato calendario

DOVEVA ESSERE SOLTANTO UN GIOCO


[Stefano Bonacini]

Si dice che negli Anni 90 gran parte dei garage di Carpi ospitasse una Ferrari. Nei restanti erano al lavoro altre macchine. Da cucire. È in questo periodo di grande esplosione commerciale che muove i primi passi Stefano Bonacini, proprietario del marchio di moda Gaudì e della matricola della Serie A: quel Carpi che domenica scorsa ha vissuto la prima storica vittoria in serie A (1-0 contro il Torino). «Non ero tra quelli con la Ferrari», precisa subito l’imprenditore, 50 anni. «I primi maglifici in questa zona sono nati nel dopoguerra e trent’anni fa Carpi era la capitale del pronto moda. C’erano circa 3.000 aziende e una quantità di clienti elevatissima. Ecco perché il benessere era diffuso». Ed ecco perché è riuscita a formarsi un’élite di imprenditori con altri marchi molto importanti: Bluemarine, Liu Jo, Twin-Set, Manila Grace (di Maurizio Setti, proprietario dell’Hellas Verona). Un distretto con un giro d’affari da 1,4 miliardi di euro.

Lei però non ha aperto subito il suo garage...
«No, quando avevo 22 anni ero dipendente in un’azienda di plastica che realizzava buste per boutique. La mia era una famiglia modesta: papà aveva una piccola attività e mamma era casalinga. Nessuno lavorava nel settore dell’abbigliamento. Però non era raro che si presentassero opportunità da sfruttare. A me è capitata quasi per scherzo».

Come?
«Lavoravo a queste macchine che stampavano buste con turni non troppo simpatici: dalle 5 del mattino alle 13, dalle 13 alle 21 e dalle 21 alle 5 del mattino. Feci amicizia con un cliente che aveva una sua azienda e gli chiesi: “Dai, tirami fuori da qui”. Mi propose di lavorare per lui, chiarendo che non avrebbe potuto darmi uno stipendio. Mi avrebbe pagato a provvigione. Così a 23 anni cominciai a girare l’Italia in auto come rappresentante con i campioni delle maglie da vendere nei punti vendita. Dopo un anno e mezzo il fatturato dell’azienda passò da 700 milioni di lire a quattro miliardi. E vendevo solo io».
L’hanno nominata amministratore?
«No, mi hanno abbassato la provvigione quando hanno visto che guadagnavo troppo. In effetti a fine mese prendevo più soldi di mio padre. Inizialmente ho accettato ma non ero contento. Poi ho incontrato Roberto Marani, che faceva produzione e un po’ di stile in un’altra azienda. Ci siamo messi in proprio. Ovviamente in un garage. Lavoriamo ancora insieme».

Come l’ha conosciuto?
«Sul campo da calcio. Non ero un gran giocatore, facevamo partitelle tra amici. Eravamo insieme nella squadra della Dorando Pietri. Vent’anni dopo ho rilevato la società, poi si è fusa con il Carpi. E dall’Eccellenza è arrivata in Serie A».

Al posto della Ferrari, lei usava però una vecchia auto delle Poste italiane...
«Alla fine ci si arrangiava, le risorse erano poche. Non c’era neanche un dipendente. Gaudì nasce perché ci piaceva un nome corto, nella moda funziona meglio».

Che numeri fate oggi?
«Ho circa 150 dipendenti e abbiamo chiuso il bilancio 2014 intorno ai 90 milioni. Produciamo dappertutto: in Italia, nell’Ue e anche fuori come in Cina e Turchia. Ma abbiamo riportato nel nostro Paese circa il 30% della produzione. Vendiamo in tutta Europa, l’Italia è il mercato più attivo, poi Ue, Emirati Arabi, Cina, Giappone, Russia. Non siamo negli Usa».

Era in riunione con dei giapponesi la mattina dopo la promozione del Carpi in A. Stava attento a quello che dicevano o aveva voglia di raccontare loro l’impresa?
«A me non piace troppo raccontare e il risultato era solo una questione di date, ma già acquisito. Nelle altre promozioni, invece, siamo stati in bilico fino alla fine. Non voglio sembrare freddo, ma il lavoro è più importante. E poi già mi dovevo concentrare a capire in inglese quello che dovevo dire io e quello che dicevano loro!».

È stato più facile sfondare nell’abbigliamento o nel calcio?
«Impegnativi entrambi. Nella mia azienda ho pilotato sempre io, sono stato padrone del mio destino. Nel calcio mi sono dovuto affidare ad altri: in campo scendono i giocatori. Però con il pallone abbiamo fatto prima».

Il suo motto è “non si fa il passo più lungo della gamba”. Come si fa a non avere debiti nel calcio?
«Mi comporto come succede in una famiglia. Uno può andare quattro volte in vacanza se guadagna 1.500 euro al mese? Ci andrà al massimo una volta. Ci sono anche delle variabili, non è sempre facile controllare la situazione. Noi per esempio abbiamo dovuto cambiare allenatore adesso. Alle volte non è facile tenere la rotta, dire no a un acquisto che ti potrebbe salvare o far vincere un campionato. A volte siamo andati oltre, ma l’abbiamo pagata».
Parlando di Fabrizio Castori disse: “Abbiamo bisogno di gente affamata e non affermata”. Ma lo ha esonerato dopo sei giornate scegliendo al suo posto Beppe Sannino. Un cambio molto criticato da tifosi ed esperti ma che ha già portato alla prima vittoria stagionale. E poi non è così lontano dalla sua Juve...
«Se mi avessero detto che dopo sette giornate sarei stato a 5 punti dalla Juve, avrei firmato! Ma sono i bianconeri ad aver avuto una falsa partenza. Esonerare Castori non è stata una decisione presa a cuor leggero. Ci siamo arrivati dopo aver fatto delle considerazioni attente».

Claudio Lotito ha mai cercato di chiarirsi con lei dopo le dichiarazioni contro il Carpi in A?
«Lui non ha bisogno di dire niente e francamente non mi interessa neanche. Ci siamo visti alle riunioni di Lega e per i calendari, ma ognuno fa la sua corsa».

In un calcio pieno di violenza, rabbia, razzismo avete gli ultrà con il nome più bello di tutta la serie A: Guidati dal Lambrusco.
«Noi non abbiamo mai preso multe, è un posto molto tranquillo. Ovviamente il tifo è rapportato alla città, non consente grandi colpi di testa. È goliardico».
Alla fine dello scorso campionato definì il Carpi una low cost che vince.
«Il passaggio dalla B alla A è completamente diverso da tutti i salti di categoria che abbiamo fatto. Ci sono tutt’altre dinamiche. Stiamo pagando un po’ di inesperienza con ragazzi che giocavano con noi dalla C2. Avevamo messo in conto questa situazione. Infatti abbiamo inserito una decina di giocatori che avevano già esperienza in A».
Adesso che cosa c’è nel suo garage?
«C’è troppa roba: le ditte, i negozi, il calcio. Vorrei far uscire qualche “macchina”. Scherzi a parte, c’è un’attività da mandare avanti in un momento economicamente difficile. Aprire la bottega la mattina e pagare 150 stipendi è già un impegno importante. Ora ci si è messo anche il calcio. Prima era un gioco tra amici, doveva essere una goliardata, invece è un’altra azienda con riflettori enormi e problematiche altrettanto grandi. Finora abbiamo avuto la fortuna di aver solo vinto, in sette anni siamo passati dalla Serie D alla A, un successo senza eguali. Ma se vedi solo il bello, ti abitui e non hai gli anticorpi. Ora iniziamo a vedere il lato negativo della cosa, non siamo partiti bene. Bisogna restare lucidi, valutare gli errori e cercare di sistemare tutto».

Se l’è mai comprata la Ferrari?
«No. Io giro con la Smart».